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Una balena bianca non volerà mai
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Una balena bianca non volerà mai
E-book167 pagine2 ore

Una balena bianca non volerà mai

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Info su questo ebook

Quando possiamo considerarci veramente perdenti? Quando sbagliamo qualcosa oppure quando non tentiamo nemmeno?
È il quesito a cui cerca risposta il protagonista, un trentenne che trascorre il proprio tempo a bere birra barcamenandosi tra lavori improvvisati, passeggiate nei boschi con Marta, sua amica da sempre, e con Stefano e Marco, dispersi nel mondo come lui. In un vortice di flashback ed eventi, talvolta al limite del grottesco, proverà a scrollarsi di dosso un’apatia che pare tenerlo disperatamente ancorato a una città (Perugia) che ama e odia allo stesso tempo. Sognando (forse) un futuro da sceneggiatore, intento a contaminare troppo spesso il cinema con la realtà, incappa in una ragazza e il suo skate, che gli daranno modo di pensare e ripensare a ciò che vuole davvero e ciò che forse non diventerà mai.
Romanzo accattivante, caratterizzato da uno stile di scrittura asciutto, che scorre come fosse una sceneggiatura nella mente del protagonista. Ogni parola, ogni spazio, ogni punto a capo, ha una sua valenza, un ritmo volutamente spezzato, volto a creare confusione, la confusione di un giovane che non riesce a dare una svolta alla propria vita.
LinguaItaliano
Data di uscita10 apr 2021
ISBN9788832928372
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    Anteprima del libro

    Una balena bianca non volerà mai - Lorenzo Barbetti

    occasioni

    Prima parte

    Sembrava la scena introduttiva di un film di Scorsese dove un montaggio serrato raccontava in brevissimo tempo la mia vita.

    La colonna sonora era la classica Gimme Shelter, dei Rolling Stones, e accompagnava il susseguirsi di immagini ed eventi.

    Il 1992 era l’anno della mia nascita. Tre chilogrammi e nove per quarantadue centimetri, ero un bel bambino forte e robusto secondo tutte le infermiere del reparto e proprio in quel periodo Di Pietro apriva l’indagine di Mani Pulite.

    Nel 1998 usciva nelle sale italiane l’acclamato Titanic. Fui trascinato al cinema insieme alle mie cugine più grandi che si erano innamorate di un giovanissimo Leonardo Di Caprio mentre io, poco dopo, andai a vedere la pessima versione cinematografica di Mortal Kombat.

    Da quell’anno decisi che da grande volevo essere Goro.

    Nel 2001 invece scoprii quanto potesse essere crudele l’essere umano. Ero in quinta elementare e la mia vicina di banco mi spezzò il cuore dicendomi di essere la fidanzata di Jonathan, il tipo di prima media con il codino ribelle. In più l’11 settembre abbatterono le Torri gemelle.

    Dal 2006 in poi gli eventi si accavallarono velocemente tra gli anni delle superiori, il fallimento della Lehman Brothers Inc., la patente e il primo incidente stradale, la Costa Concordia e i lavori a tempo determinato per mantenersi a un’università che avevo preso solo perché non avevo voglia di andare a lavorare finendo poi a continuare con i lavori a tempo determinato perché in fondo con qualcosa si deve pure campare.

    Il montaggio sembrava procedere spedito, veloce.

    La potente voce della Clayton che accompagnava tutta la band di Jagger stava arrivando al suo culmine, era la parte cruciale del pezzo, quando un forte e assordante rumore irruppe e tutto si fermò in un’unica inquadratura fino a svanire.

    Erano le sette di mattina e la sveglia gracchiava.

    Non ero ancora pronto ad alzarmi, il soffitto mi guardava e io guardavo lui in attesa di un’epifania. Mi sarebbe piaciuto tornare al mio sogno, sapere cosa ne sarebbe stato della mia vita, cosa avrei fatto in futuro e se sarebbero scoppiate altre catastrofi. Quando capii che tornare indietro mi era impossibile decisi che forse era meglio alzarmi dal letto anche perché quella mattina avevo un impegno preciso.

    Alle nove, infatti, mi aspettava a Perugia una dirigente dell’Ufficio Personale di una nota azienda che operava a livello nazionale nell’ambito di rivestimenti in ceramica. Un colloquio che mio padre era riuscito, dopo innumerevoli chiamate, a stabilire e che non potevo in alcun modo saltare. Nemmeno per scoprire cosa ne sarebbe stato del mio futuro.

    Così riscoprii la mia routine mattutina. Quattro biscotti integrali di marca tedesca prelevati dal discount di paese, due terzi di tazza riempito con latte marca Conad e un terzo di caffè tiepido rimasto nel thermos tutta la notte.

