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L'ascesa di Adolf Hitler
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E-book757 pagine10 ore

L'ascesa di Adolf Hitler

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Info su questo ebook

Come nacque e si affermò il nazismo in Germania nel primo trentennio del Novecento

Come e perché il Führer scosse le fondamenta della società tedesca
Alla fine degli anni Venti, dopo dieci anni di invettive ed esortazioni, Hitler era riuscito a persuadere solo il 2,6% dell’elettorato tedesco a votare per lui, mentre il 97% continuava a ignorarlo o a respingerlo. Poi, nello spazio di due anni, la percentuale di uomini e donne che lo volevano cancelliere del Reich arrivò al 18% e due anni dopo al 37%. Eppure non c’era nulla di diverso nella sua irruente dottrina. Hitler continuava a ripetere le stesse cose e a fare le stesse promesse. Neanche lo stile era mutato. La voce roca, le pose patetiche, i modi che sembravano così assurdi agli osservatori esterni, il flusso oratorio erano esattamente gli stessi. Ma se all’inizio Hitler parlava a se stesso e a pochi, indefiniti discepoli, ora a un terzo del popolo tedesco. L’uomo che ad alcuni era sembrato un “cacciatore di dote”, un paparazzo da spiaggia di una malandata stazione balneare ora appariva come un cavaliere in splendida armatura, il vero Führer. Sotto molti aspetti il nazismo era antitetico a quello che la grande massa dei tedeschi diceva di ammirare: era turbolento, indisciplinato, vanaglorioso, il leader uno straniero semianalfabeta, feroce, fanatico e amorale. Tuttavia, dal 1930 in poi, Hitler fece proseliti nelle grandi imprese, negli ambienti bancari, nell’industria e un po’ alla volta in tutti gli strati sociali. Come poté conquistare la nazione? Cosa accadde nello spazio di tre-quattro anni? Eugene Davidson analizza con estremo rigore la situazione della Germania nei primi trent’anni del Novecento e ci spiega come l’ascesa al potere di Hitler non vada attribuita ad un unico fattore, ma considerata parte di una serie di eventi che scossero tutte le fondamenta della società tedesca.

In questo volume:

Germania: la terra promessa
La guerra e il caporale
Il vuoto dopo la sconfitta
Il nemico è a destra
Scie d'argento all'orizzonte
L'epoca della croce uncinata
La presa del potere… e molto altro!

«Lo scrittore e storico Eugene Davidson ha realizzato un lavoro di grande qualità, una gemma rara che contrasta nettamente con gli standard spesso superficiali di oggi.»
Washington Star

«Un’analisi complessa e profondamente sentita che prende in considerazione trent’anni di storia della Germania prima dell’ascesa al potere del nazismo.»
Kirkus Reviews
Eugene Davidson
Autore di numerosi libri sul regime nazista, tra i quali The Nuremberg Fallacy, è stato Presidente Emerito del Congresso sui problemi dell’Europa e Presidente della Fondazione per gli Affari Esteri. È scomparso nel 2002. La Newton Compton ha pubblicato L’ascesa di Adolf Hitler, La disfatta di Adolf Hitler e Gli imputati di Norimberga.
LinguaItaliano
Data di uscita11 mag 2015
ISBN9788854177628
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    Anteprima del libro

    L'ascesa di Adolf Hitler - Eugene Davidson

    1

    L’AUSTRIA

    Lo incontrai nel 1920, un tipo stravagante, a casa del mio amico Clemens zu Franckenstein, che allora viveva a villa Lenbach. Secondo il maggiordomo, l’uomo non era voluto andar via e aveva atteso per un’ora. Ed eccolo lì! Era entrato in casa di Clé (Clé fino al tempo della rivoluzione era stato il direttore generale del Teatro Reale) dicendo di essere interessato alla scenografia lirica, pensando che fosse qualcosa di simile alla sua precedente attività di pittore e tappezziere. Estraneo del tutto sconosciuto, si era presentato tutto in ghingheri, en plein carmagnole, per così dire, a casa di un uomo che non aveva mai visto prima, indossando gambali da cavallerizzo, un frustino, un cappello a cencio e con un cane da pastore al seguito. Tra i Gobelin e le fredde mura di marmo sembrava un cowboy cui fosse parso appropriato presentarsi in pantaloni di cuoio, speroni enormi e una Colt per sedersi sui gradini di un altare barocco. Con lo sguardo allampanato e anche un po’ affamato, si sedette lì con la faccia di un capo-cameriere rimproverato, compiaciuto quanto inibito per essere alla presenza di un vero Herr Baron, talmente in soggezione da appoggiare solo metà del suo ascetico posteriore, facendo schioccare la frusta ogni qual volta l’ospite faceva, gentilmente ma freddamente, qualche sporadica osservazione, allo stesso modo in cui un cane bastardo affamato si getta su un osso che gli è stato lanciato.

    Dopo aver discorso del più e del meno, prese il controllo della conversazione e iniziò a pregare come un cappellano di reparto. Benché non avessimo provocato alcuna discussione, evidentemente per una reminiscenza inconscia dell’acustica del Zirkus Krone, le sue urla raggiunsero un volume tale che alla fine il personale di casa Franckenstein arrivò in massa nella stanza per proteggere il mio amico. Quando andò via, ci sedemmo in silenzio, impotenti, per nulla divertiti e con la spiacevole sensazione che si ha quando ci si accorge che l’unico compagno di viaggio nello scompartimento ferroviario è pazzo. Restammo seduti a lungo prima di ricominciare a parlare. Infine, Clé si alzò e aprì una delle enormi porte-finestre per far entrare la tiepida aria primaverile del foehn. Non potrei dire che il tetro ospite fosse sporco e avesse inquinato l’aria col suo rustico stile bavarese; tuttavia, dopo aver inspirato profondamente più volte, riuscimmo a liberarci delle nostre spiacevoli sensazioni. Non era un corpo sporco ad aver infettato la stanza, ma piuttosto lo spirito immondo di un mostro¹.

    Questo fu l’aspro e non del tutto puntuale giudizio di uno dei contemporanei di Adolf Hitler (Hitler non aveva mai fatto il pittore o il tappezziere); tuttavia, anche tanti altri che ebbero modo di vederlo e ascoltarlo agli albori della sua attività politica provarono la stessa repulsione. Unanime parere espressero uomini di lettere, soldati, politici di Destra e di Sinistra e quasi tutti i giornali, ad eccezione di pochissimi considerati stravaganti dalla maggior parte dei tedeschi, come quello del Partito nazionalsocialista, il «Völkischer Beobachter». Perfino nel 1928, quando Hitler predicava il suo vangelo di odio e salvezza da nove anni, il suo partito ottenne meno del tre per cento (2,63%) dei voti complessivi alle elezioni parlamentari. Come riuscì, allora, quest’uomo che, come disse un osservatore, sembrava un fotografo da spiaggia di una malandata stazione balneare, con scarse risorse finanziarie e culturali, a diventare in pochi anni l’uomo più potente della Germania e, per un certo periodo, del mondo?

    La risposta non va ricercata solamente nel personaggio di Hitler o in qualche genere perverso di miracolo tedesco. Nonostante i numerosi saggi sull’argomento, vale la pena di continuare ad investigare, perché l’enigma resta irrisolto.

    Adolf Hitler era nato in una delle zone più periferiche di una comunità tedesca, che era a sua volta una congerie di province. In Mein Kampf, Hitler descrive suo padre come un uomo di mondo, ma l’ufficiale di dogana austriaco, salito dall’attività di calzolaio a quella borghese di pubblico ufficiale, era ben lontano dall’esserlo, come pure la maggior parte dei suoi vicini. Erano gretti campagnoli, che vivevano in chiuse enclave etniche nel mezzo di uno Stato poliglotta e che guardavano con immediato sospetto qualsiasi cosa o persona fosse diversa da loro. Detestavano non solo gli ebrei ma tutti gli stranieri – protestanti tedeschi e cattolici italiani che condividevano con gli austriaci le montagne tirolesi e altre deplorevoli nazioni che facevano parte dell’impero austro-ungarico: polacchi, cechi, ladini, sloveni, croati, serbi, slovacchi, ruteni, valacchi e tutti gli altri.

