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Rotelle in place: La cucina, i sogni e i colori, un piede in ogni continente,incontri di viaggio e un ospite indesiderato.
Rotelle in place: La cucina, i sogni e i colori, un piede in ogni continente,incontri di viaggio e un ospite indesiderato.
Rotelle in place: La cucina, i sogni e i colori, un piede in ogni continente,incontri di viaggio e un ospite indesiderato.
E-book469 pagine6 ore

Rotelle in place: La cucina, i sogni e i colori, un piede in ogni continente,incontri di viaggio e un ospite indesiderato.

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Info su questo ebook

Questa autobiografia fotografica parla della mia vita, dall'infanzia all'età adulta, ma soprattutto di viaggi e luoghi lontani. Potrà strapparti qualche lacrima e molti sorrisi. Mettendo piede in ogni continente, dalle infinite spiagge della Nuova Zelanda ai ghiacci della Groenlandia, ti porterò nei posti che ho visitato e che hanno lasciato una traccia indelebile in me, fino a quando un "ospite indesiderato" ha provato a fermarmi. È anche il percorso della mia carriera di cuoco, dai sapori della nonna fino alle pietanze cucinate per grandi Vip a Londra. Questo è il lascito per mio figlio, ma è anche ciò che voglio condividere con chi ha paura di lasciare le proprie radici in cerca di fortuna, di uscire dalla propria confort zone e con quelle persone che non riescono ad aprire quei cassetti dove sono riposti i propri sogni. Ci sono situazioni che a me piace chiamare rotelle della vita, come se il destino fosse l'ingranaggio di un orologio meccanico, complicato e affascinante nel suo insieme. Tutte le rotelle devono incontrarsi, incastrarsi tra loro nel modo perfetto e così dare un perché al loro essere, così come noi dobbiamo far muovere nel modo giusto il nostro ingranaggio e dare un perché a tutti gli avvenimenti, luoghi e persone che incontreremo. Un viaggio è soprattutto fatto di incontri e ognuno di essi ha un suo perché nel disegno della vita.
LinguaItaliano
Data di uscita13 set 2022
ISBN9791221428322
Rotelle in place: La cucina, i sogni e i colori, un piede in ogni continente,incontri di viaggio e un ospite indesiderato.

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    Anteprima del libro

    Rotelle in place - Daniele Festa

    Parte Prima

    Intro

    Non appena l’ecografista passò la sonda sulla pancia cosparsa di gel medusoide, cambiò espressione. «Qui abbiamo un problemino.»

    Se sul momento mi piacque l’uso di quel plurale empatico, dandomi l’impressione di qualcosa di facilmente risolvibile, tutto svanì alla sua seconda affermazione. «Sì, ha un problema al rene destro ma non vedo secondarismi.»

     Il diminuitivo e il plurale erano spariti e il termine secondarismi dava a intendere che questo problemino aumentato rapidamente di gravità in così poco tempo avrebbe potuto andarsene in giro per il corpo da altre parti.

    Il suo volto, illuminato dallo schermo, era il mio unico riferimento nella stanza semibuia; lo guardai, trattenendo il fiato, fino a quando mi uscirono le parole.

    «Che tipo di problema?»

    «Una formazione solida, da investigare ulteriormente, ma non si preoccupi: male che vada lo asporteranno. E poi, anche Briatore è senza un rene e vive benissimo.»

    «Ah, beh, allora!»

    Che incoraggiamento. Forse c’è gente che darebbe via un rene per vivere come Briatore? Non afferrai il senso della frase, se voleva essere ironico non ci riuscì. Le parole che aveva pronunciato prima stavano già scavando dentro di me. Aspettai in sala l’esito, mangiando una banana, cercando di prepararmi psicologicamente, fino a quando arrivò quella busta gialla che quasi non strappai dall’ansia:

    Neoformazione di 9cm al rene destro.

    Nel giro di un nano secondo ero su google a cercarne il significato, anche se già lo sospettavo: tumore, maligno o benigno. Salii in sella al Ciao, un milione di pensieri vorticavano nella mia testa, ma di certo non mi consolai pensando al Billionaire.

    Ci sono momenti che cambiano la vita. Quello cambiò la mia.

    È stato per questo che, dopo un percorso difficile, pieno di dubbi, speranza, rabbia e amore, ho deciso di scrivere un libro sulla mia vita, questo libro; sentivo il bisogno di fermare su carta tutti quei ricordi che avevo accumulato, tutte le esperienze che mi avevano arricchito, non per me stesso, ma per lui, per mio figlio.

