Il soffitto giallo
Di Andrea Ninì
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Anteprima del libro
Il soffitto giallo - Andrea Ninì
ESTRANEO
PREFAZIONE
Io sono un ingegnere, un ragazzo che ha avuto la sfortuna di laurearsi giusto l’anno in cui è iniziata la crisi in Italia. Un ragazzo che partendo dall’entusiasmo del fare è stato inglobato rapidamente nel mondo dell’accontentarsi. Un mondo dove il sopravvivere ha preso il posto del vivere, dove il lavoro è un privilegio solo per pochi, dove i politici continuano ad alternarsi senza trovare una soluzione, dove anche la speranza lentamente si sta spegnendo.
Ero stanco della televisione, che alterna notizie di suicidi a servizi di cucina, stanco del mondo del lavoro, che condanna la disoccupazione ma non assume persone senza esperienza, stanco del mondo politico, che parla di grandi riforme ma non riesce nemmeno a limitarsi lo stipendio, stanco di dovermi accontentare. Stufo di tutto il pessimismo italiano ho deciso di partire e farmi un’esperienza fuori dai confini italiani per respirare e trovare di nuovo la voglia di fare, ritrovare me stesso e capire a mente fredda l’inconcepibile routine italiana del sopravvivere.
La storia che ho raccontato inizia con un licenziamento per poi arrivare attraverso strani percorsi ad una ricerca interiore, una ricerca di priorità. Ogni persona spera sempre di non essere lei la protagonista delle brutte storie, ma a volte, come nella malattia, nel lavoro, nelle problematiche quotidiane questo può capitare.
E’ la storia di un Luca qualunque, la storia di un cinquantenne che da un momento all’altro si trova a casa, senza un perché e senza delle valide motivazioni. Una vita passata nella routine che improvvisamente finisce, una giostra che smette di girare.
Ho cercato di raccontare una storia umana in un contesto disumano, dove la voglia di vivere è sopraffatta dall’obbligo del sopravvivere, dove a chi ha voglia di lavorare viene sottratta la libertà di farlo, dove solo chi imbroglia e usa la gente riesce a fare carriera e ad integrarsi nella società.
Questo libro non è una notizia negativa, è una storia di rinascita. Non mi sono soffermato a descrivere la società, ma esclusivamente la vita di un uomo cambiato dalla stessa società.
Luca nel suo ricominciare una nuova vita si troverà ad esplorare quelle emozioni, quei sentimenti, quelle avventure smesse troppo presto. Riscoprirà il piacere di ascoltarsi e riuscirà dopo diverse esperienze a capire qual è il futuro designato per lui.
Il mio vuole essere un messaggio positivo, un bicchiere mezzo pieno dal quale riscoprire il piacere della vita. Una rinascita scaturita da una notizia negativa, la voglia di ricominciare a qualunque età, consapevoli dei propri errori e volenterosi di imparare da quest’ultimi.
Un tuffo in ciò che è più difficile scoprire nella vita, un tuffo alla scoperta di se stessi.
CAPITOLO 1 – QUATTRO VOLTE
Mi svegliai che era già giorno. Tra le tende un raggio di sole tagliava la stanza in due, illuminandomi il viso. Non sono mai stato una persona troppo mattiniera, ma quel giorno, stranamente, prima dello scoccare della sveglia ero già completamente arzillo che guardavo il tenue colore giallo del soffitto. Decisi di prendermi dieci minuti per me prima del rintocco della sveglia, per riflettere.
La mia vita è sempre stata abbastanza movimentata, nato da mamma siciliana e papà piemontese ho sempre avuto nel cuore uno spirito molto conflittuale. Mio padre duro lavoratore e mia madre fruttivendola a tempo perso. La nebbia ed il sole. Il caldo ed il freddo. Nato in una notte del 31 dicembre 1960, mi resi conto fin da subito che la mia vita sarebbe stata in salita. La mia famiglia non era ricca, ma questo a me non importava. Non abbiamo mai fatto grossi viaggi, grosse spese, in estate eravamo soliti passare le vacanze dal nonno. Ah, da specificare che non era mio nonno, e forse non ho mai capito l’effettivo legame di parentela, ma era vecchio e per me era semplicemente il nonno
. Aveva una grossa stalla nel retro della casa con almeno dieci mucche. Sento ancora…
La sveglia suonò quattro volte, alla quinta, prima di farmi rovinare completamente la giornata da quell’ultrasuono diabolico, decisi di alzarmi. Ciabatte da ricercare sotto il letto, calzino penzolante sulla sedia, alito pesante e sensazione di pesantezza lungo tutto il corpo. Ecco, al momento quello era il mio classico risveglio: rincoglionito, stanco, assonnato, solo. Dimenticavo di aggiungere anche disoccupato. Nella mia lista delle caratteristiche del risveglio mancava questa; era da un mese che ero in quella situazione. Una parte della mia azienda aveva chiuso, o meglio, era stata rilocata, d’altronde l’Italia nel 2014 non era una gran fucina di lavoro. La disoccupazione era schizzata alle stelle e la mia esperienza invece che punto di forza si era rivelata la mia rovina. Mi sembra di aver ancora davanti quella lettera, l’hanno consegnata senza dire niente, una normale busta sulla scrivania. L’ho aperta pensando che fosse la paga, dentro vi era un foglio A4 piegato a metà, non riuscivo a capire cosa c’era scritto. L’ho aperto, letto, riletto, riletto ancora.
OGGETTO: LICENZIAMENTO COLLETTIVO PER RIDUZIONE DEL PERSONALE […] l’azienda si vede costretta a comunicare la necessità e l’urgenza di procedere, nel minore tempo possibile, ad una riduzione collettiva del personale dipendente, con la conseguente risoluzione del rapporto di lavoro di n. 30 dipendenti strutturalmente esuberanti, a causa dell’esigenza di ridurre l’attività produttiva […]
Devo aver riletto almeno quattro volte la lettera prima di scoppiare in una grossa risata.