    La duplice monarchia era costituita essenzialmente da una libera associazione di razze, ciascuna territoriale, che mostrava i denti ogni qual volta un’altra nazione manifestava l’aspirazione a governare, il che poteva accadere solo a spese della propria integrità e autostima. Le popolazioni austroungariche vivevano in un’atmosfera di fieri conflitti e lealtà tribali, in una monarchia detta Kaiserliche (imperiale) e Koenigliche (reale). Si trattava, infatti, sia di un impero che di un regno, dal momento che l’imperatore d’Austria era anche re d’Ungheria, Boemia, Dalmazia, Croazia, Slovenia, Gerusalemme e di molti altri territori nonché sovrano di oltre una dozzina di minoranze etnico-religiose residenti.

    L’Austria aveva una lunga storia di popolazioni multietniche. Quattrocento anni prima della nascita di Cristo, i Celti erano emigrati in Austria dalla Spagna; i Romani, i Tedeschi, un popolo tartaro chiamato Avari e gli Slavi si erano insediati lì e avevano lasciato la propria impronta sul paese e sulla popolazione successiva, anche dopo essere andati via. Il termine con cui i Tedeschi designarono gli invasori romani fu Walsch o Welsch e nomi come Walgau, Walchensee e Seewalchen traggono origine dagli insediamenti romani. Un’eco slava si ritrova in parole come Feistritz (da Bistrica, acqua corrente), Fladnitz (da Blatnica, acqua palustre), Liesing (da Lesnica, ruscello dei boschi), Gòrach (da Gora, montagna) e Gortschak (da Gorcia, collina). Anche i nomi romani furono germanizzati: Anula divenne Anif, Lentia Linz, Janiculum Gnigl e Cucullae Kuchl. Salisburgo era ancora conosciuta sia col nome latino dell’vm secolo Juvavia che con quello tedesco. Vienna era chiamata dai romani Vindobona, da un simile nome celtico, e dal IX secolo fu chiamata Wenia o Venia.

    I paesini della Bassa Austria, da cui provenivano gli Hitler o Hiedler o Huttler (anche questo nome ha parecchie varianti), come pure gli Schicklgruber (che significa scavatore di siepi) e i Pòlzl da parte materna di Hitler erano, come la maggior parte degli insediamenti austriaci, esteriormente omogenei; la presenza di elementi non tedeschi non era né numerosa né cospicua, in confronto alla schiacciante maggioranza di lingua tedesca. Anche in queste province, tuttavia, coloro che non avevano origini germaniche si erano sposati con tedeschi oppure, in alcuni casi isolati, rimasero corpi estranei indigesti.

    Nell’Alta Austria erano scoppiati dei tumulti quando Hitler aveva quindici anni. Una facoltà italiana era stata riconosciuta come sede della Facoltà di legge dell’Università di Innsbruck (fino alla fine del XVIII secolo, quando fu sostituito dal tedesco, il latino era stato la lingua ufficiale dell’insegnamento nelle università austriache). Gli studenti italiani si erano radunati in una locanda per festeggiare l’evento. Durante le controdimostrazioni molti italiani erano stati arrestati ed erano stati sequestrati loro quaranta revolver². Gli austriaci tedeschi erano sempre convinti della necessità di difendere il proprio linguaggio e la propria cultura dagli stranieri che li circondavano, anche se spesso venivano identificati con loro³.

    Adolf Hitler aveva un prozio, che era forse un nonno sia da parte materna che paterna, di nome Nepomuk⁴ e il nome Hitler è probabilmente di origine ceca, germanizzato da Hidlar o Hidlarcek. Sebbene Adolf Hitler e migliaia di suoi compaesani continuassero a idolatrare l’immagine del tedesco alto, biondo e con gli occhi azzurri come archetipo della famiglia teutonica alla quale appartenevano, non molti di loro rispecchiavano questa figura venerata. Hitler era, infatti, quello che gli antropologi dell’epoca definivano un tipo alpino, di sangue chiaramente misto, con capelli castani e di media statura; solo i suoi occhi azzurri combaciavano con l’idealizzato archetipo.

    L’ascesa socioeconomica del padre di Hitler, Alois, era ormai compiuta quando nacquero i suoi figli. Alois Hitler era il figlio illegittimo di Maria.

    Anna Schicklgruber, natia del paesino di Strones, che lo partorì all’età di quarantadue anni. Maria era una gran lavoratrice e si manteneva facendo la domestica. Né lei né il marito Johann Georg Hiedler, che sposò a quarantasette anni, possedettero mai una casa propria, nonostante Maria Anna non fosse propriamente povera. Alla nascita di Alois, la modesta eredità ricevuta dalla madre ammontava a 168 fiorini olandesi, un po’ meno della metà della somma necessaria per acquistare una piccola fattoria, mentre la casa colonica dei suoi genitori valeva la considerevole somma di 3000 fiorini. La ragione per la quale Johann sposò Maria Anna a cinque anni dalla nascita del bambino (di cui forse non era neanche il padre), che Johann non riconobbe mai legalmente e di cui non si curò mai in tutta la vita, fornisce un interessante spunto per la speculazione. Ad ogni modo, Alois restò un figlio illegittimo finché visse Johann Georg Hiedler e per molto tempo dopo la morte del suo presunto padre; sebbene in Austria e nella Germania meridionale, come pure in altre parti del mondo romano-cattolico, l’illegittimità non fosse stigmatizzata come accadeva in regioni più puritane (all’epoca il 40% dei bambini nati nella Bassa Austria era illegittimo e di solito veniva riconosciuto successivamente alla nascita), era, però, una condizione che di rado portava ad un avanzamento all’interno della comunità⁵. Alois Hitler, o Schicklgruber, come si fece chiamare fino all’età di quarant’anni, dovette attendere molto tempo prima di diventare, non senza difficoltà, un ufficiale rispettato della dogana della monarchia Kaiserliche e Koenigliche. All’età di diciannove anni, in possesso della sola licenza elementare, era riuscito a terminare l’apprendistato da calzolaio, iniziato all’età di quattordici, e ad entrare in dogana, dove rimase fino al suo precoce ritiro a cinquantanove anni. Aveva fatto carriera in fretta all’interno della dogana, facendosi valere tanto quanto i suoi colleghi che avevano conseguito l’Abitur, il loro diploma, in un ginnasio, che non si sarebbe mai sognato di frequentare. Aveva ricoperto numerosi posti nell’Alta Austria; a Saalfelden vicino Salisburgo, a Linz e a Braunau am Inn, dove era stato ispettore di dogana e dov’era nato Adolf.

    Alois Hitler era profondamente orgoglioso della propria carriera (una volta aveva scritto ad un parente di sua madre: «Da quando mi hai visto l’ultima volta sedici anni fa... ho percorso molta strada»⁶) e della sua posizione sociale all’interno della comunità, dove era ritenuto un progressista e un regolare habitué delle osterie, sebbene bevesse solo birra e vino in quantità moderate. Come fregio della sua posizione, era solito portare la barba come l’imperatore Francesco Giuseppe e, in occasioni speciali, ad esempio il compleanno dell’imperatore, appariva in alta uniforme, secondo quanto previsto per gli ufficiali al servizio dell’Impero.

    È ignoto chi fosse il padre di Alois. La storia più bizzarra è quella raccontata da Hans Frank, devoto seguace di Hitler, consigliere legale del Partito nazionalsocialista durante la violenta ascesa al potere di quest’ultimo e poi governatore generale della Polonia.

    Nel 1930 Frank fu incaricato da Hitler stesso di indagare sulla misteriosa nascita di Alois Hitler, per dissipare le fastidiose dicerie sulla macchia non ariana dell’albero genealogico di Hitler. A Norimberga Frank scrisse, prima della sua esecuzione, che le storie diffuse dal fratellastro di Hitler sulle presunte origini ebraiche di Adolf erano state pubblicate intorno al 1930 da vari giornali⁷.

    Nelle sue indagini Frank scoprì, o almeno così credette, che la signorina Schicklgruber aveva lavorato in un una casa di ebrei di nome Frankenberger a Graz, nella Bassa Austria, e che il padre del bambino da lei partorito potesse essere il giovane figlio della famiglia per la quale lavorava. Frank scrisse che i Frankenberger avevano pagato alla signorina Schicklgruber gli alimenti per il bambino, finché questi compì quattordici anni, e che, quando lasciò il suo impiego, aveva mantenuto per molti anni una cordiale corrispondenza con la famiglia.