    Voglio che conosca tutte le cose che ho vissuto, i volti delle persone più folli che ho incontrato, le avventure, i colori dei paesi, gli obiettivi raggiunti, voglio conosca il padre di un tempo, quello sano, forte, pronto all’avventura, che conosca lo spirito che mi animava e che mi portava alla scoperta del mondo e che spero di riuscire a trasmettergli.

    Quando ho iniziato a scrivere, la situazione intorno a me era davvero surreale, sembrava l’inizio di uno di quei pessimi film catastrofici che continua a essere trasmesso. La pandemia. L’altro augurio che faccio a mio figlio è che tutto questo finisca, che si torni a un mondo dove le persone possano abbracciarsi, ritrovare la dignità del lavoro, vivere senza sentirsi minacciati. Voglio lasciargli la speranza e la gioia della vita, sempre.

    Ho bisogno di sapere che sarà così, avrei bisogno io stesso di saperlo, di vederlo, perché questa situazione è una ferita nell’anima. È come se fossi in una gabbia, a sua volta dentro un’altra gabbia, vorrei almeno uscire da quella della pandemia.

    Chiudono l’uno dopo l’altro i posti che hanno segnato la mia vita, i locali, i teatri e i ristoranti, a Londra e qui in Italia, luoghi dove ho lasciato un pezzo del mio cuore.

    Vederli chiudere è come abbassare la saracinesca su quello squarcio di vita e su tutte le persone che lo hanno popolato insieme a me.

    Questo libro sarà il film che spero Yuri vorrà guardare, un quadro dei miei tempi, così diversi da quelli in cui dovrà vivere. Mi dà sollievo farlo, quando scrivo mi sento bene, svuoto la mente dalle angosce.

    Fermare i ricordi su carta è qualcosa di liberatorio e nello stesso tempo è come salvare la mia memoria, perché quando vedo mia nonna, affetta da Alzheimer, perdere lentamente la sua, allora ecco che diventa un’esigenza sempre più impellente e confortante.

    Questo libro è anche dedicato a chiunque sia entrato nella mia vita, direttamente o indirettamente, partendo dal commis licenziato dopo un’ora fino all’amico/a di una vita.

    Entrare nella memoria delle persone che incontri e rimanere lì, ancorato ai loro ricordi, per me è un onore, significa che hai saputo lasciare qualcosa di te. Mi chiedo quando Yuri inizierà a immagazzinare ricordi: parole, luoghi, visi, sorrisi, lacrime, ogni cosa che incontrerà nella sua vita. Mi domando quale sarà il primo in assoluto e se io ne sarò compreso.

    Conosco il mio primo ricordo, un fugace flash di libertà, riaffiorato tramite le parole di mio padre. Avevo solo tre anni.

    Mi raccontò che un giorno, mentre lui era al telefono, scappai dalla porta di casa e corsi in strada. Ecco, se chiudo gli occhi, mi rivedo mentre cammino, infreddolito ma libero. Solo un flash, sì, perché poi mi misi a piangere fermandomi accanto a una macchina, in attesa che lui mi ritrovasse, perché di quella libertà non sapevo ancora che farmene.

    Pandemia

    6 Aprile 2020

    I contagi iniziano a diminuire da qualche giorno, segno positivo, ma non si capisce molto della situazione e il futuro è incerto.

    Io intanto convivo nella mia normalità, ossia monorene e con delle micro-metastasi polmonari, al momento non trattate, in vigile attesa.

    Sono in viaggio con mio padre verso Siena. Ho prenotato una visita al centro immunologico per capire se posso entrare in qualche trial o qualche nuova linea di cura, in caso le cose peggiorassero.

    Dal finestrino dell’auto osservo stranito un’Italia che pare immobilizzata; abbiamo con noi tutte le dovute autocertificazioni per muoverci, ma nessuno finora ci ha fermato.

    Passando veloce, lancio un’occhiata dentro le finestre delle case: immagino le persone richiuse da giorni, insieme ai loro cari, almeno chi è stato abbastanza fortunato ad averli con sé e non si è trovato separato da questi nuovi confini invisibili.

    Per ora sembra che il morale della popolazione sia buono, c’è chi paragona questa situazione a una guerra, anche se a me sembra esagerato.

