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Sondic, la storia non si cambia!
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E-book248 pagine2 ore

Sondic, la storia non si cambia!

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Info su questo ebook

Nella primavera del 1944 un drappello di sette partigiani ottenne ospitalità da un colono che lavorava le terre del Marchese Frescobaldi nel comune di Rufina (FI). Truppe tedesche della Hermann Goering presenti nella zona per effettuare rappresaglie a danno degli abitanti sospettati di prestare aiuto ai partigiani, uccisero barbaramente due partigiani e nove civili, fra cui una bambina di appena due anni, fecero razzia di tutto ciò che trovarono e appiccarono il fuoco a case e capanne. Tre dei cinque partigiani superstiti, fra cui Sindic, furono fatti prigionieri e corsero il rischio di essere deportati in Germania.
Dopo 73 anni da questo evento, Marzia, la figlia di Sindic, scopre fortuitamente che suo padre ormai scomparso viene raccontato come spia, traditore e collaborazionista dei tedeschi. Da quel momento, inascoltata dalle istituzioni, inizia una instancabile ricerca della verità fino al ritrovamento di importanti documenti che provano la totale estraneità dei fatti da parte di suo padre e degli altri partigiani!
Marzia chiede l’intervento del Presidente della Repubblica, e Sergio Mattarella accoglie le sue richieste.


Marzia Toci del Medico è nata a Firenze nel 1950 ed è madre di due figlie, Elena e Beatrice. È diplomata in lingue straniere ed ha lavorato come Assistente Amministrativa e Segretaria del Capo del Personale presso una grossa azienda fiorentina e presso la Pubblica Amministrazione. Attualmente vive a Campi Bisenzio con il marito Ivano. Ha l’hobby del riciclo artistico e del giardinaggio. Fa parte della compagnia amatoriale denominata Antiossidante del Teatrodante Carlo Monni di Campi Bisenzio. SINDIC, la storia non si cambia! è la sua prima opera.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mar 2022
ISBN9788830661127
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    Anteprima del libro

    Sondic, la storia non si cambia! - Marzia Toci del Medico

    Marzia, luglio 2017

    Nell’estate del 2017 acquistai un piccolo libretto intitolato La Strage di Berceto, scritto da Vera Vangelisti. Ero curiosa di leggerlo perché mio padre, deceduto ormai da 45 anni, mi aveva raccontato di aver fatto parte di quel drappello di partigiani che nell’aprile del 1944 era stato ospitato dalla famiglia Vangelisti, in località Berceto nel Comune di Rufina, durante la Seconda Guerra Mondiale. Lui non amava parlare di quel periodo della sua vita, ma quell’episodio in particolare me lo aveva raccontato perché proprio in quel giorno erano state uccise tante persone innocenti e lui era stato catturato dai tedeschi e rinchiuso nelle segrete della Fortezza da Basso, insieme a mio zio Dino, anch’egli partigiano e ad un certo Franz, austriaco. Il libro era molto breve quindi lo lessi tutto d’un fiato, e subito mi resi conto che qualcosa non quadrava nella ricostruzione dei fatti. Non sapevo dire se fosse la storia in sé ad essere confusa o se fossero confusi i miei ricordi, quindi decisi di approfondire, facendo un’ulteriore ricerca. Fu così che trovai in internet Una vita trascorsa sotto tre regimi di Lazzaro Vangelisti. Lessi con grande interesse anche quel libro, soffermandomi in particolare sul racconto che l’autore faceva dell’atroce strage avvenuta nella sua abitazione. L’autore descriveva minuziosamente i particolari del momento in cui scoprì i cadaveri di sua moglie e di quattro sue figlie barbaramente uccise.

    Proseguii nella lettura e devo dire che rabbrividii nel leggere il nome per esteso di mio padre, Osvaldo Toci del Medico, più volte associato alla parola spia oppure falso partigiano o traditore. Il sig. Vangelisti sosteneva infatti che i partigiani superstiti in quel 17 aprile 1944 fossero delle spie e collaborazionisti dei tedeschi e quindi corresponsabili della strage avvenuta a Berceto. Quei cinque partigiani erano: Osvaldo Toci del Medico detto Sindic, Dino Bolognesi detto Onid, Franz Skeller detto Franz, Adelindo Bocci detto Carmignano, Carlo Uttummi detto Capino.

    Lessi più volte dall’inizio alla fine i due libri, analizzando ogni singola parola e apponendovi delle note a matita.