    Ad un esame più attento, tuttavia, la storia non appare credibile. È stato notato che Frankenberger non è un nome ebreo e gli unici ad avere questo cognome a Graz erano i cattolici; inoltre, i Frankenberger non avevano un figlio che potesse essere il padre di Alois, in quanto era più piccolo di Alois stesso.

    Sono sconosciute le ragioni e le fonti da cui Frank trasse e pubblicò questa storia nel libro All’ombra della forca. Frank, l’uomo che a Norimberga disse: «Tra mille anni questa colpa della Germania non sarà stata ancora cancellata», era stato uno degli antisemiti più fanatici fra tutti i nazisti e, sebbene a Norimberga avesse pienamente riconosciuto i terribili errori commessi da lui e dal suo partito, è probabile che ritenesse in qualche modo responsabili gli ebrei stessi per il genocidio perpetuato a loro danno. È anche possibile che avesse prestato credito alla storia che gli fu raccontata. Erano parecchie le voci che circolavano sul lignaggio ebreo di Hitler e, non importa quanto fossero assurde, furono ritenute vere da molti di quelli che ebbero modo di ascoltarle. Josef Greiner, un uomo che affermava di conoscere Hitler e che certamente lo detestava, disse che il nome derivava da Hut (cappello o guardia) ed era, pertanto, un costrutto come tutti i nomi ebrei. Il 14 ottobre 1933 apparve un articolo sul quotidiano londinese «Daily Mirror», corredato da una fotografia che mostrava l’immagine di una lapide funeraria in un cimitero ebreo di Bucarest con un’iscrizione ebraica recante il nome di Adolf Hitler, probabilmente quello di un nonno del Führer. Questo Hitler, tuttavia, prima di essere sepolto a spese di una società filantropica ebrea, aveva cambiato il proprio nome da Avraham Eliyohn; ciò, però, non dimostrava che Hitler fosse ebreo. Nondimeno, nell’Europa orientale esistevano effettivamente degli ebrei con quel nome, anche se non c’è traccia di una loro possibile emigrazione in Austria, o, se questa vi fu, di un loro possibile legame con gli Hiedler o Hüttler.

    Una congettura più plausibile è quella secondo cui non Johann Georg, bensì suo fratello Johann Nepomuk fosse il padre di Alois Hitler. Johann Nepomuk era un colono facoltoso e Alois crebbe a casa sua fino all’età di sedici anni. Fu proprio Nepomuk a riconoscere Alois nel giugno 1876, diciannove anni dopo la morte di Johann Georg, al cospetto di tre testimoni analfabeti che firmarono le deposizioni scritte dal prete con la croce⁸. Questi testimoniarono che Johann Georg, prima della morte avvenuta nel 1857, aveva riconosciuto, alla loro presenza, la propria paternità e il prete di Döllersheim, con l’approvazione dei suoi superiori ecclesiastici e delle autorità civili, aveva potuto garantire la legittimazione col nome Hiedler o, più probabilmente, Hüttler, ma scrisse Hitler per sbaglio.

    Molti elementi fanno pensare che Nepomuk fosse il padre di Alois. Uno di essi è rappresentato dalle premure dimostrate verso il ragazzo, la sua disponibilità ad accoglierlo come membro della famiglia, passo che dev’essere stato approvato dalla moglie di Nepomuk, un donna volitiva e più vecchia di lui di quindici anni, che avrebbe potuto anche avere una reazione violenta se il marito avesse apertamente riconosciuto Alois come suo figlio. Un’altra prova circostanziale è che Johann Georg, quando sposò Maria Anna Schicklgruber cinque anni dopo la nascita del bambino, non lo riconobbe mai come figlio né allora né in seguito. Perché avrebbe dovuto sposare una donna di quarantasette anni e non adottarne il figlio, se fosse stato veramente suo? Inoltre, la madre di Alois non aveva indicato Johann Georg come il padre del bambino né quando fu battezzato né dopo essersi sposata, sebbene, secondo gli usi locali, normalmente avrebbe dovuto fare entrambe le cose. Nel 1888, inoltre, l’anno in cui morì Nepomuk, Alois Hitler comprò, vicino a Spital, una casa e una proprietà considerevoli del valore di 4000 fiorini olandesi. Nepomuk non lasciò nulla agli speranzosi eredi, e fino ad allora Alois non aveva mai fatto un acquisto di simili proporzioni, né sarebbe riuscito a farlo in tempi tanto rapidi solo col suo salario di ufficiale. È probabile che Nepomuk, convincendo il fratello squattrinato a sposare Maria Anna, abbia potuto allevare il ragazzo in casa sua e infine riconoscerlo. Anche questa, però, è una congettura.

    Quello che è certo è che vi fu incesto nella famiglia di Adolf Hitler. Alois Hitler sposò Klara Pölzl, il cui nonno materno si chiamava Johann Nepomuk Huttler, cosicché, se Nepomuk era il padre di Alois, era il nonno paterno di Hitler nonché il bisnonno materno. E anche se non Nepomuk ma Johann Georg fu legalmente dichiarato il padre di Alois, quando questi e Klara si sposarono dovettero in ogni caso ottenere una dispensa speciale da Roma a causa della loro stretta parentela.

    Non sorprende il fatto che Alois Hitler, cresciuto tra analfabeti e debitore solo con se stesso per la posizione sociale acquisita all’interno della borghesia con strenui sforzi per migliorarsi culturalmente e professionalmente, avesse spinto i propri figli a seguire il suo esempio per elevarsi socialmente ed economicamente.

    Tre dei suoi figli, due maschi e una femmina, morirono quand’erano molto piccoli e un altro all’età di sei anni, mentre quattro sopravvissero: Adolf, sua sorella Paula, Angela – una sorellastra – e Alois – un fratellastro. Il padre era così ambizioso per i figli e teneva tanto che essi mantenessero lo stato sociale borghese della famiglia, che allontanò da casa il figlio Alois quando aveva solo quattordici anni. Il giovane Alois si manteneva con lavori saltuari come cameriere e lavoratore ambulante. Fu arrestato due volte per furto. In seguito, si trasferì a Parigi e in Irlanda, dove si sposò e nacque suo figlio Patrick. Successivamente, fu nuovamente arrestato ad Amburgo per bigamia. Alla fine, dopo che il fratellastro era diventato cancelliere, aprì un ristorante a Berlino.

    Il padre di Hitler non ebbe con Adolf miglior fortuna di quanta ne avesse avuta con Alois nel farlo diventare uno studente rispettabile. Adolf era troppo simile a suo padre per essere un figlio remissivo e fare ciò che i suoi vecchi si aspettavano da lui; anche lui era testardo e determinato, ma nel senso opposto. Scrisse in Mein Kampf che, quando era uno studente, sapeva quello che voleva fare – il pittore – e sapeva con assoluta chiarezza di non voler seguire le orme di suo padre. Alla Volkschule, che frequentò per cinque anni, Adolf si era rivelato un bravo studente. Quando, però, si iscrisse controvoglia alla Realschule a Linz e poi a Steyr – resistette ostinatamente finché fu costretto dal padre – la sua carriera scolastica subì una battuta d’arresto. Adolf dovette ripetere il primo anno alla Realschule a Linz; al terzo anno fu bocciato in francese e fu costretto a sostenere due volte l’esame di ammissione al quarto anno in un’altra Realschule a Steyr. Qui, al trimestre di febbraio del 1905, Hitler fu bocciato in tedesco, francese, matematica e stenografia; anni dopo raccontò che la prima e unica volta in cui si ubriacò fu alla festa di fine semestre in un’osteria locale, durante la quale scambiò erroneamente la pagella con la carta igienica. Ad ogni modo, i voti finali dell’anno 1904-1905 migliorarono, ma quella data segnò anche la fine dell’istruzione di Hitler⁹. Complessivamente, Hitler trascorse dieci anni a scuola, portando a termine nove classi e barcollando nelle ultime quattro.

    Adolf vedeva pochissimo suo padre Alois, almeno finché questi non andò in pensione. Il lavoro lo teneva lontano da casa per periodi molto lunghi, che trascorreva coltivando la sua passione per l’apicoltura e frequentando osterie. Quando Alois e il figlio si vedevano, scoppiavano puntualmente accese discussioni sui deplorevoli voti di Adolf. In Mein Kampf Hitler tratteggia la figura del padre con dovizia di particolari, descrivendolo come «il vecchio gentiluomo» e «un uomo di mondo», e la sua posizione di funzionario statale era qualcosa che gli dava un senso di repulsione e di cui, al tempo stesso, era fiero. L’amico d’adolescenza di Hitler August Kubizek¹⁰ riferisce che Adolf nelle loro conversazioni non perdeva occasione per vantarsi della posizione del padre, mentre un altro memorialista, Josef Greiner, scrisse che quando Hitler cercò di farsi ammettere all’Accademia delle arti figurative, pensò di avere buone possibilità perché i professori erano ufficiali governativi come suo padre. Tuttavia, aborriva l’idea di seguire la carriera del padre. Adolf sognava di realizzare progetti ben più ambiziosi senza noiosi preliminari.