    Mi piace l’idea dell’essere tutti nella stessa barca, gli applausi alle ambulanze, le canzoni alle finestre, una nuova solidarietà tra vicini...

    Stiamo passando da Sarzana, e dall’autostrada si intravede il campeggio Iron Gate: la mente scivola alle vacanze estive passate là, dal 1982 al 1990.

    Nel 1984 vinsi la mia prima (e unica) gara di nuoto.

    Mi allenai molto per quel risultato; avevo imparato presto a nuotare, mio padre faceva pesca subacquea e mi insegnò quando ero ancora molto piccolo. Quell’anno conquistai la coppa del campeggio per il miglior tempo in assoluto. Ero raggiante e mi piaceva che mio padre fosse orgoglioso di me.

    Le ferie in campeggio erano lunghe, al tempo i miei genitori erano già divorziati e facevano turni di quindici giorni a testa, così io ottenevo un mese di vacanza.

    Oltre alla vittoria della gara di nuoto accadde un’altra cosa importante in quel campeggio. O almeno, qualcosa che si sarebbe rivelato importante per me negli anni a venire.

    Durante le serate dei weekend, un disk-jockey arrivava per mettere della musica e fare divertire i villeggianti. Era l’estate del ‘89 ed era appena uscito l’album Oro, incenso e birra di Zucchero.

    Avevo undici anni ed ero incuriosito da quel ragazzo quando montava quelle attrezzature nel piazzale principale e alla sera mi mettevo seduto sul tavolo di fianco per vedere come riuscisse a non far smettere mai la musica.

    Ero affascinato nel vedere le sue mani volare su quei giradischi.

    Così, quell’inverno, provai a imitarlo con lo stereo di mio padre, ma non c’era nulla da fare, non riuscivo a riprodurre quella magia.

    Lui mi spiegò che ci voleva un mixer. Cercai allora di crearlo da me: quando ero da mia madre saltavo dal giradischi alla cassetta e viceversa. Era un inizio. Mi piaceva l’idea dello show, di far divertire i ragazzi, di sentirli cantare, di essere padrone di quelle note che scivolavano fra una canzone e l’altra, senza fermarsi mai.

    Radici

    Avere genitori divorziati e con origini diverse è stato qualcosa che mi ha permesso di crescere in due ambienti separati, quasi a compartimenti stagni, e di prendere da ognuno i lati migliori. Per questo devo parlare in breve delle mie radici; in fondo, determinano in buona parte chi siamo.

    Entrambe le famiglie dei miei genitori erano emigrate dalle proprie regioni di origine. Quella di mia madre lasciò Monselice, nel Veneto, a metà anni Cinquanta, mentre quella di mio padre arrivava da Pellaro, nei pressi di Reggio Calabria.

    La meta era stata per tutti Alessandria, perché c’erano maggiori possibilità di lavoro, la prima era rappresentata dalla Borsalino, un’azienda di cappelli conosciuta a livello internazionale, anche se, in realtà, loro trovarono lavoro altrove. Mio nonno paterno fu assunto nelle ferrovie, per la precisione nello smistamento merci ferroviario, uno dei più grandi del Paese, mentre diversi membri della parte materna trovarono impiego alla Panelli, una grossa azienda di pompe sommerse.

    I miei genitori divorziarono quando ero molto piccolo, non ho memorie di loro insieme. Col tempo, capii il perché di quella scelta; forse da giovani erano simili, ma crescendo avevano preso due direzioni opposte e io li ho sempre visti del tutto incompatibili tra loro. Anzi, negli anni è come se si fossero ancora più estremizzati nei loro stili di vita.

    Dopo la separazione, mia madre si trasferì in un’altra casa, dove al piano terra c’era il suo laboratorio di maglieria. Lavorava davvero molto, ricordo che restava fino a tarda sera per finire i lavori rimasti, anche dopo che le altre dipendenti se ne erano andate. Io le facevo compagnia, mi ero ritagliato un piccolo angolo per giocare e avevo un piccolo cortile nel retro.

    Quando ero a casa da scuola andavo con lei al maglificio Mapier, a Lomello, per me considerata la centrale delle maglie.

    Mi piaceva aspettare la sirena che suonava a mezzogiorno, con centinaia di lavoratori che sciamavano fuori con le loro biciclette per tornare a casa a mangiare.

    Una scena che si ripeteva uguale in chissà quanti altri stabilimenti, tanto che adesso, sul portone della ex-Borsalino, c’è proprio una foto che ritrae l’uscita in bicicletta degli operai.