    Corsa al bagno per liberarsi di tutto, cattivi pensieri compresi. Una doccia veloce e rinfrescante per riattivarsi. Una pulizia dei denti con spazzolino e dentifricio al fluoro che promette sorrisi smaglianti.

    Una vestizione accurata ma che risulti piuttosto casuale nella sua sobrietà.

    Mi gettai velocemente fuori di casa.

    È un’azienda importante, mi raccomando! mi dicevano. Ricordati l’inglese, vogliono che tu sappia parlare bene in inglese. Mi dicevano.

    Ricordati che se ti prendono poi è fatta, provavo a dirmi io.

    Avevo con me una piccola valigetta, di quelle di plastica semirigide che si riempiono di fogli di lavoro, un pc portatile e cavi di dubbia utilità. La mia era vuota, se non per un paio di curriculum dove era stampata la mia faccia e dove le notizie sul mio conto erano state pompate. Bastava poco, si prende la dicitura magazziniere e la si cambia con addetto alla logistica e rilascio merci, si usa questo trucchetto con tutti i lavori e il gioco è fatto.

    Avevo anche delle cuffie per ascoltare la musica in autobus e un pacchetto di chewing-gum alla menta che galleggiavano all’interno della valigetta.

    La mia inutile valigetta vuota.

    Ma era anche vero che averne una mi rendeva una persona degna di fiducia, una persona responsabile e che sapeva il fatto suo. In fondo chi si fiderebbe di uno che si presenta a mani vuote?

    Andando a piedi mi accorsi che ero leggermente in ritardo, dovevo affrettare il passo se non volevo perdere il bus. Ma affrettare il passo significava surriscaldare il mio corpo. Surriscaldare il mio corpo significava sudare. Arrivare sudato significava probabilmente essere fuori.

    Ricordati di stare rilassato ma anche sull’attenti, loro vogliono vedere se sei sveglio! dicevano.

    La fermata era vicina, dovevo solo aggirare il parco e l’avrei trovata dalla parte opposta di dove mi trovavo ora. In lontananza vidi la Linea H che stava arrivando e che mi avrebbe portato a circa cinquecento metri dalla mia meta secondo Google Maps. Così decisi che un buon compromesso era quello di tagliare il parco attraversandolo.

    L’erba umida della mattina mi aveva bagnato i terribili calzini di spugna neri che portavo e che avevo ben nascosto sotto i pantaloni. Il passo svelto aumentava man mano che vedevo la scritta Linea H avvicinarsi alla fermata, ma ero tranquillo perché oramai ero sicuro di riuscire a fare in tempo.

    Ma ecco che sentii il mio piede slittare lievemente sopra una superficie morbida. Capii subito che il bisogno fisiologico di qualche cane portato a spasso da un padrone probabilmente affetto da sciatica andò a cozzare con la mia speranza di un futuro lavorativo stabile e le uniche parole che mi uscirono flebili ma ben distinte furono: No, merda!

    1

    Sfondo bianco

    Era tutto bianco.

    Tutto completamente bianco.

    Mi sembrava di essere immerso in un universo bianco e io al centro nuotavo.

    La mia sensazione principale era bianca, la mia persona.

    Avevo bisogno di esprimermi.

    Cosa c’è che non va?

    È che solitamente sono annoiato, credo.

    Credo che sia per il fatto che tutto mi sembra già visto.

    Tutto mi annoia.

    Mi annoia il mondo, Internet, lo sharing.

    Mi annoiano i programmi tv, le guide turistiche e le giornate estive troppo calde.

    Mi annoia il lavoro, mi annoiano le relazioni, mi annoia il fatto che tutto mi annoi.

    Mi annoia l’idea di dover passare tutta la vita a contare le cose che mi annoiano.

    Quando mi annoio spesso mi viene in mente mio zio.

    Anche quella volta, nel bianco, mi venne in mente lui.

    C’era una storia che mi raccontava sempre.

    Lui andava spesso a camminare tra i boschi, lo rilassava diceva, gli dava modo di vivere la vita nel modo giusto.

    È da lui che ho preso questa passione.

    Fin da bambino, quando ci veniva a trovare, mi portava con lui tra i boschi.

    Da solo non potevo andare perché all’epoca ero troppo piccolo per questo non vedevo l’ora che arrivasse per andare insieme a scoprire nuovi sentieri, imparare a trovare il muschio e scegliere quale fungo si può raccogliere e quale è meglio evitare.

    Era bello passare il tempo insieme a lui e più tempo passavamo insieme e più cose mi insegnava.