    Adolf era molto più legato alla madre, la quale, tuttavia, non ebbe miglior fortuna del padre nel persuaderlo a studiare quando frequentava la Realschule. Alois Hitler morì quando Adolf aveva tredici anni. Kubizek descrive il profondo dolore di Hitler per la perdita del padre. Nondimeno, alle sue emozioni si accompagnava un senso di sollievo per essersi liberato dai continui rimproveri di suo padre, e alla fine riuscì a vincere la battaglia contro la Realschule. Due anni dopo la morte di Alois, la madre di Hitler gli permise di lasciare la scuola. Lo aveva colpito una malattia provvidenziale, che lo costrinse a casa per alcune settimane. Resta oscura la natura della sua malattia. Hitler la definì una malattia polmonare, mentre un dottore, dal quale non fu mai visitato, diagnosticò un’encefalite¹¹. Ad ogni modo, la malattia lo liberò dall’odiata scuola ed egli trascorse i due anni seguenti a «mangiare pane e burro», come soleva dire.

    Klara Pölzl era una madre indulgente e pretendeva poco da Adolf; in compenso, questi le era estremamente devoto. Nel 1906 gli permise di visitare Vienna per la prima volta ed in seguito di vivere lì, finché la malattia non le consentì più di badare alla casa e prendersi cura della figlia Paula. Che Hitler ricambiasse l’affetto è dimostrato dal fatto che, se si deve prestare fede a quanto scrive Kubizek, quando tornò a Linz (Angela si era sposata nel 1903), Hitler si fece carico di tutte le faccende domestiche, lavando, cucinando, pulendo, strofinando i pavimenti e correggendo i compiti di Paula. Questa storia potrebbe essere apocrifa, dal momento che Johanna, la sorella di Klara Pölzl, era disponibile a dare una mano coi lavori domestici, così come lo era Angela.

    Hitler aveva un rapporto freddo ma cordiale con la sorella e la sorellastra; anni dopo, alla morte della madre, rinunciò alla sua parte dell’assegno governativo previsto per gli orfani, cedendola a Paula. Sebbene non avesse voluto vivere con Angela e la sua famiglia a causa dell’antipatia nutrita per il marito, in seguito la invitò a dirigere la sua casa di Berchtesgaden e s’innamorò perdutamente della nipote Geli.

    Ciò che Hitler apprese alla Realschule e divenne la parte più solida del suo bagaglio intellettuale, molto più di quanto non lo fossero stati il corso di francese, che dovette ripetere, o qualsiasi altra materia, furono le fondamenta del suo inestinguibile antisemitismo. In Mein Kampf Hitler scrisse che, prima d’andare a Vienna, non nutriva particolare animosità nei confronti degli ebrei e che non aveva mai sentito la parola ebreo fino all’età di quattordici-quindici anni; fino ad allora, egli aveva sempre considerato gli ebrei tedeschi a tutti gli effetti. Fu a Vienna che la vista degli Handelee, venditori ambulanti ebrei dell’Europa orientale con lunghi riccioli, caffettano e cappello a falda larga, lo infastidì a tal punto che cominciò a leggere opuscoli antisemiti, che lo instradarono verso la divorante passione della sua carriera politica – e, praticamente, di tutta la sua vita – cioè, l’odio per gli ebrei.

    La storia è apocrifa. Hitler era già antisemita molto prima di andare a Vienna. La maggior parte degli insegnanti e moltissimi studenti alla Realschule di Linz erano pangermanisti, nazionalisti tedeschi, seguaci, come lo era stato Alois Hitler, di Georg von Schönerer, un fanatico sostenitore di un’Austria tedesca senza gli Asburgo che includesse la regione tedesca dei Sudeti, ad eccezione dell’Ungheria, e che fosse parte del Reich tedesco. Schönerer, come Alois Hitler, era originario della Bassa Austria. Era uno dei leader della confederazione mistica nota come movimento völkisch, nazionalista, i cui seguaci erano convinti che fosse possibile esorcizzare i problemi legati all’industria – la durezza, l’impersonalità, la secca contrattazione, gli spietati speculatori – solo col ritorno al germanesimo delle origini, alla comunità dei Germani, alle antiche divinità teutoniche e ad una società non macchiata dall’intrusione di inferiori e di stranieri.

    Le nazioni potevano sopportare elementi stranieri ma un Popolo-Nazione (Volk) era un’unità organica con una comune eredità biologica. La Nazione mondiale per eccellenza, depositaria della cultura e incomparabilmente superiore a tutte le razze, era quella tedesca. L’unica vera funzione di uno stato tedesco, perciò, era quella di amministrare per conto del popolo. Tutto ciò che era internazionale era inferiore e andava respinto. Un’economia solida doveva basarsi sull’agricoltura piuttosto che sull’industria, con suoi influssi internazionali, specialmente ebrei; quanto alla religione, un dio tedesco doveva sostituire quello ebreo¹². Di conseguenza, Schönerer e i suoi seguaci erano anticattolici, antisemiti e spesso ridicoli. Durante la crociata in nome di Wotan, Schönerer gridava, nel Reichsrat¹³, «Heil!», e, con parole in seguito riecheggiate dai nazisti, denunciò gli ebrei come Todfeind, nemici mortali. Nonostante uno degli slogan adottati fosse Fuga da Roma, capeggiò il cosiddetto Partito cristiano unito fino al 1888. Nello stesso anno fu arrestato per il comportamento violento tenuto nel corso dell’irruzione negli uffici del «Das Neue Wiener Tageblatt», durante la quale picchiò gli editori ebrei per aver pubblicato prematuramente la notizia della morte dell’imperatore tedesco Guglielmo I. Dopo aver trascorso quattro mesi in carcere e aver perso il titolo nobiliare, Schönerer divenne il leader di una piccola fazione, il Partito pangermanista (Alldeutsche).

    Le idee di Schönerer erano ampiamente condivise a Linz e l’unico insegnante che Adolf Hitler sembrava ammirare alla Realschule era Leopold Poetsch, seguace di Schönerer. Poetsch insegnava storia, una delle materie, insieme a disegno ed educazione fisica, nelle quali Hitler eccelleva. Come quasi tutti i suoi colleghi, Poetsch era un Gran tedesco¹⁴ e assiduo lettore del «Der Scherer», mensile illustrato pubblicato a Innsbruck da Schönerer. Si trattava di una rivista satirica, che pubblicava regolarmente articoli anticattolici e antisemiti, accompagnati da vignette di preti grassi ed ebrei nasuti, il prototipo dell’immagine ebrea che sarebbe riapparso sullo «Stürmer» nazionalsocialista.