    Alla Mapier c’erano un paio di capannoni enormi destinati esclusivamente ai telai meccanici; un inferno, per via del rumore assordante. Entrai poche volte, ma ricordo ancora quel frastuono e come le persone urlavano per farsi sentire. Ai telai erano per lo più uomini, alle macchine da cucire donne.

    In ogni caso quei viaggi con mia madre erano belli, soprattutto al ritorno, quando lei era più tranquilla perché era stata pagata. Tranne una volta, quando ci fermò la Finanza. Le fecero la multa perché la bolla di accompagnamento non era in regola e ricordo che lei dopo pianse per tutto il tragitto. Avrei voluto consolarla, fare qualcosa, ma ero solo un bambino e pensai fosse ingiusto che avessero fermato proprio noi.

    Si viaggiava poi per distribuire queste maglie ad amiche che lavoravano per lei: avrebbero completato il lavoro attaccando le maniche o i colli. Riempivamo la macchina, una Dyane 2CV all’inverosimile e poi si partiva: Valenza, Sale e Carbonara Scrivia. Da bambino pensavo che quest’ultima fosse la città dove avevano inventato la carbonara.

    La vecchia Dyane gialla spesso si ingolfava, e dopo diversi tentativi di metterla in moto si doveva aspettare, darle una pausa, e in quei momenti, magari a fine giornata prima di tornare a casa, c’era parecchio sconforto, nonostante i bei ricordi di noi che parlavamo e scherzavamo insieme nell’attesa.

    Durante quei viaggi spesso mi addormentavo sulle gambe di mia madre, era bello sentire il calore del suo corpo; se invece non ero stanco, e c’era ancora posto, stavo dietro e giocavo tra i sacchi posati sui sedili. Ogni tanto guardavo il suo profilo o sbirciavo il suo riflesso nello specchietto retrovisore. A volte la vedevo contemplarsi pensierosa quando ci fermavamo ai semafori; quand’era buio, il suo viso si illuminava alla luce dei lampioni. Era bella, ma spesso troppo stanca.

    Mia madre smise di lavorare agli inizi degli anni Novanta, poiché il mercato del tessile stava iniziando ad andare in crisi, così vendette tutte le macchine da cucire e i nostri viaggi finirono.

    In casa, alla domenica mattina era giorno di pulizie. Io mettevo la musica (l’unico vinile in casa che mi piaceva, la colonna sonora di Grease), poi si accendeva lo scaldabagno e ci si buttava in vasca. Dormivamo insieme nel lettone, io e lei, ma al mattino presto sgattaiolavo in salotto per guardare i cartoni animati come L’Uomo Tigre o Il Tulipano Nero, e ogni volta, dopo un po’, sentivo le sue urla dalla camera che mi dicevano di abbassare il volume. Sbuffando, mi alzavo dal dondolo in vimini per obbedire. I telecomandi non esistevano ancora.

    A mezzogiorno veniva mio padre a prendermi per andare a mangiare dalla nonna.

    Lui, prima della separazione, lavorava come disegnatore tecnico alla Fiat a Torino, poi cambiò totalmente e iniziò a fare l’agente di commercio per prodotti termosanitari. Prese in affitto un appartamento dall’altra parte della città e io passavo con lui il mercoledì sera e parte del week-end. Nonna Caterina era una brava cuoca, ogni pranzo domenicale era un tuffo nei sapori del sud, anche perché mio nonno, dopo l’esperienza in ferrovia, era diventato custode di uno stabilimento e aveva trovato un angolo, in fondo alla proprietà, in cui mia nonna poteva coltivare un orto. Nei pomeriggi che rimanevo da lei mi portava a raccogliere piselli o fagiolini che avremmo poi pulito insieme e, al termine del pranzo, era usanza che io tritassi il caffè nel macinino, perché doveva rigorosamente essere fresco di macinatura.

    Per qualche periodo andammo anche a pranzo dalla nonna materna, Mirella, mangiavamo insieme al nonno Sergio e a mio zio Massimo. La nonna un giorno mi rivelò che mio padre andava lì per cercare di riconquistare mia madre, ma la cosa non funzionò.

