La Forza per Rinascere
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Info su questo ebook
Cascia Galoppi, classe 1981, è nata a Pszczyna, in Polonia, e vive e lavora a Udine. Moglie felice e madre di due figli, è stata campionessa nazionale nelle gare di Performance monta western per la categoria Novice Amateur nel 2015. Un amore smodato per cani e cavalli, La forza per rinascere è il suo libro d’esordio.
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Anteprima del libro
La Forza per Rinascere - Cascia Galoppi
Cascia Galoppi
La Forza per Rinascere
La Forza
per Rinascere
A Mio marito, manuel
ai miei figli, fabio e matteo
ai miei genitori, rosario e annalisa
perché senza di loro non sarei qui
"e quando pensi che sia finita
è proprio allora che comincia la salita
che fantastica storia è la vita"
Antonello Venditti, Che fantastica storia è la vita
Premessa
Scrivere di me, della mia storia, significa iniziare un viaggio raccontando una vita che è venuta fuori come voleva lei, senza che io avessi il potere di deciderne ogni tappa, soprattutto l’inizio. Ed è quello, proprio, l’avvio, che a volte pare pregiudicare tutto: cosa può una bambina appena nata contro le storture di una esistenza sfortunata? È facile lasciarsi penetrare dal pensiero che tutto vada come deve, però, fino alla fine, ma non è per abbandonarci all’ineluttabile come una foglia spazzata via dal vento che siamo chiamati a stare al mondo.
Parlare a voi di ciò che ho vissuto fin da quando sono venuta al mondo, mi porterà a ripercorrere sia i dolori sia le gioie. Dovrò tornare al pensiero di una bambina cresciuta tra stenti ma anche felice, piccola e allegra tra i suoi giochi e, allo stesso tempo, adulta responsabile dei propri fratelli, perché per l’appunto il destino era lì, beffardo, a scegliere per lei.
Il flusso di pensieri tracciato su queste memorie vi accompagnerà da un piccolo paese della Polonia in cui sono nata, a un Paese che non era il mio, l’Italia, ma che è poi divenuto la mia casa.
Le parole mi condurranno dove forse una parte di me non avrebbe voluto più tornare, ma verso cui sento il bisogno di andare per spiegare a me stessa e a voi chi sono adesso, cosa si celi dietro i miei sorrisi e di che sostanza siano i miei pensieri. Raccontare di me è narrare una vita movimentata, una capriola di emozioni continue di un’esistenza che non è sempre stata rose e fiori. Compito difficile sarà tracciare ogni singola sfumatura e imperscrutabile sfaccettatura, immergersi in un passato denso e pieno che mi ha reso la persona che tutti oggi conoscono.
I fatti dolorosi della mia storia sono per la maggior parte quelli che non ho potuto programmare, troppo giovane e impotente per cambiare fin dall’inizio il corso degli eventi. Assieme a questi, numerosi, prenderanno però forma gli aneddoti che lasceranno aprire le mie labbra in un sorriso, quelli che righeranno le guance di lacrime, ancora, e le storie che credevo avere dimenticato e che invece sono ancora lì: tutto questo è stata la mia vita.
Niente può essere relegato in un angolo, come se potesse essere gettato, perché ogni singolo episodio rappresenta l’elemento minimo di un risultato, la somma di tanti piccoli punti di una linea ben precisa che sono io, e non potrebbe essere altrimenti.
Ho impiegato quarantuno anni, l’età che ho adesso mentre scrivo, per accettare ciò che per lunghissimo tempo mi ha fatto erroneamente percepire di essere una persona a metà, con verità indicibili, incomunicabili a nessuno. La madre felice di due figli oggi, lontana anni luce dalla bambina data in adozione e che inizia un nuovo percorso, con un senso di inadeguatezza mai sopito. Una diversa, era così che mi sentivo.