    Nell’impero austro-ungarico, che era uno dei minori ma non meno importanti centri europei dell’antisemitismo, venivano pubblicati numerose riviste e giornali antisemiti. L’antisemitismo völkisch, nazionalista, era solo una varietà fiorita in tante forme, politica, economica, religiosa e sociale. I paesi attivisti erano le zariste Russia e Polonia, dove i pogrom erano endemici; il primato dell’antisemitismo spettava, tuttavia, all’Austria, dove, seppure in forma moderata e fondamentalmente non violenta, le misure adottate contro gli ebrei non erano una novità. Nel dicembre 1821 tutti gli ebrei presenti a Karlsbad erano stati espulsi dalla città e a Reichenberg, ad eccezione dei mercanti, temporaneamente risparmiati, a tutti gli ebrei era stato ordinato di lasciare la città. A coloro ai quali era consentito restare, non era permesso affittare alloggi ad altri ebrei; nei giorni di mercato tutti quelli di passaggio venivano mandati solo in locande autorizzate e, dopo tre giorni, veniva chiesto loro di lasciare la città. Nessun privato poteva dare ospitalità a un ebreo¹⁵. Nel 1836 quattordici ebrei furono cacciati da Karlsbad e due anni dopo ad altri dieci fu ordinato di lasciare la città entro quarantott’ore¹⁶. Nel 1895 il leader antisemita del Partito cristiano sociale, Karl Lueger, fu eletto borgomastro di Vienna, incarico che, però, assunse solo nel 1897, in quanto l’imperatore Francesco Giuseppe pose il veto per ben due volte al suo insediamento. Le idee antisemite e anticeche di Lueger erano condivise da una grossa fetta della popolazione viennese e, poiché questi aveva anche intrapreso un’ambiziosa serie di lavori pubblici e di riforme, fu costantemente rieletto fino al 1910, l’anno in cui morì. Il governo della città sotto Lueger rilevò le società gestite dagli inglesi cui erano affidati i lavori elettrici, del gas e assistenza stradale automobilistica. Una delle giustificazioni più ricorrenti per l’adozione di tali misure, ritenute convincenti dagli elettori, era che gli utili erano controllati dagli ebrei, i quali sfruttavano spudoratamente il resto della popolazione. Lueger, nonostante le riserve espresse dalle sfere più alte del clero sulle sue intenzioni, era un cattolico osservante e, come politico, sapeva coniugare le riforme socialiste con una rigida ortodossia nelle questioni etnico-religiose. Schönerer, con i principi esposti in Fuga da Roma, era considerato dai suoi seguaci più progressista di Lueger; tuttavia, ad accomunare i due, era la convinzione che gli ebrei fossero la fonte di tutti i mali dell’Austria.

    Hitler, che non era propriamente uno sgobbone, fu sicuramente influenzato dal «Der Scherer», venduto a Linz e in tutta l’Austria e lesse attentamente anche il «Linzer Fliegender Blätter», uno dei giornali locali pangermanisti e antisemiti. Il primo numero del «Der Scherer» apparve nel maggio 1899, mese che chiamarono Noreja, in ricordo della località in cui le tribù teutoniche sconfissero le legioni romane. Noreja fu una delle parole riesumate dal «Der Scherer» e da altri giornali völkisch per restaurare l’eroica eredità teutonica, sebbene in seguito a queste e altre parole, comprese quelle che commemoravano grandi vittorie militari, furono preferiti termini tedeschi. Ogni mese aveva il proprio nome tedesco nelle pubblicazioni völkisch: Noreja, maggio, fu sostituito con Wonnemonat (mese della gioia), mentre ottobre fu chiamato Gilbhart (giallo forte), novembre Nebelung (nebbia) e giugno Brachmond (luna rossa). Questo era il polo positivo, semireligioso del movimento völkisch; quello negativo, demoniaco, era rappresentato dal «Der Scherer», che, attanagliato dall’ansia nazionalista di liberarsi di tutte le forze antitedesche, supportò la violenta rivoluzione attuata contro il governo zarista da anarchici, marxisti ed altri rivoluzionari di Sinistra. Il «Der Scherer» difendeva il vecchio cattolicesimo dalla tolleranza dimostrata dal nuovo cattolicesimo nei confronti degli ebrei e il pantheon della Canzone dei Nibelunghi contro il dio cristiano-giudaico; per molti pangermanisti la frase apparsa sul «Der Scherer»: «Noi siamo la razza bionda del nord. Noi siamo i nobili del mondo»¹⁷, rappresentava una verità assoluta.

    Il «Der Scherer» attaccava ebrei e cristiani a volte separatamente, altre contemporaneamente. Una vignetta mostrava un ebreo e un prete mentre schiacciavano un mucchio di vittime che protestavano e si dimenavano, che altri non erano che il Völk. Un’altra illustrava un ebreo e un prete portati via da un nobile cavaliere con la didascalia: «Dobbiamo sempre avere a che fare con questi due?». Un’altra mostrava il diavolo con fiamme infernali che bruciavano sullo sfondo e un’iscrizione che recitava: «Stazione termale per ebrei e gesuiti». Il «Der Scherer» pubblicò molte illustrazioni che anticiparono i futuri attacchi dello «Stürmer» sulle presunte abitudini sessuali degli ebrei. La prima di una serie di vignette apparsa il 5 gennaio 1902, raffigura un certo Isaac Goldbaum che assume una ragazza cristiana; nella seconda vignetta la ragazza si trova ancora nell’ufficio di Goldbaum, questa volta con un bambino in braccio, ed egli le dice: «Non sono forse un nobiluomo? Non ti ho cacciato e hai avuto il premio che ti avevo promesso. Ne vuoi un altro?».

    Il «Der Scherer» era letto non solo in Austria, ma anche in Francia e in Inghilterra, perciò pubblicava lettere di consenso scritte dagli editori del «Chrétien Français» e del «Le Siècle» nonché di un campione di lettori devoti, compresi studenti del ginnasio e delle medie. Un collaboratore si firmò Adolf, ma è improbabile che si trattasse del futuro autore di Mein Kampf. Il «Der Scherer» utilizzò molti emblemi e slogan che furono poi ripresi dai futuri nazionalsocialisti: una svastica come simbolo arcano del germanismo e parole ed espressioni quali Volksgenossen (connazionali), Heil, Il nostro popolo si desta, Compra solo dai tedeschi e perfino Una nazione, un dio, un Reich, slogan che, cambiando una parola, tornò in voga alla presa del potere di Hitler.

    Il «Der Scherer» non era voce di uno che grida nel deserto; anche i quotidiani pubblicavano violenti attacchi agli ebrei, anticipando quella che, decenni dopo, sarebbe stata la letteratura del Partito nazista o dei discorsi di Adolf Hitler. Una lettera al «Vorarlberger Volksfreund» del 4 febbraio 1905 usò la stessa identica frase, che riecheggiò nelle lettere di numerosi nazionalsocialisti nel 1920 e nel 1930: «Saluti dai tedeschi».

    Giornali quali il «Die Tiroler Stimmen», il «Die Tiroler Post», il «Die Linzer Post», il «Die Wiener Montags Post» e una dozzina di altri ancora¹⁸ attaccavano puntualmente gli ebrei, affermando che erano ovunque e stavano erodendo le radici dell’economia e le antiche virtù della Germania. I giornali antisemiti austriaci, come i futuri nazionalsocialisti, raramente offrivano vie d’uscita agli ebrei. Nonostante la posizione formale assunta dalla Chiesa, molti cattolici ritenevano che gli ebrei battezzati fossero pur sempre ebrei e spesso più pericolosi di quelli non battezzati. Gli anticlericali nazionalisti consideravano gli ebrei conniventi della Chiesa reazionaria, gli antisemiti clericali li reputavano pagani nazionalisti ed entrambi concordavano nel denunciarne la responsabilità nell’aver danneggiato la vita e la qualità del lavoro dei membri delle gilde, degli operai e dei negozianti. Gli ebrei erano, a seconda della controimmagine a cui si faceva ricorso, o socialisti atei o sfruttatori capitalisti, fautori del liberalismo di Manchester e occulti dominatori internazionali della vita finanziaria ed intellettuale. Operavano ovunque, e l’assassinio del presidente statunitense Mc Kinley fu attribuito dal «Der Tiroler» a un anarchico ebreo (3 gennaio 1905).

    La paura e l’avversione universale per gli stranieri raggiunsero livelli di guardia nel caso degli ebrei, in particolare quando la cristianità prese il sopravvento sugli dèi pagani. I seguaci del Principe della Pace non portavano la pace ma una spada. La Chiesa e i devoti cristiani del Medioevo vedevano nell’ebreo il demonio, che, infatti, era spesso ritratto proprio con le sembianze di un ebreo. Questa tradizione medievale non scomparve mai del tutto. Il «Die Tiroler Post», un giornale cristiano sociale, il 7 marzo del 1903 pubblicò nuovamente la notizia dell’omicidio di un bambino cristiano avvenuto nel XV secolo per mano ebrea e, al tempo stesso, mise in guardia i lettori da una possibile ebraizzazione del Tirolo. Questo giornale cattolico scrisse quello che Hitler stesso avrebbe sovente ripetuto, che gli ebrei miravano a dominare il mondo, e che erano portatori del bacillo della distruzione, e citò con approvazione il «Linzer Post», che aveva asserito che l’antisemitismo «altro non è che il salutare egotismo di un popolo che mira all’autoconservazione»¹⁹. Gli attacchi secolari erano anche più violenti di questi. Il 7 marzo 1906 il «völkisch Deutsche Tiroler Stimmen» riferì ai propri lettori che gli ebrei uccidevano non solo gli animali ma anche gli uomini, e il 30 maggio 1906 scrisse addirittura che la razza ebrea doveva essere sterminata. Il giornale descriveva la «brutalità bestiale» degli ebrei e il modo in cui questi «predatori in veste umana, sempre pronti a gettarsi sul popolo ariano», uccidevano anche donne e bambini. L’11 maggio 1907 lo stesso giornale spiegò che il battesimo non bastava a cambiare gli ebrei e che, quando questi si convertivano al cristianesimo – in alcuni casi anche come preti e perfino vescovi – lo facevano solo per sovvertire la vera dottrina e confondere i fedeli. Il quotidiano riportava notizie di false conversioni e vocazioni al sacerdozio verificatesi in Spagna e ovviamente ricorrenti anche in Austria, dove, nel 1904, un certo arcivescovo Kohn fu accusato di illeciti quali violazione del segreto confessionale, transazioni finanziate sospette e concussione. Lo stesso arcivescovo era stato poi convocato a Roma per rendere conto delle proprie colpe ed era stato assolto dal papa per i suoi misfatti²⁰.

