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Era solo un giorno normale
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E-book257 pagine3 ore

Era solo un giorno normale

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Info su questo ebook

In una realtà distopica, ma sin troppo simile alla nostra, si svolge una vicenda tra il giallo, la commedia e il thriller. L’imprevedibile romanzo di Giusi Romeo ci conduce per mano a scoprire ciò che conta davvero, svelando al contempo i misteri del cuore e quelli della scienza.


Giusi Romeo è nata a Messina il 12 giugno 1955. Dopo un percorso di studi classico, si è laureata in fisica con il massimo dei voti. Di seguito ha fatto ricerca in astronomia all’osservatorio astronomico di Catania.
Dopo sposata, nel 1981, si è trasferita a Bologna dove ha conseguito il dottorato di ricerca in astronomia, con ulteriore e conseguente impegno nella ricerca scientifica, questa volta affiancata da suo marito, purtroppo deceduto.
Adesso si dedica alle sue passioni di sempre, in particolare il disegno. A questo si è aggiunto, negli ultimi anni, lo scrivere poesie e racconti. Era solo un giorno normale è la sua prima pubblicazione.
LinguaItaliano
Data di uscita31 ott 2022
ISBN9788830672536
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    Era solo un giorno normale - Giusi Romeo

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    Giusi Romeo

    Era solo

    un giorno normale

    © 2022 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-6523-1

    I edizione ottobre 2022

    Finito di stampare nel mese di ottobre 2022

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    Era solo un giorno normale

    Nuove Voci - Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i quattro volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    .

    Capitolo I

    Era un giorno normale. Il sole era alto e prorompente…

    Ma scherziamo?! Il sole non era né alto, né prorompente. Faceva invece un freddo cane e fra le varie cose non avevo voglia di fare niente. Era una di quelle mattine in cui il nonsenso prevale su tutto: non aveva senso fare colazione, non aveva senso lavarsi e avrei potuto andare avanti all’infinito.

    Perché?

    Ci sono dei momenti nella vita in cui tutto perde significato: si ha la sensazione di doversi fermare a ricaricare la batteria. Fermarsi, dormire… ma se ci pensiamo bene: siamo in attesa di cosa?

    In attesa, forse, di fare un minimo di colazione. Un minimo sindacale di colazione. I miei pensieri si perdevano e mi trovavo a guardare il colore della confezione di biscotti e, per la prima volta, mi interessava notare che passavano per biscotti giganti.

    Scherziamo?! Biscotti giganti quegli affarini che persino Briciola poteva ingurgitare in un boccone?!

    A fine mattinata avevo dedotto due cose: primo che il mio principale, a causa del ritardo, mi avrebbe torturato per tutta la giornata; secondo, che non volevo fare più quel mestiere.

    In fondo, dopo quel vaneggiare mattutino, avevo forse trovato la causa del mio malessere.

    Fuori era veramente freddo. Guidavo la mia utilitaria e contemporaneamente cercavo di sistemarmi sulle spalle il mio scialle soprannominato Charlie Brown. Tremavo, ma non tanto per il rigore invernale di quel giorno, quanto per quel disagio interiore che però avvertivo non da quella mattina, ma da molto tempo. In fondo non è che non volessi più fare quel lavoro, forse la causa era molto più profonda: cioè che non riuscivo più a condividere il mio mondo con gli altri. E questo perché gli altri, forse, non lo condividevano più con me.

    Devo dire che non sono un orso, ma, di solito, sono una ragazza empatica, socievole e piena di curiosità. Quando però il mondo non mi vuole, io lo escludo definitivamente. Ecco, era successo proprio questo: non avevo più niente da dire al mondo e il mondo non aveva più niente da dire a me.

    Attraversai il corridoio in silenzio. I miei colleghi erano tutti immersi nel loro lavoro, ma non era più come una volta, era… diverso. Da un po’ di tempo non notavo più entusiasmo, non sentivo intorno quella voglia di combattere, di aggredire le ingiustizie…. sì, si continuava a sfornare scoop pretestuosi, pezzi da semi - premio Pulitzer, ma era come se tutto fosse già predisposto.

    Dentro di me iniziavo ad avere il sacro terrore di essere vittima di una patologia che mi faceva travisare la realtà. Mentre la mia mente vagava, improvvisamente, il trillo del telefono mi fece saltare sulla sedia. Era il mio capo, voleva che andassi da lui. Con molto sconforto, nascosto da molto garbo, mi presentai nel suo ufficio. Freddo lui, fredda io. Poche parole, molte richieste.

    Dovevo fare un servizio in un paesino appollaiato sulle colline, niente di speciale, ma interessante. Soprattutto, perché mi sarei allontanata da quel posto e da quella città, e non avrei continuato a logorare la mia vita più di quanto fossi riuscita a fare fino ad ora.