    Mi chiamava l’albero della mia giovinezza e scherzosamente si appoggiava sulle mie spalle.

    È un tipo in gamba mio zio, è da tanto che non lo vedo, forse lo dovrei risentire.

    Comunque mi ricordo che mi raccontava sempre questa storia: "Figliolo, un giorno, mentre camminavo nel bosco, mi sembra che fosse autunno, mmmh, sì era autunno, ho notato qualcosa a terra. Di sicuro non era un fungo, mi sembrava più una piccola scatola rettangolare di cartone, ma gettata lì, a lato del sentiero dentro a un fitto bosco era davvero strana. Così mi abbassai, perché la vista è quella che è, non ci vedo benissimo. Comunque mi abbassai e notai che la scatola aveva scritto sopra Proctogel. Beh, tutto questo figliolo è per dirti che è così che va un po’ la vita. Puoi vedere tutte le cose più belle del mondo, un bosco in autunno con il tramonto che filtra tra i rami, un paesaggio caldo e stupendo, il profumo della terra, ma quello che ti rimarrà in mente di quella passeggiata sarà solo una scatola di pomata per le emorroidi".

    Ed è così che fondamentalmente la vedo un po’ anche io, la vita.

    Tre, due, uno, via!

    Il flash mi fece socchiudere gli occhi.

    Ci misi un attimo a riprendermi mentre dei piccoli globi luccicanti si muovevano in tondo.

    Era tutto bianco.

    Vidi il fotografo intento ad avviare la stampante.

    Ma non mi fa vedere nemmeno come sono venuto? protestai sommessamente.

    Non me lo hai chiesto, disse lui senza distogliere lo sguardo dallo schermo del suo pc.

    Credo di aver chiuso gli occhi.

    Non li hai chiusi, ribatté velocemente lui.

    Così mi avvicinai per controllare come ero venuto sulla foto.

    Quando la stampante sputò fuori una serie di quattro fototessere 2x2 mi accorsi subito della smorfia che avevo fatto. Avevo gli occhi sbarrati e l’espressione tipica di chi cerca di tenerli sempre aperti ma chiaramente non ci riesce. Non era proprio come me l’aspettavo.

    Scusa ma non si potrebbe rifare? Non sono venuto molto bene, provai a dire.

    Sono altri cinque euro, rispose prontamente lui.

    Aveva degli occhiali rettangolari che incorniciavano una faccia rotonda, qualche spruzzo di barba e dei brufoli che spuntavano qua e là. Doveva avere la mia età al massimo e stava gustando quelle che probabilmente erano le sue rivincite, le sue piccole dosi di potere.

    Sicuramente da ragazzo era stato preso di mira dai ragazzi più grandi, dai bulletti delle scuole che si atteggiavano a piccoli gangster e ora si rifaceva sui poveri malcapitati come me che con il suo passato non c’entravano nulla.

    Ma non mi hai dato il tempo di controllare, cercai di puntualizzare, mi scese l’occhio e notai una pancia gonfia nascosta malamente da una polo color pesto.

    Eh ma ho già stampato, mi dovevi fermare prima, sai la carta...

    Lo guardai.

    Lui mi guardò, abbassò lo sguardo.

    Guarda, se vuoi che le rifaccio sono altri cinque euro.

    Presi le fototessere pagando i soldi che dovevo e me ne andai.

    Era tutta colpa di Marta.

    Marta era una mia vecchia amica, una di quelle con cui cresci insieme, parli di un problema e spesso sa darti la risposta. Marta e i suoi capelli neri, Marta e le sue dita affusolate.

    C’eravamo conosciuti alle elementari.

    A me piaceva la sua migliore amica e il miglior modo di avvicinarla era quello di riempirla di scherzi e farmi beffa di lei. Non sono mai stato bravo in queste cose tanto che il risultato spesso è che lei, com’era giusto, scappava quando mi vedeva.

    Marta era sempre stata sveglia, un passo avanti a me e chiunque altro, capì subito che dietro tutti quegli scherzi c’era qualcosa.

    Un giorno si avvicinò e mi confidò che lei aveva parlato bene di me, ma che se volevo che fosse la mia fidanzata dovevo smetterla con quegli stupidi scherzi. La ringraziai della dritta e quando rividi la ragazzina per cui avevo la cotta fui diretto e le chiesi se la potevo accompagnare a prendere un gelato.

    Lei accettò e io ero al settimo cielo. Ma finì presto perché mi disse che lei non aveva mai visto Mortal Kombat e che queste cose non le avrebbe mai viste perché non le piacevano.

    Invece rimasi amico di Marta. La nostra amicizia continuò alle

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