    Tali racconti miravano a confermare l’antisemitismo dei giornali cristiano-sociali che difendevano i cattolici austriaci, a denunciare gli illeciti dei liberali dell’economia e ad alimentare l’antisemitismo dei giornali nazionalisti. Il 30 maggio 1906 il «Die Deutsche Tiroler Stimmen», come aveva fatto il «Der Scherer», parlò di una cospirazione politica segreta tra gesuiti ed ebrei per dominare il mondo. Tra gli innumerevoli e prolissi casi riportati dai giornali austriaci non mancarono esempi comprovanti l’astuta finzione degli ebrei. Il 5 agosto del 1903 il giornale sociale cristiano «Tiroler Post» di Innsbruck si lamentò del fatto che un negozio di proprietà di ebrei aveva esposto in vetrina costumi tipici croati e disse che una tale sfrontatezza avrebbe presto portato alla scomparsa dei costumi tirolesi indossati dalle ragazze e dalle donne di Innsbruck. Il proprietario ebreo del negozio rispose che non vendeva né costumi croati né tirolesi, ma il suo diniego non sortì il benché minimo effetto sugli autori dell’articolo o su coloro che vollero prestarvi fede. I casi, che si susseguivano con estrema rapidità, venivano puntualmente additati come esempio della ebraizzazione della vita austriaca. Gli ebrei erano accusati di vendere sottocosto ai commercianti austriaci: accusa spesso fondata ma perdonata dalla gente, che aveva, così, la possibilità di acquistare le merci ad un prezzo inferiore. Ciononostante, queste storie documentavano le accuse secondo le quali gli ebrei stavano minando gli standard delle corporazioni delle arti e dei mestieri e che ciò cui miravano era il libero mercato, che avrebbe consentito loro di depredare e distruggere la vita austriaca. Gli ebrei, scriveva il «Tiroler Post» il 9 dicembre 1903 recitando la solita litania, stavano conquistando un ascendente sinistro: annacquavano il vino, vendevano il carburante sottocosto sfruttando gli operai e seducevano le dipendenti. Questi crimini non erano da attribuire a singoli individui, come nel caso dei cristiani, ma a tutta la razza ebrea.

    Storie di morte e disastri erano diffuse allora come oggi. Il «Lienzer Zeitung» del 7 gennaio 1905 riferì di una donna che aveva una relazione col cognato e che aveva tentato di uccidere il marito somministrandogli piombo nel cibo. Non ci era riuscita, ma aveva ucciso il suo bambino e dato fuoco alla scuderia. Per questi crimini fu condannata a dieci anni di prigione.

    Il «Salzburger Tagblatt» del 13 gennaio 1905 raccontò di un conte ungherese, Paul Czapary, ex presidente del Park Club di Budapest, fuggito con i fondi destinati alla città. Uno degli uomini più ricchi dell’aristocrazia, diceva il giornale, aveva perso al gioco somme ingenti e sua moglie, che possedeva dieci milioni di marchi intestati a lei, si era rifiutata di pagarne i debiti. Czapary era volato a Parigi e trovato un lavoro nei wagon-lit. Nessuna delle storie raccontate conteneva illazioni sulla razza, la classe o la religione del criminale. Si trattava di episodi narranti crimini di singoli individui, ma le transazioni criminali o sospette degli ebrei venivano additate dai giornali antisemiti come esempi della criminalità di tutto il popolo²¹.

    Il «Die Tiroler Post» e altri giornali antisemiti diedero molto spazio alla pubblicazione del libro Die Grundlagen des 19 Jahrhuderts (I fondamenti del secolo XIX) dell’inglese antisemita Houston Stuart Chamberlain, che aveva dimostrato, tra l’altro, che Cristo non era ebreo ma ariano²². Molte sezioni del suddetto testo furono ristampate e accompagnate da commenti favorevoli: tutti i giornali riportavano frequenti resoconti sui pogrom che si verificavano anno dopo anno in Russia, e anche qui gli ebrei assassinati erano descritti come aggressori e assassini. La cronaca giustificò i pogrom di Homel e Kishinev asserendo che gli ebrei, nascosti dietro le siepi, avevano sparato ai soldati zaristi alle spalle e commesso altre vigliaccate, e per questo erano stati giustamente puniti²³.

    Il giovane Hitler, così, aveva l’imbarazzo della scelta sul tipo di antisemitismo da adottare. Aveva un solido background religioso e un padre come Schönerer. All’età di nove anni aveva servito messa e cantato nel coro consociato all’antica abbazia benedettina di Lambach, vicino Linz, e per un certo periodo aveva persino pensato di fare l’abate. Tuttavia, non fu né l’antisemitismo teologico né quello politico a far presa su Hitler, quanto una combinazione di entrambi, così come era solito collegare quasi tutto ciò che leggeva e pensava con la visione völkisch degli ebrei, che egli considerava irredimibili, qualunque cosa facessero. Gli ebrei divennero per lui ciò che Eric Voegelin ha definito la controimmagine, una proiezione di tutto ciò che è sbagliato in un uomo e nella società in cui vive, destinata ad essere tanto più venerata quanto più chi la detiene è insicuro dei propri poteri e della propria capacità di ottenere ciò che, a suo avviso, gli è dovuto. La controimmagine è l’anti-ideale, il nemico vittorioso che incarna i vizi intollerabili nella propria persona. Come il ritratto di Dorian Gray, la controimmagine può assumere, sul proprio volto, i connotati delle iniquità commesse da un uomo, lasciando immacolati i tratti del volto di quest’ultimo. È a causa del nemico racchiuso nella controimmagine che i desideri del cuore restano irrealizzati ed è lui che impedisce ai virtuosi di avere il muto conforto spirituale che meritano. In Austria, in un’era segnata da profondi cambiamenti socioeconomici, quando migliaia di commercianti lottavano per la sopravvivenza contro la durissima concorrenza favorita dalle grandi concentrazioni di capitale, erano gli ebrei, agli occhi dei piccoli uomini d’affari, gli operatori, gli arroganti proprietari di grandi magazzini²⁴ e delle fabbriche, i concorrenti sleali; ed erano sempre gli ebrei, secondo gli antisemiti, gli speculatori, i banchieri, i plutocrati, i radicali, gli alieni; in breve, la causa delle disillusioni di tutti quelli che vedevano l’impossibilità di condurre – e di ottenere i mezzi per farlo – una vita agiata, mentre, coloro che già la conducevano, si sentivano minacciati.

    Il giovane Hitler, come altri adolescenti che abbandonano gli studi, si perdeva con estrema facilità in controimmagini e fantasie del genere. Quando comprò un biglietto della lotteria nazionale, pensò di aver già vinto il primo premio e fece progetti su come investire il denaro; quando accadde l’incredibile e non vinse nulla, disse a Kubizek che lo Stato, con le sue eterogenee nazionalità, aveva manipolato i sorteggi.