    Così iniziò una relazione con Adriana, una capo-sala dell’ospedale infantile. Non convivevano, ma passavamo molto tempo insieme, soprattutto dopo l’ultima estate a Sarzana, quando iniziammo a viaggiare per l’Italia con la roulotte. Negli anni a venire, venduta la casa mobile, viaggiammo anche per l’Europa. Adriana era una bella persona e con me fu sempre gentile, ma lei e mio padre si lasciarono alla fine degli anni Novanta e ancora oggi non conosco il motivo. Quell’anno lei mi scrisse un biglietto per Natale molto affettuoso, che conservo con cura, ultimamente abbiamo ripreso a sentirci, sono stato io a cercarla, per chiedere qualche consiglio prima dell’intervento e ho ritrovato lo stesso affetto, tanto che da allora mi chiede spesso notizie.

    In ogni caso, sia da parte di mia madre che di mio padre, erano forti i valori della famiglia, ma da parte materna, essendo più numerosi, le domeniche insieme erano decisamente più sfavillanti. La nonna Mirella e la sorella gemella Dolores erano state delle mondine e così, durante quei ritrovi, spesso si mettevano a intonare le canzoni che avevano accompagnato il loro lavoro nei campi di riso. La nonna mi raccontò che per loro, durante quelle lunghe ore con la schiena piegata, era un modo per sentirsi unite e alleviare il peso della fatica.

    La cugina di mia madre, Paola, insieme al compagno Renato, comprarono verso la fine degli anni Ottanta una grande casa in campagna nei pressi di Oviglio, con diversi animali. Divenne presto il luogo dove stare tutti insieme.

    Le giornate trascorrevano quasi tutte uguali: dopo un pranzo abbondante e sempre squisito, si passava ai canti e a giocare a carte, il tutto bagnato da un buon vino e condito da bestemmie varie, per non parlare della nebbia che si levava tutt’intorno quando iniziavano a fumare. Noi bambini però scappavamo presto fuori per andare a giocare.

    Renato per noi era un eroe perché era un pompiere, sapeva cantare e suonare, e ci sapeva fare con tutti i bambini e ragazzini, cosa che avviene anche adesso con Yuri.

    Soltanto durante le lunghe notti dei capodanni, mentre tutti gli altri attendevano l’alba giocando a carte, lui stava con noi per raccontarci qualche storia del suo lavoro, a volte anche cose macabre o imprese eccezionali fatte da lui e dai suoi colleghi, come spegnimenti estremi, salvataggi in incidenti stradali, o recuperi nel Tanaro.

    La famiglia paterna era di origini più borghesi, per loro era molto importante mantenere un contegno dignitoso. Non so se fosse perché era gente del sud, emigrata dopo la guerra, in un momento in cui la vita non era semplice per dei meridionali al nord. Mio nonno mi raccontava che era stato difficile anche trovare un alloggio, perché molti si rifiutavano di affittare ai terroni. Mia nonna Caterina era una perfetta padrona di casa, ma con l’età non capiva più tutto al volo e mio padre cercava di spronarla; lei allora mi guardava e mi faceva l’occhiolino. Era un nostro gesto di intesa che, tutt’oggi, ricordo sempre con affetto.

    Mio nonno Antonino era molto riservato e, credo, fra tutti i vari parenti, sia quello a cui assomiglio di più.

    Era un tipo abitudinario e riservato, dopo mangiato faceva sempre un pisolino e poi inforcava la bicicletta e se ne andava al dopolavoro ferroviario, a giocare a carte con i suoi ex colleghi. Anche lui ogni tanto mi faceva l’occhiolino e quel gesto era accompagnato da una banconota da ben diecimila lire.

    Era il nostro piccolo segreto, perché se papà l’avesse scoperto avrebbe messo tutti quei piccoli regali nel conto giovani per il futuro, come tutte le altre paghette che ricevevo qua e là da nonni o zii.

    In realtà, poi, quel conto si rivelò utile, ma allora preferivo avere qualcosa nelle mie tasche.

    Ecco, da mio padre credo di aver appreso l’organizzazione e questo suo motto del prima il dovere e poi il piacere, oltre alla puntualità. Da mia madre, invece, ho imparato a non prendere tutto troppo sul serio e, col tempo, a valutare bene le scelte.

    Dolci Salati

    La musica ha legato molti avvenimenti della mia vita.

    Il primo ricordo è la canzone di Lucio Dalla, 1983, e la copertina dello spartito. Andando a risentirla ora, mi stupisco di ricordare ancora il testo a memoria. Ma ci sono delle canzoni, delle parole, che rimangono impresse per sempre e assumono un significato che forse è comprensibile solo a noi stessi. Canzoni unite in modo indissolubile a momenti particolari, a emozioni, esperienze e persone.