Arriva un tempo, però, in cui bisogna fare i conti con le frustrazioni, le sofferenze, la vergogna. Giunge l’ora di scoperchiare la scatola dentro cui abbiamo tappato tutto, senza consentire mai a nessuno, nemmeno agli affetti più cari, di sbirciare. Fuor di metafora, accolgo con fierezza il coraggio che mi muove, finalmente, per mostrarmi nella mia interezza, autentica, senza più schiava di costrette omissioni e immobilizzanti paure. Sì, i sentimenti possono bloccarti, fermarti a un passo da una liberazione, quella che ottieni quando scorrendo la galleria dei ricordi, puoi con serenità volgere lo sguardo a ogni opera che ne ha costituito l’intero. È così che voglio sentirmi adesso, intera: una donna che è stata qualcuno, che è e che ancora deve essere tanto altro, lanciata al galoppo come quei piccoli puledri che, appena nati, sembrano stare indietro agli altri ma che, se li guardi attentamente negli occhi, intuisci che sono destinati a grandi cose.
Mi piace pensare che, alla fine di questo libro, spinti dalla mia onestà e schiettezza, ognuno di voi sappia comprendere che la vita dobbiamo sempre viverla, anche quando pare che non ci sia via d’uscita, e allora bisogna che ci combattiamo contro, senza arrendersi mai.
Come e perché le cose siano andate così, per me, non è dato saperlo fino in fondo, ma in una cosa credo fermamente: una forza che è al di sopra di noi, e che non saprei bene descrivervi, di sicuro non mi ha mai abbandonato. Un segno, una presenza, qualcosa di inafferrabile che c’era quando ho rischiato di non potere sapere cosa di bello ancora c’era in serbo per me.
È anche grazie a questa forza che oggi sono una donna serena, pronta ad offrire a chi vorrà leggere queste righe la dimostrazione che tutto passa, quando ci impegniamo a non buttare via ma, soprattutto, riusciamo ad accettare noi stessi.
Capitolo primo - Dove tutto ebbe inizio
Mi chiamo Katarzyna, Kasia nella forma abbreviata, ma tutti adesso mi chiamano Cascia, che è il modo in cui il mio nome suona in italiano. Sono nata il 4 luglio del 1981 a Pszczyna, un piccolo paese vicino Katowice, in Polonia. A chi legge, potrebbe apparire l’incipit più semplice del mondo, il più scontato e naturale ma non per me, che queste cose le ho tenute nascoste per oltre quarant’anni. Sono in pochi a conoscere ciò che mi appresto a scrivere e neppure nella sostanza totale di ogni dettaglio.
Non è stato facile privarsi del conforto di chi avrebbe potuto comprendere, se solo mi fossi armata del coraggio di rivelare come stavano realmente le cose, come tutto era nato e dove ogni cosa trovava il suo doloroso principio.
Spiegare a chi non c’è nato, nel mio Paese, cosa significasse nascere lì negli anni Ottanta non è affatto facile. Si sentivano ancora gli effetti della guerra e la crisi economica colpiva ogni ambito, anche quello che rappresentava il procurarsi i beni di prima necessità. Per comprare la carne, ad esempio, bisognava fare una lunga fila e presentarsi con una tessera, ma questo non era un nostro problema: di carne ne abbiamo vista davvero pochissima in quegli anni.
Le opportunità erano due e non c’erano alternative alcune: nascere dalla parte fortunata o da quella sfortunata del mondo. Neanche a dirlo io, purtroppo, facevo parte della seconda categoria, quelli della metà del cielo dove, bene che ti andasse, riuscivi a mettere qualcosa sotto i denti a giorni alterni. Non che me ne rendessi conto, per carità, delle mie privazioni, al contrario: come puoi credere che la vera vita non sia quella che conduci quotidianamente, da sempre, ogni giorno uguale all’altro?