    August Kubizek, apprendista tappezziere e musicista nove mesi più grande di lui, era il suo unico amico. Hitler arringava Gusti per ore ininterrottamente e andavano insieme a vedere opere, concerti e commedie. Erano affascinati da Wagner, ma a Hitler non piaceva Verdi, ad eccezione dell’Aida. Una volta ebbe modo di ascoltare un organo di strada suonare La donna è mobile e disse che quello era lo strumento adatto ad una musica di quel genere. La grande musica, a suo avviso, era quella tedesca: la Nona sinfonia di Beethoven, il Lohengrin, il Tristano, il Tannhauser, L’anello del Nibelungo. Per due anni, da quando a sedici anni lasciò la scuola nell’autunno del 1905 fino a quando partì per Vienna nel settembre del 1907, Hitler trascorse il tempo sognando ad occhi aperti, leggendo, scrivendo poesie, prendendo lezioni di pianoforte e facendo lunghe passeggiate con Gustl. Le passioni di Hitler non erano rivolte alle persone o alla carriera, ma all’opera e al rifacimento di Linz, l’unica città austriaca alla quale si affezionò. Trent’anni dopo disse ad Albert Speer che Linz era molto più bella di Budapest o Vienna e che aveva ancora progetti grandiosi per essa. Giorno per giorno Hitler mostrava a Kubizek tutto quello che, a suo avviso, andava fatto: la stazione ferroviaria doveva essere spostata dalla congestione del centro della città alla campagna; la città e le sale per concerti andavano ricostruite, come pure un castello e un albergo montano alla periferia della città. Le case dovevano essere spostate per esaltare la bellezza della piazza cittadina, la facciata del museo ampliata fino a diventare la più grande d’Europa, il ponte sul Danubio sostituito da uno che sarebbe stato il più imponente del mondo. Un alone di fama avrebbe circondato la città. Questi progetti non erano solamente vagheggiati, ma vissuti così intensamente, che nient’altro aveva importanza. Hitler donò a Kubizek una villa, o meglio il disegno di una, ma il gesto fu talmente grandioso in quel mondo di sogni condiviso dai due, che era come se l’edificio fosse realmente esistito. Sappiamo che Hitler, nel frattempo, leggeva tutto ciò su cui riusciva a mettere le mani. Aveva iniziato a frequentare una biblioteca circolante e, sotto l’influsso del tedesco nazionalista Leopold Poetsch di Linz e poi per conto proprio a Vienna e in Germania, divorò Nietzsche, Treitschke, Martin Lutero, Schiller, Karl May, autore di libri sul West americano che affascinarono generazioni di austriaci e tedeschi, sebbene egli non fosse mai stato lì; lesse, inoltre, libri sulla guerra e l’esercito, classici greci e tedeschi, testi di mitologia tedesca, sociologia, storia, filosofia, letteratura – le opere, o almeno così hanno scritto i suoi ammiratori, a cominciare da Kubizek. Tuttavia, stando a quello che riferisce Albert Speer, Hitler affermava di leggere solo l’ultimo capitolo di un libro, perché il succo era lì e, grazie all’ottima memoria di cui era dotato, dava indubbiamente l’impressione di una padronanza dell’argomento di gran lunga superiore a quella effettivamente posseduta. I due libri che lo colpirono maggiormente furono Psychologie der Massen di Gustave Le Bon e The Group Mind: A Sketch of the Principles of Collective Psychology di William McDougall, anche se non sappiamo quanto effettivamente lesse di quest’ultimo libro; infatti, non era mai stato tradotto in tedesco e la conoscenza dell’inglese di Hitler era superficiale, per non dire inesistente. È probabile, quindi, che Hitler abbia raccolto le idee del libro da sunti di testi tedeschi²⁵. Nelle sue conversazioni citava spesso Goethe e Schopenhauer, asserendo che il Faust era molto più significativo di quanto la mente umana potesse afferrare. Possedeva indiscutibilmente una buona conoscenza della storia dell’arte e dell’architettura. Aveva una memoria straordinaria. Riusciva a ritenere una conoscenza così dettagliata di ciò che leggeva, che coloro che lo ascoltavano, tra cui moltissimi addetti ai lavori, rimanevano stupefatti. Un osservatore disse di lui che all’età di vent’anni aveva letto più di un docente universitario.

    Tuttavia, non esistono prove concrete che le letture di Hitler risalenti al periodo trascorso a Linz o a Vienna abbiano consolidato il bagaglio culturale della sua giovinezza. Al contrario, le lettere e le cartoline scritte a Kubizek tradiscono una mente inesperta, pretenziosa, illetterata e disorganizzata. La lettera scritta da Hitler a Gustl nell’agosto del 1908 è un esempio inconfutabile della scarsissima conoscenza di Hitler delle regole più elementari della grammatica e dell’ortografia tedesca, per non parlare delle materie logiche. La grafia è infantile, due parole sono cancellate e riscritte sopra, altre contengono errori di ortografia, la punteggiatura è alla rinfusa e lo stile sconclusionato e sconnesso. L’ortografia tedesca, tuttavia, non impensierisce il giovane studente come quella inglese. In tedesco, la cui ortografia è scandita da una costante regolarità, non esistono reminiscenze di parole quali though, touch, read, colonel,psalm. La lingua tedesca, secondo Hitler, era piena di tranelli. L’ortografia della lettera è spesso bizzarra: dann diventa dan, sofort diventa soffort, Katarrh è scritto chartar, dies è scritto con due esse anziché una sola e così via. Manca la punteggiatura. Anche l’uso delle maiuscole è imprevedibile²⁶. Nella lettera di agosto, come anche nelle altre, non usa mai il punto di domanda; ad esempio, chiede: «Chi ha effettivamente pubblicato il giornale che ti ho mandato l’ultima volta», senza punto interrogativo. Ripete lo stesso errore nella frase: «Hai letto le ultime decisioni del consiglio municipale sul nuovo teatro», oltre a scrivere Theater, parola tedesca comune anche all’inglese, senz’acca. Anche la frase successiva «Conosci i dettagli» è scritta senza punto interrogativo. Il pronome sie, che significa essi oppure ella, in tedesco non si scrive con la lettera maiuscola, ad eccezione di quando viene usato come forma di cortesia (il nostro Lei). Hitler, però, usa la maiuscola per entrambi i pronomi e ripete lo stesso errore con pronomi che andrebbero scritti con la minuscola. Le parole sono assemblate in modo disastroso – una volta scrisse sette parole attaccate in una lunga frase piena di errori di ortografia e appena abbozzata. Quanto al contenuto, la lettera di agosto salta di palo in frasca in quella che sembra una libera associazione. Hitler chiede scusa a Kubizek per non aver scritto prima, lo ringrazia per aver mandato la sua quota dell’affitto alla padrona di casa e pensa che la compagnia musicale di Kubizek stia attraversando un momento di crisi. Il tempo è bello a Vienna, ossia piove, un dono del cielo ad una città che, altrimenti, si sarebbe trasformata in un forno crematorio.

    Hitler torna a parlare, per l’ennesima volta, della costruzione del nuovo teatro di Linz, accusando la Commissione incaricata della progettazione di saperne non più di quanto un ippopotamo sappia come si suona il violino. Dice a Kubizek che, se la propria copia del manuale di architettura non fosse così rovinata, gli piacerebbe inviarla alla Commissione (qui seguono le famose sette parole, scritte tutte attaccate, con cui descrive la terribile commissione). Abbiamo, quindi, il ritratto non di un bambino prodigio, ma di uno la cui presunta vasta cultura, come i compiti scolastici, era evaporata dal cervello. Scrive una lettera piena di errori ortografici e grammaticali ad un amico, che sa di poter facilmente impressionare, nella quale attacca la progettazione non con una critica costruttiva ma limitandosi a dire che potrebbe migliorarne la riuscita inviando alla Commissione un libro scritto da altri.