    Capitolo II

    Un altro giorno, e si affacciavano piccole e timide speranze. Portai giù il mio bagaglio e la mia forte tendenza era quella di tornare su e moltiplicarlo come i pani e i pesci. Mi venne, improvvisamente, l’idea di un Dio che ci avesse amati o che ci amava ancora e questo pensiero mi provocò un nodo alla gola. Avrei tanto voluto un abbraccio forte e dolce al contempo perché mi sentivo sola e molto, moltissimo, fragile.

    Ingranai la marcia e il groppone in gola lentamente si sciolse. Ero libera, libera di volare fra le stradine di provincia alla ricerca di quelle emozioni che da un po’ erano latitanti. Malgrado le temperature rigide, avevo lasciato il finestrino aperto. Briciola condivideva il mio entusiasmo e fra un abbaiare e un canto stonato, la mia macchinetta macinava chilometri su chilometri. Mi sembrava di essere tornata indietro agli entusiasmi della gioventù, quegli entusiasmi che erano fatti di niente: che erano solo generosi verso il mondo e verso la vita.

    La strada si faceva sempre più tortuosa, via via che si andava avanti si stringeva sempre di più: sembrava quasi che la natura volesse dimostrare la sua vittoria contro la prevaricazione del mondo prendendosi a forza la sua indipendenza.

    Il sole urlava come non mai e il suo suono invadente era percepito da un piccolo boschetto che lo accoglieva con un riverente silenzio. Anch’io ne ero soggiogata, così andavo sempre più piano quasi volessi annullare il rumore del motore. Il paesino si intravedeva in alto, abbarbicato su una cima seminascosto dal verde, quasi volesse scusarsi di aver invaso il bosco. Tutto, insomma, dava l’idea di una sacralità perduta.

    Anche il paesino sembrava stare in religioso silenzio davanti all’esibizione del Sole.

    Ora la strada saliva, la sua pendenza aumentava sempre di più ed io non mi perdevo più in pensieri vani, la mia attenzione e il mio interesse erano più vivi. Mi sembrava di avere tutti i nervi sotto controllo, ma stranamente percepivo un senso acuto di disagio, o meglio, di fastidio causato dalla novità.

    Fin qui si era scherzato, adesso era tutta un’altra storia: non volevo ammettere di avere paura. Ma perché dovevo avere paura?

    Una bella domanda che sarebbe rimasta senza una risposta. Nella mia banale vita mi ero sempre buttata a capofitto su ogni cosa, fosse essa di banale respiro oppure complicata. Non avevo mai avuto mezzi termini, solo bianco o nero.

    Lo consideravo un difetto di fabbrica: la vita ti chiedeva compromessi e io li negavo quasi per partito preso. In realtà, alla luce delle mie esperienze, non sempre era così, molto spesso toccava scendere a patti con il compromesso, ma il più delle volte facevo lo stesso una crociata contro di esso.

    In questa inerpicata non indifferente il motore mi avvertiva che voleva andare in pensione: era stanco e affaticato e rumorini poco noti si sommavano ai tanti già conosciuti. Poco distante dalla strada: si intravedeva un piccolo cimitero. Doveva essere un gioiellino del posto, sembrava tutto fuorché un posto luttuoso: era sobrio, ma pieno di colori. Le tombe erano poco maestose, ma serene. Ne ero stupita, perché di solito cimitero implica dolore, cupezza, sacralità arcana.

    Visto che la mia macchina non ce la faceva più decisi di fermarmi. Briciola non era d’accordo ed esprimeva la sua contrarietà con un abbaiare continuo e molto fastidioso. Mi inerpicai su per il piccolo viottolo che portava alle tombe, ma come al solito avevo delle calzature improprie: non avevo considerato il fatto che non avrei più visto strade sontuosamente asfaltate, forse le uniche a poter essere le alleate di un tacco dodici.

    Camminavo così, a fatica, quando intravidi un’ombra poco distante sul bordo di una tomba tutta bianca. Al momento pensai ad un ragazzo, forse quella che curava era la tomba di un genitore. Ne sentii quasi il dolore in una sorta di empatia da WiFi, ma mi accorsi improvvisamente che era una persona matura, se non addirittura anziana, quella che sistemava fiori sulla piccola e bianchissima tomba. Mi stavo avvicinando quasi con soggezione quando il rumore di uno sterpo che io avevo calpestato lo costrinse a voltarsi di colpo. Lui era sorpreso ed io ero quasi impaurita.

    Mi guardò perplesso e io gli risposi con uno sguardo altrettanto perplesso, ma incuriosito.

    «Non l’ho mai vista da queste parti», disse.

    «Neanch’io», risposi in maniera abbastanza incongrua. Poi mi risvegliai dal sonno e mi resi conto che non c’entrava per niente quella risposta.