    Mio padre suonava la chitarra, da giovane fece parte di diversi gruppi (allora si chiamavano complessi); dopo la separazione smise con loro, ma continuò a esercitarsi in casa. Io lo ascoltavo ammirato e imparavo a memoria le canzoni di De André, Pino Daniele e Lucio Dalla. Quando avevo sei anni mi regalò una piccola batteria giocattolo. Il giorno che lo vidi arrivare con quel pacco e scoprii cosa contenesse, i miei occhi si spalancarono di stupore e felicità. Non potevo crederci, anch’io ero un musicista! Iniziò così a insegnarmi i primi rudimenti, e da quel momento ogni tanto suonavamo insieme; per me era una cosa fantastica e mi impegnavo davvero, oltre a essere anche molto divertente. Lui aveva capito che la musica era già diventata la mia passione, non per nulla, quando suonava in giro e mi portava con sé, nelle pause salivo sul palco e cercavo di suonare la batteria. Dovevano portarmi via, fu anche per quello che me la regalò.

    Il 1983 fu anche l’anno dove iniziai le elementari. Furono anni di rodaggio, non ci furono grosse scelte da parte mia.

    Ognuno a scuola aveva un migliore amico, il mio era Marco, con cui mi vedevo anche nei pomeriggi. Ci divertivamo a esplorare cantine e solai dei parenti, in cerca di chissà quali tesori. Il padre era un commercialista, da lui vidi il primo personal computer con dei dischetti sottilissimi al posto delle cassette a nastro, il primo monitor a colori, il primo modem dove si appoggiava la cornetta del telefono e dei videogiochi. Allora avevano solo quattro semplici linee, eppure ai miei occhi erano tanto stupefacenti quanto gli scenari tridimensionali iperrealistici che vanno oggi. Anche a Marco piaceva suonare la batteria sulle ginocchia e su ogni cosa che trovavamo.

    Qualche anno dopo entrò in scena Mister Sergio Dolci, il cantante di una delle ultime band dove suonò mio padre (gli Oscar 70).

    Era la star del gruppo, mentre mio padre aveva più il ruolo del manager. Per riassumere dirò che Mr. Dolci si beveva quasi tutti profitti e la band non durò granché.

    Diventò il nuovo compagno di mia madre, venne a vivere con noi e io fui messo a dormire in modo definitivo nella mia camera. Quando poi nel ‘86 nacque Valentina, anche lui fu sfrattato dal lettone e finimmo con il dormire nella stessa camera grande, divisa da una sottile tramezza in legno. La paura del buio era ormai superata, ma iniziava l’incubo del russare notturno, pesante come il rumore di un trattore a cingoli.

    In quel periodo alla televisione c’era il programma di Arbore, Quelli della notte: iniziava alle undici di sera, per me era tardissimo, ma con lui in camera spesso riuscivo a vederne degli stralci.

    In quelle serate da sfrattati mi insegnò a giocare a scacchi, un gioco difficile ma molto intrigante.

    Inoltre, lavorava vicino a un video-shop e comprò il primo videoregistratore in commercio. Ogni settimana portava qualche film e iniziò così la mia passione per il cinema. Il primo film che vidi in VHS fu The Blues Brothers. Che svolta!

    Il primo concerto che invece registrai dalla televisione fu quello di Madonna a Torino. Lo riguardavo spesso, con lei c’era un ragazzino come ballerino ed io avrei voluto stare su quel palco, al suo posto. Ero innamorato di lei, almeno come poteva esserlo un bimbo di dieci anni, sognavo di incontrarla, vederla da vicino, anche solo per salutarla. Nel frattempo, era spesso protagonista nei miei sogni e la cassetta di True Blue era consumata. Volevo addirittura imparare l’inglese solo per scriverle delle lettere. Era il mio idolo.

    Continuai a seguirla fino all’album Like a Prayer, dopodiché iniziò a cambiare, a essere troppo esibizionista e trasformista, ai miei occhi perse importanza e lasciai perdere. Forse fu il suo cambio di stile, a me piaceva il ritmo dance, ma non c’erano più i musicisti sul palco con lei e per me vedere una batteria era essenziale.