    Nei giorni successivi portai avanti una ricostruzione minuziosa di quella giornata ed emerse che le accuse di Lazzaro Vangelisti e delle figlie Vera ed Elina erano veramente assurde e infondate. Infatti essi sostenevano questa tesi, riferita al momento in cui i partigiani furono raggiunti dai tedeschi: i due partigiani uccisi Mauro Chiti detto Maurino e Guglielmo Tesi detto Campi avevano le scarpe ai piedi, mentre i tre partigiani superstiti, che erano con loro nel fienile, Sindic, Onid e Franz erano scalzi; sostenevano inoltre che Maurino e Campi tenessero le mani ben alzate sopra la testa, mentre Sindic, Onid e Franz, al contrario, le tenessero alzate appena sopra le spalle e concludevano che queste due diversità indicavano chiaramente i superstiti come dei traditori. Mi sembrava impossibile che si potesse lanciare un’accusa così grave adducendo delle motivazioni così insignificanti.

    A questo punto mi tornò alla mente ciò che mio padre raccontava dell’inferno che aveva vissuto nel dopoguerra, quando lui ed altri partigiani erano stati ingiustamente accusati di collaborazionismo e concorso in strage, ed erano stati arrestati ed imprigionati nel carcere delle Murate per circa un mese in attesa di indagini, che si sono poi concluse con una sentenza assolutoria per non aver commesso i fatti.

    Decisi di cercare fra gli oggetti di mio padre tutto ciò che potesse aiutarmi a ricostruire la verità. In una vecchia cassetta di legno c’erano tutti i suoi oggetti personali: Carta d’Identità, Patente di Guida, Passaporto, Libretto di Lavoro, Tessera Enpals. C’erano anche i suoi occhiali da vista, il suo orologio Tissot, il suo accendino Ronson. E c’era una cartellina verde che conteneva vecchie buste e lettere inviategli dall’Esercito Italiano, dal Distretto Militare di Firenze, dall’ANPI di Campi Bisenzio, a firma dello storico fondatore Ferdinando Puzzoli; c’era la tessera del Corpo Volontario della Libertà, Divisione d’Assalto Garibaldi Arno, firmata dal Comandante Potente e dal Commissario Politico Giobbe; c’era una copia del Foglio Matricolare, una Croce al Merito di Guerra a seguito di attività partigiana; c’era la Tessera di Riconoscimento di Partigiano Combattente rilasciata dall’apposita Commissione Regionale ed anche un Diploma d’Onore al Combattente per la Libertà d’Italia 1943-1945 firmato nel 1984 dall’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini ed arrivato postumo. Sul fondo della cassetta c’era infine un quaderno a quadretti piccoli, di quelli vecchi, con la copertina arancione, all’interno del quale mio padre aveva incollato dei ritagli di giornale: fra questi c’erano articoli relativi a un’inchiesta fatta dal giornale L’Unità dal luglio all’agosto 1947: si trattava proprio del periodo in cui i quattro partigiani Sindic, Onid, Capino e Carmignano (il quinto, Franz, era scappato e probabilmente tornato in Austria) erano stati arrestati, indagati e scagionati dal Pubblico Ministero Comm. Fumia per non aver commesso i fatti.

    I giornalisti dell’Unità avevano ricostruito la storia in modo preciso e dettagliato, una sorta di serial a puntate, ed avevano lodato l’operato di questi giovani che, nonostante avessero subìto il carcere della Fortezza da Basso e le torture dei tedeschi, erano tornati a combattere con onore nella neonata Brigata Bruno Buozzi.

    Ci sono voluti mesi per mettere ordine fra questi fogli, ma soprattutto nella mia testa perché ero molto confusa. Gli articoli dei giornali erano usurati dal tempo e la loro lettura risultava difficile, quindi li scannerizzai, li trascrissi e li stampai. Digitalizzai ogni singola pagina, foglio, busta o tessera ed archiviai tutto in stretto ordine cronologico, utilizzando cartelline di plastica trasparente.

    Era come ricostruire un puzzle di migliaia di pezzi. Avevo appena messo insieme i tasselli di un dettagliatissimo mosaico, creando la cornice esterna di un intrigante quadro, ma, per completare l’opera, dovevo assolutamente trovare i pezzi mancanti!

    E per farlo dovevo cominciare dall’inizio.

    27 febbraio 1924, nasce Osvaldo

    Osvaldo nacque a Firenze il 27 febbraio 1924 da una modesta famiglia che viveva in zona Pignone. Il Pignone, rione a ridosso delle mura di Firenze dalla parte di San Frediano, era un quartiere di gente semplice. Era la prima vera zona industriale della città dalla seconda metà del 1800, dopo il rapido sviluppo del settore metallurgico grazie alla fonderia del Pignone e proprio in via della Fonderia abitavano Armando e Assunta.