    «Mi scusi. Volevo dire che non sono di qui. Sono di passaggio. Ma vi conoscete tutti da queste parti?».

    «Direi di sì. Siamo le stesse famiglie da generazioni. Ogni tanto ci trasferiamo nel mondo civile, poi torniamo qui perché quel mondo lì non fa per noi».

    Mentre parlava le sue mani esperte pulivano i fiori da qualche foglia secca e disponevano tutto con molto garbo e religiosità. Sapevano dove andare anche se all’apparenza erano così grandi che non avresti scommesso un centesimo sulla loro abilità.

    «Mi chiamo Alberto, Alberto Ferrari, Berto per gli amici».

    «Io sono Giuditta Rossi, Giudi per gli amici».

    L’imbarazzo era volato via: sembrava che ci conoscessimo da tempo e avendo superato la timidezza lo osservai più attentamente. Capivo adesso perché lo avevo scambiato per un ragazzo: aveva un volto bellissimo malgrado l’età. Aveva lineamenti puri, perfetti per un contadino. Eleganza e stile. Chissà perché lo avevo considerato un contadino? Forse perché aveva dimestichezza con la terra? Ma sistemava solo dei fiori!

    Dovevo sapere ed era ora che sfoderassi il mio talento per saziare la mia curiosità.

    «Lei è dunque originario di queste parti?».

    «Sì. Si può dire che questo borgo è stato fondato da poche famiglie e continua ad esserlo. Abbiamo molto combattuto per il nostro isolamento. Non abbiamo incrementato alcun turismo. Siamo, in definitiva, un borgo antico con poco influsso del mondo moderno. E ci teniamo tanto».

    Il tanto era stato un po’ calcato, come per dire che avrebbero scacciato tutti gli invasori non accetti.

    Iniziai a provare un po’ di panico. Mi trovai a maledire per l’ennesima volta il mio capo, ma non mi venne in mente altro. Alquanto imbarazzata, mi soffermai a osservare le mie scarpe, quando improvvisamente Briciola mi venne in aiuto. Mi saltò sulle gambe, poi fece lo stesso su quelle di Alberto e iniziò a scodinzolare al forestiero.

    «Che bel cagnetto, di che razza è?»

    «Nessuna: è un bastardino».

    Poi, ripensando alla situazione, mi trovai a chiedere mentre sfogliavo una margherita: «Prima lei ha fatto capire che non ama il mondo moderno, ma cosa intende per mondo moderno, gli agglomerati urbani o tutta la società di oggi?».

    «Mi riferisco soprattutto alle città e di conseguenza a quelli che le abitano. Il mondo rurale ancora si salva, ma credo che lo farà per poco. Mi scusi per la schiettezza, ma le confesso che i cittadini io li disprezzo. Sono la tomba della civiltà, della vera civiltà». A questo punto si fermò come per controllarsi, ma non ci riuscì: «La civiltà che mantiene la parola data, l’essere responsabili delle proprie azioni, la civiltà dell’onestà, del senso del dovere, insomma dell’essere veri uomini». Poi come se le sue parole fossero benzina sul fuoco poco domato che portava dentro, riprese a dire con un tono concitato: «Nelle città ho visto un mercimonio di anime, un inferno che neanche il male sarebbe riuscito ad architettare. E quello che più mi ha mandato, letteralmente, in bestia è stato l’aver coperto tutte queste piaghe con una pesante coltre di ipocrisia, sorrisi e atteggiamenti amicali. C’è qualcosa di diabolico in questo mondo di oggi, con la corruzione che avanza indisturbata, perché è servita su un piatto d’argento e giustificata dalle circostanze».

    Poi, diretto oramai all’ultimo stadio della sua insofferenza mise la ciliegina sulla torta: «In questo senso i politici ne sono dei campioni: distruggono sotto un assolutismo imperante quel poco di libertà che cerca di sopravvivere, proprio come le piantine che si fanno strada nel cemento».

    Rimasi di stucco, e neanche Briciola ebbe l’ardire di un cai. Anche se il tono era indubbiamente eccessivo, non mi sarei mai e poi mai aspettata una tale esibizione di intelligenza e dialettica in un posto come quello e da un contadino.

    Ma era poi un contadino? Bella domanda, come potevo fare per saperlo? Presi la cosa alla larga, dandogli ragione su tutto. Lo facevo non per adularlo, ma perché era quello che pensavo anch’io da moltissimo tempo. Il suo discorso aveva solo dato corpo a sensazioni che non avevo avuto il coraggio di enunciare. Non avrei saputo neanche esprimerle, perché ero quotidianamente incastrata in una realtà che occultava il vero, della quale mi trovavo all’interno: un po’ come chi va in un mare sporco e nuota lì perché non vede altro. È inutile che si dimeni: non ha e non vede alternative. Forse quel posto isolato era la riva incontaminata. Improvvisamente mi sentii attirata da questa nuova prospettiva. Domande e desideri si accalcavano nella mia mente, quando la sua voce mi richiamò alla realtà.