    Nonostante avesse un disperato bisogno d’istruzione, era chiaramente destinato a progetti ben diversi da quelli scolastici: o ad essere un fannullone dilettante, che negli anni seguenti parlò incessantemente quando trovò un pubblico accondiscendente come Gustav Kubizek, oppure, con un colpo di fortuna, a sfruttare, in una carriera non meglio delineata, il suo talento versatile seppur in embrione. Aveva un’opinione precisa su ogni concerto e opera cui assisteva insieme a Kubizek. Il centro dei suoi sogni ad occhi aperti era l’edilizia; la ricostruzione di Linz e poi di Vienna in uno stile neoclassico e neogotico ma monumentale e il bisogno di cullarsi in sogni grandiosi, non lo abbandonarono mai. Viveva con eccitazione in un mondo tutto suo e cercava il più possibile di rendere il mondo reale conforme al proprio. Quando s’innamorò, si convinse che anche la ragazza ricambiasse i suoi sentimenti, nonostante non le avesse mai rivolto la parola. Si chiamava Stephanie e Hitler e Kubizek la vedevano ogni sera sulla Landstrasse mentre andava in chiesa e durante il tragitto del ritorno. A sedici anni, Hitler se ne innamorò follemente e i suoi ardori, fondati sul nulla, se non su sorrisi sporadici e cenni col capo, quando passeggiava sottobraccio alla madre, durarono circa due o tre anni. Il suo amore per Stephanie era pari solo al disprezzo nutrito per gli ufficiali ai quali talvolta ella si accompagnava. Adolf non aveva il coraggio di parlarle, perché sapeva che, inevitabilmente, gli avrebbe chiesto cosa facesse nella vita e, a quel punto, cosa avrebbe risposto? Quando nel 1906 lasciò Linz per andare a Vienna per due mesi, chiese a Kubizek di dire a Stephanie che studiava alla scuola d’arte, che era indubbiamente quello che avrebbe voluto fare. Anche questo sogno, tuttavia, rimase tale. La domanda fatta alla Scuola di pittura dell’Accademia delle arti figurative di Vienna nell’autunno del 1907 fu respinta, nonostante Hitler avesse superato gli esami preliminari nei quali, insieme ad altri aspiranti, dovette presentare disegni su materie bibliche quali Il ritorno del figliol prodigo, La cacciata dal Paradiso, Episodi tratti dal Diluvio universale e temi accademici standard come Il mattino, Gli operai della costruzione, La musica, La preghiera e La notte. Dei 112 aspiranti, furono respinti 33, ma, quando Hitler presentò il proprio lavoro per la seconda parte, non fu ammesso alla scuola col pretesto che c’erano troppe poche teste nei suoi disegni. Stavolta era stato bocciato insieme ad altri 51 candidati. Non era comunque sprovvisto di talento artistico e, anche se ne avesse avuto in maggior misura, probabilmente la scuola non lo avrebbe ammesso ugualmente, dal momento che gli accademici dispongono di pittori ben più bravi di lui.

    Nel novembre del 1907 fu richiamato a Linz dalla malattia della madre, giunta ormai all’ultimo stadio e, quando un mese dopo morì di cancro, Hitler era totalmente annientato. Edward Bloch, il dottore ebreo che ebbe in cura la madre, scrisse che in quarant’anni di attività non aveva mai visto un uomo così piegato dal dolore e dalla sofferenza come Adolf Hitler²⁷. Alcuni osservatori clinici hanno visto nella perdita della madre e nel risentimento di Hitler per la familiarità professionale tra la madre e il dr. Bloch la causa del violento antisemitismo di Hitler. Tra le numerose speculazioni, si potrebbe giungere ad un’interpretazione opposta. È possibile che l’antisemitismo di Hitler sia stato originato da un inconfessato debito di gratitudine col dr. Bloch, che era devoto alla signora Hitler e chiedeva cifre irrisorie per le sue prestazioni e che era membro di una razza che, come ebbe a scrivere Hitler in Mein Kampf, doveva le proprie speciali qualità (come pure lo stesso Hitler) al matrimonio tra consanguinei? Probabilmente no, ma allora non si spiega la gelosia sessuale che Hitler nutriva nei confronti del dr. Bloch. Questi era anche il medico di Hitler, e sia lui che la madre gli regalarono alcuni acquerelli dipinti da Adolf. Ovviamente, il dottore era solidale col dolore di Hitler, ma non sappiamo ciò che quest’ultimo pensasse veramente di lui, a prescindere dal fatto che gli regalò dei quadri²⁸. In ogni caso, il dr. Bloch fu uno dei pochi ebrei col quale Hitler intrattenne un rapporto d’amicizia.

    È anche vero che Hitler, in parte per scelta, trascorse il Natale del 1907 da solo e non volle raggiungere neanche la sorella Angela e la sua famiglia, fatto imputabile solo a lui e alla frettolosa sorveglianza del guardiano ufficiale, il maggiore di Leonding. Dopo il funerale, sbrigate le formalità per ricevere l’eredità e la pensione di orfano, ritornò a Vienna. Lì fu raggiunto da Kubizek, che andò a studiare musica al conservatorio, e i due vissero insieme, in una stanza infestata da cimici, nella zona di Mariahilf.

    Hitler di nuovo si gettò nel compito, assuntosi volontariamente, di ricostruire alcuni quartieri della città, di cui odiava la popolazione poliglotta²⁹. Continuava a leggere, prendendo in prestito i libri dalla ben fornita Hof-Bibliothek e scrisse persino un’opera. Kubizek era stato generoso con la qualità dell’opera, tuttavia, come musicista, era tutt’altro che impressionato dal talento musicale di Hitler, come invece lo era dalle sue performance letterarie e architettoniche. Prima di essere chiamato alle armi, Kubizek tornò a Linz nel luglio del 1908, per trascorrere alcuni mesi con la famiglia e, quando tornò, Hitler se n’era andato, svanendo nel nulla senza lasciare un indirizzo. Da allora in poi, Hitler visse da solo, facendo il ramingo da una pensione all’altra, senza dubbio per sottrarsi alla stessa sorte toccata al suo amico Gustl, vale a dire la coscrizione.

    Hitler scese di nuovo a patti col mondo reale. Per prepararsi all’ammissione all’Accademia dell’Arte, prese lezioni da uno scultore viennese di nome Panzholzer e nell’autunno del 1908, animato da molte speranze, fece nuovamente domanda d’ammissione alla scuola. Questa volta non dovette neanche consegnare i disegni. Il rettore gli disse che avrebbe avuto una carriera molto più promettente come architetto che come pittore e che avrebbe dovuto presentare la domanda d’ammissione all’Istituto tecnico. Effettivamente, guardando ciò che resta del lavoro di Hitler, non aveva tutti i torti; esso, infatti, ricorda molto più i disegni di un architetto che la rappresentazione del mondo interiore di un pittore. Hitler, tuttavia, non poté frequentare la Technische Hochschule, in quanto tre anni di superiori non erano sufficienti per continuare gli studi in un’università o in un istituto tecnico. Questi richiedevano l’Abitur, l’equivalente del nostro diploma.

    Hitler dirà poi di aver pagato a caro prezzo l’abbandono degli studi. Tuttavia, non prese mai in considerazione l’idea di tornare alla Realschule e non riuscì mai a fare un lavoro disciplinato impostogli da altri. Era uno di quei ragazzi irresponsabili, che fanno ostinatamente a modo loro, incuranti delle minacce o delle promesse, uno svogliato, come direbbero oggi gli educatori. Era chiaramente intelligente – alla Volkschule aveva dieci in tutte le materie – e gli insegnanti della Realschule si spiegavano voti così bassi solo con la mancanza d’interesse. Era indulgente con se stesso; faceva solo ciò che gli andava di fare e nient’altro. Era il baratro tra ciò che sentiva di poter realizzare, se il mondo avesse avuto per lui lo stesso acume che lui aveva per il mondo, e le mediocri performance di cui dava prova, a rendere le sue fantasie impellenti e molto più vivibili di quanto lo fosse la desolante realtà.

    A Vienna lesse l’opera del viennese Jörg Lanz von Liebenfels, un libellista antisemita, il quale pubblicò una rivista, l’«Ostara», contrassegnata da svastiche. Lanz non era laureato e il von era fasullo, ma in seguito asserì che Hitler era uno dei suoi migliori allievi, affermazione mitigata quando Lanz aggiunse all’elenco dei propri seguaci Lenin e Lord Kitchener. L’«Ostara» di Lanz vantava una tiratura di centomila copie e si proponeva d’insegnare ai propri lettori la dottrina della superiorità della razza nobile, bionda e con gli occhi azzurri. Proprio a favore di quest’ultima fondò l’Ordine del Nuovo Tempio, del quale potevano far parte solo uomini biondi e con gli occhi azzurri, a patto che promettessero di sposare donne con le stesse caratteristiche. Lanz definiva con disprezzo le altre razze scimmie di Sodoma. Nel caso di Adolf Hitler, parlava al convertito, ma a Hitler non dispiacevano ripetizioni sull’argomento.

    Non fu l’antisemitismo biologico ma il suo pseudomisticismo, dal quale emergeva come una sorta di pope dell’ordine monastico, ad irritare Hitler negli anni seguenti e, quando l’Austria divenne parte del Reich

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