    Nonostante tutto non mi sono dimenticato di quel concerto e lo rivedo spesso, almeno una volta all’anno; mi piace ancora la semplicità, la musica dal vivo; Jonathan Moffet alla batteria era il mio secondo idolo, con i suoi unici colpi sui piatti all’indietro, un Bruce Lee della batteria. Al giorno d’oggi mi piacerebbe di più conoscere di persona lui. Anche se ora le vedo banali, apprezzo ancora le scenografie e i balletti di quel video, con Madonna che li eseguiva cantando davvero, cercando di inseguire ogni passo e ogni nota, senza sbagliare.

    Il momento più vero per me fu su un cambio di tonalità: durante la canzone True Blue, si percepisce la sua ansia nell’eseguire quella che era la nota più difficile di tutto il concerto, così come il suo sollievo quando riesce ed alza gli occhi al cielo. A me entusiasmano quei momenti. Adesso è arrivato l’autotune che ha sfalsato molta musica dal vivo, al posto degli accendini ci sono le luci dei cellulari e lo sguardo al cantante è filtrato dall’obiettivo di una camera per scattare una foto da postare. Evoluzione tecnologica.

    Insomma, Sergio portò qualche innovazione, ma purtroppo non andava molto d’accordo con mia madre.

    Iniziarono delle discussioni abbastanza animate, talvolta spariva per dei periodi, un paio di volte arrivò la polizia.

    Dentro di me speravo che quelle liti smettessero e che lui non tornasse, invece, pochi anni dopo, nel ’89, mi madre mi prese in disparte e mi disse che era di nuovo incinta. Era un paradosso, mi chiedevo come potesse concepire un altro figlio sapendo che Sergio non sarebbe stato un padre presente.

    Inoltre, lui aveva altri già due figli, più grandi di me: Michela e Alessandro. Entrambi i miei genitori avevano buoni rapporti con l’ex moglie di Sergio, infatti conobbi Michela proprio andando con mio padre a trovare sua madre. Passavamo lì dei lunghi pomeriggi, forse anche in quelle occasioni mio padre investigava su cosa stesse succedendo.

    Era il 1990, e andammo a Sarzana per la nostra prima e unica vacanza in bungalow. Io e Michela nel letto a castello, nel letto matrimoniale mia madre, Sergio e Lorenzo, che allora aveva otto mesi, e in un altro lettino Valentina.

    Una sera partì una delle solite discussioni, così io me ne andai a pescare perché non volevo sentirli urlare. Presi la mia piccola canna da pesca, quella che mi aveva prestato mio nonno, che morì poi proprio quell’anno, e andai sul fiume Magra. Dopo un po’ arrivò Michela, cercando di smorzare la situazione.

    Le spiegai che quelle scene le vedevo spesso, almeno lì potevo andarmene, in casa invece dovevo subirmele. Iniziammo così a scambiarci racconti e a confidarci, qualcosa ci univa.

    Una volta venni svegliato in piena notte e mia madre mi disse che dovevamo uscire a comprare le sigarette. Mi vestii in fretta, Sergio dormiva. Non riuscivo a capire, c’erano state le solite discussioni, ma niente fuori dall’ordinario. Salimmo in macchina e, come lei accese il motore, vidi lui che usciva dal portone, vestito solo con le mutande e una camicia aperta. Iniziò a rincorrere la macchina, io ero seduto dietro e lui, nella sua goffa corsa, riuscì ad arrivare alla mia porta, aprendola, ma mamma accelerò e lui rotolò a terra.

    Quella notte andammo a dormire da una sua amica, pure lei separata e con un figlio di dodici anni.

    Mentre loro parlavano in cucina io fui messo a dormire nella cameretta.

    Guardai i suoi giochi, pensai alla vita con mia madre, alle discussioni con Sergio, a quell’assurda notte, e pensai di voler crescere in fretta per fuggire da tutte quelle situazioni.

    Una sera, dopo averlo visto fare in un film, presi due valigie e iniziai a metterci dentro i miei vestiti; quando arrivò mia madre le dissi che stavo andando a vivere da papà, ma lei in qualche modo mi convinse a restare.

    Nel 1990 nacque Lorenzo, traslocammo in un altro appartamento.

    Le cose non migliorarono molto, durante l’estate del ‘92 Sergio fu sbattuto fuori a colpi di scopa, con tanto di lancio dei vestiti dal balcone, cose da film. Da allora non tornò mai più con noi.

    A ogni modo, Sergio con me si comportò sempre bene, continuai ad andare a trovare Michela, che intanto era andata a vivere con lui, e che negli anni a venire diventò come una sorella per me.