    Quando Assunta aveva iniziato a sentire i primi dolori del parto durante la notte, Armando era corso a chiamare la Gina, la levatrice storica del rione, che aveva fatto nascere quasi tutti i bambini del quartiere. Appena entrata in casa, la Gina aveva chiesto ad Armando di far bollire dell’acqua e di portarle lenzuola e asciugamani puliti, dopodiché lo aveva chiuso fuori dalla stanza in attesa della nascita del figlio. Il parto all’epoca non era considerata una cosa da uomini, era un’esperienza riservata solo alle donne di casa. La Gina operava con la calma che caratterizza le persone dotate di esperienza; aveva fatto nascere centinaia di bambini e anche questa volta sarebbe andato tutto bene; le tornò alla mente come un flash quella volta in cui aveva causato danni alla spalla di un neonato cercando di estrarlo col forcipe, ma scacciò immediatamente questo pensiero negativo e si concentrò su Assunta che era una ragazza giovane, forte e per niente impaurita da questa nuova esperienza, dal momento che lavorava lei stessa come infermiera presso il vicino Ospedale di Careggi.

    Dopo aver lavato e pulito la ragazza con acqua bollita e sapone per garantirle la giusta igiene, legò un asciugamano arrotolato alla testata del letto in modo che Assunta potesse stringerlo e tirarlo per alleviare il dolore e iniziò a parlarle dolcemente, come a una figlia:

    «Ricordati Ada che il dolore del parto rappresenta il volere di Dio, devi sopportarlo perché solo così potrà aumentare il tuo istinto materno! Cerca di respirare profondamente, e vedrai che nascerà più in fretta questo bel maschietto!»

    «Come fai a sapere che è maschio?» chiese Assunta riprendendo fiato tra una contrazione e l’altra.

    «Ah! Si vede dalla pancia! Hai la pancia stretta e appuntita: è un maschio per forza!»

    Intanto Armando, fuori dalla stanza, vagava per il corridoio fumando per il nervosismo. Non riusciva a sentire niente di quello che stava succedendo, tranne qualche gridolino di dolore della moglie, intervallato da strani momenti di silenzio durante i quali si sentiva soltanto un leggero bisbiglìo. Passarono circa sei ore; quando ormai iniziava ad albeggiare, si sentì il primo pianto del bambino e Armando si recò subito verso la stanza cercando di aprire la porta, ma la Gina lo spinse fuori con fare deciso.

    «Ancora un po’ di pazienza Armando! Non è ancora il tuo momento!»

    «Ma è maschio o femmina?» chiese lui emozionato.

    «È maschio, è maschio!», rispose la Gina ritrovando subito sul viso di Armando quello sguardo misto tra sollievo e orgoglio che vedeva sulla faccia di tutti i papà che scoprivano di aver avuto un primogenito maschio.

    Solo dopo un’ora, quanto ormai la stanza era stata ripulita, le lenzuola cambiate, Assunta era stata vestita con la sua miglior camicia ricamata e il piccolo era stato lavato ed avvolto in una copertina cucita a mano, Armando poté entrare in camera e conoscere il suo primogenito Osvaldo.

    La famiglia di Osvaldo

    La casa dove abitavano era un ex convento di suore adibito ad abitazione, ma non era di loro proprietà poiché pagavano la pigione. Il loro era uno dei tre appartamenti che si affacciavano su un grande pianerottolo quadrato situato al secondo piano. Per accedervi si dovevano salire quattro rampe di scale molto strette e buie, dove stagnava sempre un acre odore misto tra muffa e urina. I gradini erano in pietra, molto alti, e le pareti, anch’esse in pietra, erano levigate e lucidate dalle mani che vi si appoggiavano per salire e per scendere, se pur ci fosse ancorata una grossa corda che fungeva da corrimano.

    Assunta Bianchini era una bella donna dagli occhi verdi che camminava impettita e indossava sempre scarpe con un po’ di tacco, anche quando andava a fare la spesa. I capelli neri li portava tirati indietro e legati strettamente alla nuca, dove applicava una crocchia posticcia dello stesso colore, tenuta ferma da una serie di forcine, anch’esse nere.