Ah ah… beh… chi ha scritto questa lettera è un genio… Carletti ho cinquant’ anni… so riconoscere i tuoi scherzi… per chi mi hai preso?!
Aspettavo la classica risata del Carletti, un misto tra muggito e squittio, ma niente. Il Carletti mi guardava come se fossi pazzo, neanche un sorriso trattenuto. Il silenzio più silenzioso che abbia mai sentito. Anche il Carletti aveva lo stesso foglio sulla scrivania. Si poteva capire guardando le facce chi erano i trenta fortunati
. Ognuno leggeva la sua lettera, ognuno aveva un’espressione incredula, come se aspettasse che qualcuno da un momento all’altro dicesse è uno scherzo! Invece non era uno scherzo, niente di comico questa volta. D’altronde la vita non è come nei film, non ci sono colonne sonore a coccolarti, a sorreggerti; qua nel mondo vero hai solo il silenzio che ti fa compagnia.
Solo dopo essermi ripreso sono riuscito a capire: parte della nostra azienda chiudeva, o meglio, veniva trasferita in Polonia. La nostra squadra
, famiglia
come amavano chiamarci, era stata completamente annientata.
Ai più giovani era stato proposto un ricollocamento estero, con paga base pari a quattrocento euro con vitto e alloggio a loro carico, mentre i meno giovani, come me, da pensione, erano sospesi da ogni incarico e parcheggiati nella loro casetta.
Cinquantenne divorziato con due figli e senza lavoro. Non potevo neanche pensarci. L’ufficio mi girava attorno. Mi obbligai a sedermi e a respirare lentamente. Presi un bicchiere d’acqua, mi allentai la cravatta e chiusi gli occhi.
CAPITOLO 2 – LA CASA DEL NONNO
Sento ancora il sapore del latte di mucca, il profumo del fieno e del sottobosco bagnato dalla rugiada. La casa del nonno. Dai tre ai quattordici anni i miei ricordi estivi sono solo e soltanto quella casa: l’altalena rossa, la casa sull’albero, il nascondino con i bambini del paese.
Il nonno era una persona sempre seria, ma gli bastava una sola occhiata per farti ridere. Era una di quelle persone che vedi sempre con la camicia a quadri ed il berretto di paglia, quelle vestite sempre con i pantaloncini corti marrone chiaro, estate ed inverno. A qualunque ora tu andassi a casa sua era sveglio. Io credevo non dormisse mai e che fosse qualche sorta di robot costruito dalla NASA. Lo vedevo sempre nella sua officina a costruire e poi smontare macchinari, io non sapevo cosa fossero, solo col tempo capii. Neanche lui era normale proprio del tutto, raccoglieva pezzi di ferro, in discarica, per strada, dai cassonetti per poi saldarli e fare delle opere d’arte, oddio… abbozzi d’opere d’arte!
L’altalena rossa era una sua opera. La seduta non gli era venuta benissimo, pendeva leggermente da un lato. Spingendoti sempre più velocemente dovevi rimanere appeso forte alle catene per evitare di avvitarti all’altro seggiolino. La vaccinazione più importante per mio nonno era l’antitetanica, e non serve spiegare il motivo. In ogni angolo si trovavano pezzi più o meno arrugginiti, in funzione del colore che mio nonno voleva dare all’opera. Passava pomeriggi dicendomi che stava aspettando che quel pezzo diventasse di un bel marrone scuro per inserirlo nella sua opera, che in quel periodo era un albero da mettere in giardino. Sì, un albero. La sua idea era usare contenitori di latta da pittura per fare il tronco e piccoli angolari di ferro per fare i rami. Le foglie non erano previste.
Adoravo vedere il nonno concentrato a pensare a come utilizzare un determinato pezzo di ferro, in quei momenti aveva una sorta di luce negli occhi, come di chi è realizzato. Vedi subito chi è contento della vita che fa , delle cose che fa e chi invece va avanti perché è costretto, perché deve farlo. Ho sempre apprezzato la sua capacità di trovare soddisfazione e gioia dalle piccole cose. Più avanti negli anni avrei scoperto che rimanere bambini, stupirsi anche delle piccole cose, è una dote difficilmente riscontrabile fra gli adulti.
Tra i miei migliori amici a quel tempo c’era Luigi. Ci vedevamo solo una settimana all’anno ma ogni volta era come se non ci fossimo mai separati.
Com’è Luca!?
Mi chiedeva.
Bene, te Luigi?
Bene! Andiamo a giocare?
Ok
rispondevo.
Finito il nostro discorso di incontro iniziavamo a giocare come se l’avessimo continuato a fare ininterrottamente tutto l’anno.
Ero vestito ogni giorno con lo stesso paio di pantaloncini corti con rigorose toppe cucite sul sedere, erano gialli ma a fine settimana tendevano al marrone scuro dallo sporco che avevano sopra.
Fu lì che incontrai per la prima volta Giada. Piccola, magrolina e con quello sguardo come a pregarci, posso giocare anch’io? Era più piccola di me e Luigi, ma come tutte le donne riusciva a farci fare quello che voleva lei; quante volte abbiamo dovuto sospendere il nascondino per giocare a preparare il tè con lei e le sue bambole.
C’erano tanti bambini al paese ma solo noi tre eravamo inseparabili. Ci dividevamo solo per dormire, neanche per mangiare. Le giornate passavano veloci, tornava l’estate e si ricominciava a giocare come se niente fosse cambiato, tutto si ripeteva in maniera identica, tranne l’ultima estate. Non ricordo bene quanti anni avevo, so solo