    Sergio non è proprio quel che si dice un padre di famiglia, ma non è nemmeno una persona cattiva, semplicemente la sua filosofia è sempre stata quella di fregarsene di tutto e tutti.

    Filosofia che sto rivalutando molto in questo periodo, perché spesso non lo si fa per egoismo, ma per amor proprio. Certo, bisogna avere un equilibrio, ma il non preoccuparsi troppo di come vanno le cose, o provare a ignorarle, vivere sempre spensierati, senza serbare troppi rancori, credo faccia acquistare serenità e, quindi, salute.

    Apertura

    Durante quegli anni Zucchero e Lucio Dalla diedero due concerti allo stadio di Alessandria. Mio padre mi portò e fui esaltato da tutto: le luci, la musica, l’intrattenimento.

    Ripresi in mano i lego e iniziai a costruire palchi, montandoci sopra le luci dell’albero di Natale. Quando, alla sera, venivano i parenti, organizzavo una sorta di show con una canzone, accendendo e spegnendo le luci. Ci voleva molta immaginazione, ma sognavo di organizzare un palco e un vero show.

    Poi mi arrivò in regalo il primo audio-registratore con audiocassetta e microfono incorporato, insieme a un set di magia che rivoluzionò il tutto. Nelle serate dei week-end provavo a organizzare dei piccoli spettacoli in camera, spostando i mobili, cercando di mettere le luci giuste, la musica di presentazione, quella finale.

    Mi divertivo un sacco, e quando mia sorella fu più grande iniziai a usarla come valletta, anche se si vergognava; ciononostante organizzai uno show di ballo con lei e Lorenzo, ma si vergognavano entrambi e non venne fuori nulla di buono.

    Lasciai perdere, crebbi e mi buttai a giocare a poker con i parenti. Eppure quel senso dello spettacolo mi rimase, mi piaceva l’idea di dare alle persone emozioni e ricordi da portare via.

    Nel 1989 mio padre fece una pazzia: mi diede la mappa dell’Europa e mi disse di puntare il dito in un luogo in cui sarei voluto andare. Scelsi il posto più lontano: Amsterdam. Partimmo con la Fiat Croma e la roulotte. Passammo la Svizzera, il lago di Losanna, Metz, Nancy, Bruxelles e approdammo nella landa dei mulini e delle dighe.

    Adriana era contraria, diceva che non era il posto per me e che era un viaggio da irresponsabili. Mio padre non parlava neppure inglese, ma riuscimmo comunque a fare tutto.

    Ad Amsterdam finimmo in un campeggio di motociclisti. Quando si arrivava nei campeggi io avevo i miei compiti: tirare giù i piedini negli angoli della roulotte, mettere lo scalino, accendere le luci.

    Lui sganciava la nostra casa a quattro ruote, parcheggiava la macchina e accendeva il gas.

    Una volta, andammo a fare la doccia nel bagno comune del campeggio, arrivò un motociclista tutto vestito in pelle nera con lo zaino, entrò nella doccia e se ne uscì tutto nudo con i vestiti sottobraccio. Rimanemmo entrambi scioccati. Lo stesso tizio la mattina dopo se ne andò e dai lati della sua Harley penzolava un pentolino che toccava a terra quando faceva le curve.

    Questo, per me, fu il primo viaggio al di fuori dell’Italia; mi diede una grande spinta l’accorgermi che esistevano altri mondi al di fuori del mio, fu come un risveglio. Uscire dalla confort zone cercando di farsi capire in un’altra lingua fu una bella sfida.

    Durante le estati, per un mese frequentavo i centri estivi: si tenevano dentro scuole chiuse con altri ragazzi e un paio di animatori.

    Nel ’89-‘90 andai in un centro vicino a Valenza; si svolgevano le solite attività degli anni passati, ma in più c’era la possibilità di andare a cavallo. Io avevo avuto la fortuna di farlo tempo prima, perché Renato aveva un bellissimo cavallo argentino, di colore baio scuro, chiamato Sisco. Quando andavo a trovarli passavo diverso tempo ad accarezzarlo nella stalla.

    Renato mi aveva insegnato ad andare al trotto, a battere la sella e le basi per cavalcare, in uno spazio recintato dietro la casa.

    Un paio di volte uscimmo e andai anche al galoppo.

    Nel 1991 fu l’ultimo anno di quelle esperienze, ricordo che, come animatrice, c’era una ragazza che si chiamava Venusia.

    Era una bella

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