    Faceva l’infermiera all’Ospedale di Careggi; lavoro al quale era arrivata iniziando a faticare come inserviente in ospedale. Assunta era una ragazza sveglia e intelligente, talmente intelligente per essere una femmina, che ai genitori era sembrato superfluo farla studiare, così l’avevano mandata a lavorare. Ben presto si era resa conto che spesso in ospedale c’era bisogno, non solo di garantire una corretta pulizia, ma anche di assistere i malati ed aiutare i medici, così le sue mansioni erano pian piano cambiate e, col passare del tempo, aveva iniziato a svolgere il lavoro di infermiera. Il suo nome Assunta non le piaceva per niente, quindi si presentava sempre come Ada, un nome a suo dire più adatto a lei. E tutti la conoscevano come la bella Ada, la moglie di Armando il barbiere.

    Il padre di Osvaldo, Armando Toci del Medico, era un barbiere, con una smodata passione per il gioco delle carte. Questa sua passione si era presto trasformata in un vizio che l’aveva portato a sperperare tutto il patrimonio di famiglia, fino a costringerlo a vendere di nascosto il negozio dove svolgeva la sua attività per ripagare i debiti di gioco. Una volta venduto il negozio, l’unica possibilità che gli rimase fu quella di lavorare a casa, quindi aveva allestito in un angolo del grande pianerottolo un vero e proprio salone, dotato di tutti i comfort: c’era un grande specchio quadrato attaccato alla parete, c’era una comoda poltrona imbottita reclinabile, un bancone per gli attrezzi del mestiere e teneva sempre dei piccoli calendari con immagini di donne prosperose, profumati alla violetta, che regalava ai clienti, come cotillon.

    Fin da bambino Osvaldo amava guardare suo padre che lavorava. Lo osservava applicare con gesti circolari del pennello la schiuma bianca sulle guance e sul collo del cliente; poi Armando agitava in modo spettacolare il lungo e tagliente rasoio che passava più volte sulla coramella, una striscia di cuoio che permetteva di ravvivare il filo del rasoio, infine teneva la punta del naso del cliente fra il pollice e l’indice della mano sinistra, mentre con la destra rimuoveva delicatamente schiuma e peli con pochi gesti abili e precisi. Al piccolo Osvaldo non era consentito di toccare pennello e rasoio, ma qualche volta il padre gli permetteva di appoggiare i panni sul viso del cliente. Il panno caldo, come spiegava ogni volta a suo figlio, doveva essere applicato prima della rasatura e serviva per far rilassare il cliente e per far dilatare i pori, in modo da permettere una rasatura più profonda; quello freddo, invece, doveva essere applicato alla fine, per prevenire gli arrossamenti e rendere la pelle più morbida. Osvaldo prendeva con molta serietà questo incarico, saliva su un panchetto di legno appositamente creato per lui e svolgeva questo compito con molta attenzione, stringendo in modo buffo le labbra. In questo modo la rasatura risultava perfetta e quando i clienti se ne andavano contenti, Osvaldo si sentiva orgoglioso per aver aiutato il padre.

    Nel 1927, quando Osvaldo aveva solo tre anni, nacque Luciana, una bella bambina mora. All’inizio Osvaldo si lamentava di questa nuova intrusa che la notte strillava e non lo lasciava dormire e si lamentava sempre che avrebbe preferito un fratellino, ma crescendo crebbe anche l’affetto per la sorella che si rivelò sempre più simpatica e buffa, soprattutto quando ripeteva con la sua vocina stridula le parolacce che Osvaldo le insegnava di nascosto dai genitori.

    Famiglia Toci del Medico al completo

    Osvaldo era un ragazzino di media statura e un po’ gracilino, le gambe come due manici di scopa, gli occhi verdi e un ciuffo di capelli castani e lisci che gli cadevano sull’occhio sinistro e che la madre regolarmente tagliava prendendo la misura con la pentola piccola rovesciata sulla sua testa. Quando aveva in mente qualche birbonata il labbro superiore si alzava donandogli un’espressione furbetta che Ada riconosceva come sinonimo di guai. Oltre ad essere un bambino vivace, era anche molto intelligente e curioso ed avendo una gran sete di conoscenza faceva continuamente domande a tutti e su tutto. I suoi genitori, che non avevano potuto studiare, non avevano tutte le risposte alle sue domande, che con l’avanzare dell’età erano sempre più incalzanti e precise: lo incoraggiarono perciò ad andare avanti con gli studi.

    Nella sua classe Osvaldo era il più basso, ma la sua furbizia e la sua vivacità lo portavano ad essere apprezzato da tutti gli altri bambini, che lo rispettavano e lo seguivano come un leader. Amava molto la scuola, soprattutto le materie scientifiche e il disegno. Ogni mattina indossava il grembiule nero con il fiocco oppure la divisa, se c’era ginnastica, e si recava a piedi a scuola. Nella sua classe c’erano circa quaranta bambini, ma la maestra con il suo fare severo e militaresco riusciva comunque a

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