    «Giuditta, vero? Mi scusi per prima. In fondo vivo e lascio vivere, ma lei non so perché mi ha riportato a galla tutto… questo. Non mi fraintenda: non ne ha colpa, anzi! Stranamente ha riportato a galla l’idealista che ero una volta».

    «Io avrei fatto questo? E come è potuto succedere in così poco tempo?»

    «Onestamente non glielo so dire, so solo che è così. Ne sono stupito anch’io».

    Eravamo in un’impasse, la situazione si faceva sempre più ingestibile, ma ebbi l’ardire improvviso di voler rimediare. Mi ricordai il metodo che Anna, la mia migliore amica, mi suggeriva da sempre, diceva che una buona battuta era come un bicchiere di vino: metteva d’accordo tutti. Cercai disperatamente di ricordarmene una, ma il vuoto più totale era uno scherzo al confronto. Stavo per allontanarmi e gettare la spugna quando un rumore ci fece girare entrambi: un ragazzo molto alto e molto bello ci salutò allegramente. Aveva i tratti di Alberto, ma era più solare, quasi luminoso.

    «Salve. Disturbo?».

    «No, Massimo, non disturbi. Le presento mio nipote».

    E poi presentò me a lui. Tutto era stato cancellato, tutto era tornato alla normalità.

    «Salve. Sono lieta di conoscerla», dissi e ci si poteva giurare su questo. Mi ritrovai a guardare sempre più interessata il ragazzo e anche se rischiavo di sembrare ridicola, non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso.

    Con lo stesso interesse, il ragazzo rispose immediatamente alla mia curiosità e se prima c’era l’impasse con il vecchio, adesso si rischiava con il giovane. Forse era colpa dell’aria o delle piante, fatto sta che eravamo punto e accapo. Finalmente, ci salvò l’essere più intelligente che stava lì: Briciola iniziò ad abbaiare come se quello fosse l’ultimo giorno della sua vita e tutto si sistemò.

    «Ma lei sarà stanca», dissero all’unisono.

    «Sì, direi proprio di sì. Sono in viaggio da ore e vorrei fare un bagno caldo e poi una cena molto abbondante. Non mangio da stamattina».

    «Ma sicuro», disse Alberto, «la porto da Giovanna. Ha una pensione pulita e ci si mangia benissimo. Venga con me».

    Dopo un passo mi ricordai che io avevo una macchina con dentro i bagagli mentre loro erano, supponevo, a piedi. Allora presi l’ardire di invitarli a tornare con la mia pandina, l’unica difficolta fu che avendo entrambi gambe lunghissime ed avendo io farcito la mia utilitaria di tutti i bagagli possibili, il viaggio si rivelò molto complicato. Briciola fu il più penalizzato, relegato fra un borsone e le gambe contorte del giovane, ma non lo diede a vedere perché per tutto il tempo si divertì a scodinzolare a Massimo: si era venduto al nemico.

    Arrivammo finalmente in paese: mi aspettavo un posto, se non enorme, almeno importante, vista la curiosità del mio direttore. Invece quello che vidi fu un piccolo villaggio. Ma devo dire che era proprio bellissimo: sembrava di stare in una fiaba, casette piccole, molto curate con fiori sul davanzale, strade pulitissime e pochissima gente sulla via. I volti delle persone erano solari come quello di Massimo, erano tutti gentili e non mancavano di salutarsi con cordialità.

    Briciola saltellava con uno sprint che non gli avevo mai visto, attirava molta attenzione e ne era felice. Sembrava veramente di stare in un libro fantastico, con gente fantastica. Arrivammo da Giovanna in un battibaleno, stava un po’ fuori, ma ne valeva la pena. Il posto era magico: vi erano alberi pieni di frutta e fiori splendidi, d’inverno questo avrebbe dovuto sembrare insolito, ma lì era tutto insolito. Più in là si scorgeva un brillio, non capii subito da cosa fosse causato. Dopo qualche passo però, mi accorsi che vi era un piccolo sentiero che portava ad un laghetto. Era tutto meraviglioso, troppo bello.

    E fu così che dissi: «Mi trasferirei subito qui, giuro che lo farei. Mi sembra di avere aperto un libro di fiabe e di stare scorrendo le pagine come facevo da piccola. Mi dispiace di dovere tornare in mezzo al niente».

    «Ma perché non lo fa?», disse Massimo. Alberto fu dello stesso parere, ma lo disse con più garbo, ebbi la sensazione che nelle sue parole ci fosse un po’ di ritrosia: forse aveva paura che mi portassi dietro i miei amici, gente che lui aveva cancellato dalla sua vita nelle parole di

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