Il posto in cui sono nata rappresentava il mio tutto. Un paese molto carino, lo definirei anche adesso, con un enorme parco e un bellissimo castello che potevi scorgere alzando lo sguardo. Una comunità di poche anime dove mi piace tornare spesso, senza potere sottrarmi alla vista di tutto quello che è stata la mia infanzia, i momenti belli e anche quelli dolorosi. Non posso fare a meno, quando mi ritrovo a percorrere le vie del parco in cui sono cresciuta, di portare alla memoria eventi, episodi e fatti che soltanto oggi che sono adulta posso comprendere nella loro vera essenza. E così, ciò che da bambina mi appariva come la cosa più naturale del mondo, perché era quella la maniera in cui io vivevo, adesso lo vedo con altri occhi e sono capace di rendermi conto di cosa sia giusto tenere come ricordo prezioso e cos’altro invece provare a dimenticare.
La comunità in cui sono nata era fatta di gente umile e modesta, e anche questo l’ho scoperto quando sono arrivata in Italia. Avevo visto la povertà come una compagna che non ti lascia mai e contro cui devi armarti, attraverso la furbizia, ingegnandoti per potere sopravvivere. Si trattava di uno stile di vita del tutto differente da quello che un giorno la sorte mi avrebbe messo davanti. Solo in quel momento, avrei compreso: le nuove abitudini, i nuovi modi mi avrebbero aperto gli occhi, svelando l’inganno di quella normalità che reputavo tale e che, invece, tale non era affatto.
Sono nata il 4 luglio, seconda figlia di una coppia che di figli ne avrebbe messi al mondo altri quattro dopo me, la prima femmina: Agnieska, Leszek, che porta lo stesso nome di nostro padre, Patryk e Aneta. Mio fratello maggiore, Sebastian, era nato appena un anno e mezzo prima, e così sarebbe stato per quelli a seguire, come una specie di appuntamento con il tempo cui i nostri genitori non avrebbero mancato per parecchi anni. Entrambi molto giovani, incoscienti forse, si sono mossi assecondando una sorta di impegno con la natura, ciclico. Un pendolo cadenzato ha regolato la nostra vita famigliare: poco più di dodici mesi e una nuova bocca da sfamare, innocente anche lei, faceva capolino e urlava la propria legittimità di esistere in una casa dove regnava imperante la miseria.
Mio padre e mia madre avevano appena vent’anni quando è nato il loro primo figlio e quando la famiglia si è allargata fino all’ultimo dei miei fratelli non era rimasto nel nostro minuscolo appartamento neppure lo spazio per potere dormire senza dovere stare l’uno addosso all’altro. Gli spazi vitali ridotti al minimo, una specie di camerata indivisa di appena tre metri per tre, confusa, indistinguibile.
La casa dove ho abitato per i primi anni, sette o otto per quello che ne ho memoria, era composta soltanto da una camera dove c’erano due letti, uno dei quali per i miei genitori e l’altro dove eravamo costretti a stare tutti noi figli. Il bagno, poi, era una piccola stanza che, insieme a un altro minuscolo ambiente che avrebbe dovuto essere una cucina, costituiva tutto il nostro spazio vitale. Non avevamo neppure la carta igienica, costava cara, e ci si puliva con dei fogli di giornale. Che la cucina fosse piccola, poi, era il minore dei problemi. Spesso non sapevamo cosa farcene e rimaneva inutilizzata, perché non c’erano i soldi necessari per pensare di preparare da mangiare tutti i giorni. Anche questa, per noi, era la normalità.
Mia madre non ha mai lavorato, perché per una donna con una prole così numerosa era impensabile. In linea di principio, ragionamento ineccepibile e legittimo, se soltanto le cose non fossero andate a scatafascio, a un certo punto: lei c’era, ma non nel mondo in cui ci si aspettasse. Non è mai stata capace di svolgere appieno il suo ruolo e, anche se suona molto duro dirlo, è per questo che ho sempre provato del forte risentimento per lei. Se avessi dovuto esprimere una preferenza,