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L’avvocato Sanpapiers
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E-book151 pagine1 ora

L’avvocato Sanpapiers

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Info su questo ebook

Si narra una strana storia giudiziaria.
Aleggia, tra le aule di giustizia come una vera leggenda metropolitana.
Il protagonista del racconto guarda al gioco imperfetto della vita e ne sa sorridere, cosciente che l’umorismo garantisce il risparmio nel mondo economico dei sentimenti.
È ciò che in natura si chiama istinto di sopravvivenza…
LinguaItaliano
Data di uscita14 mag 2021
ISBN9791220803847
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    Anteprima del libro

    L’avvocato Sanpapiers - Ennio Tinaglia

    29

    Prefazione

    Il buon avvocato conosce il Diritto.

    L ’ottimo avvocato conosce la Giurisprudenza dei suoi giudici. L’eccellente avvocato, conoscendo entrambi,

    è attento alla dimensione umana che il Diritto protegge...

    (Dante Senzacarte, ovvero del rovescio del Diritto)

    Si narra una strana storia giudiziaria.

    Aleggia, tra le aule di giustizia come una vera leggenda metropolitana. Ve la racconto.

    Un avvocato sostiene, con forza ed intelligenza, le ragioni del suo assistito in un difficile processo per omicidio. Il difensore è bravo. Infilza le sue argomentazioni co me spade che presto arrivano a penetrare e fare poltiglia dei pensieri di colpevolezza nei giurati.

    Quel legale ha fatto così bene il suo lavoro che il vecchio presidente dell’Assise, leggendo il dispositivo assolutorio, non riesce a tradire una lacrima di autentico coinvolgimento.

    Giustizia è fatta. Vibrano nell’aria gli applausi convinti dei molti spettatori del processo.

    Ma l’avvocato è probo oltremisura. Con aria pensosa si avvicina al suo cliente e, scrutandolo negli occhi, gli dice:

    Ha visto? Lei è assolto. Con formula piena. Sarà soddisfatto... Ma, mi comprenda... io conosco gli atti e dentro di me coltivo ancora un piccolo dubbio. Ho bisogno di sapere dalla sua stessa voce. Mi dica la verità. Lei è colpevole o è innocente?.

    Si racconta che quell’uomo sia stato a lungo a meditare la risposta e, poi, con gli occhi rivolti ad un punto lontano e indistinto di quell’aula avesse detto:

    Guardi, avvocato, la verità è questa. Prima che lei parlasse ero certo, ragionevolmente certo oltre ogni misura, di essere colpevole....

    A questa strana leggenda giudiziaria ho pensato allorché ho chiuso l’ultima pagina del libro meditando il singolare destino di quelli che cercano la Giustizia.

    Quegli uomini rischiano di vivere la loro esistenza in un perenne stato di disadattamento sociale, inseguendo una impossibile ed inumana chimera.

    Il protagonista di questo racconto, Dante De Bellis, è come loro.

    Fallito, ma non definitivamente vinto, egli cerca una motivazione psicologica che riporti la bilancia del Diritto e quella dell’anima in un equilibrio naturale. Ma l’equilibrio che governa armonicamente l’universo è disconosciuto dalla Giustizia.

    La ragione è nella stessa dimensione di caduca imperfezione e fallibilità delle cose umane.

    La Giustizia, in sé, non esiste.

    Vi si può avere fede, come in Dio. Ma con lo stesso scetticismo di chi, di questa divinità, ha più spesso percepito l’assenza in luogo della presenza.

    Cosa resta, allora, al nostro eroe naufrago e senza più identità?

    Gli resta la possibilità di adeguarsi alle follie del mondo e consegnarsi ad esse con la forza della propria umanità.

    D’altronde è facile argomentare con una bella metafora sportiva che si dice essere stata pronunciata dal grande campione del tennis Boris Becker:

    Se non puoi applicare il Diritto, ti resta pur sempre il rovescio....

    Il protagonista del racconto guarda al gioco imperfetto della vita e ne sa sorridere, cosciente che l’umorismo garantisce il risparmio nel mondo economico dei sentimenti. È ciò che in natura si chiama istinto di sopravvivenza...

    Lorenzo Matassa

    1

    La giornata era cominciata male.

    Niente di particolarmente grave, solo piccoli inconvenienti, che però si erano inanellati uno dietro l’altro alterando, con la loro scomoda presenza, l’ordinaria routine casalinga.

    Il caffè, tanto per cominciare, quella mattina non voleva proprio saperne di uscire dalla caffettiera per sancire il buongiorno. Poco male, lo prenderò al bar, si era detto, girando la manopola del gas e scongiurando un principio di incendio.

    Sotto la doccia poi, mentre provava a consolarsi con il getto rivitalizzante dell’acqua, aveva scoperto che i quattro flaconi di bagnoschiuma che facevano bella mostra di sé elegantemente allineati sul ripiano interno del box doccia, erano tutti impietosamente vuoti.

    Nell’angolino però, un po’ nascosto, era rimasto un piccolo pezzetto di sapone, sottile come un’ostia e robusto come uno stuzzicadenti. Era riuscito ad agguantarlo e a riporlo nell’incavo della mano, coccolandolo come fosse un uccellino appena sbucato da un uovo. Ma quando aveva iniziato a sfregarlo per ricavarne un po’ schiuma, almeno il minimo sindacale necessario perché una doccia fosse degna di questo nome, quello era scivolato via, trasformandosi in una piccola reliquia bianca sul bianco piatto della doccia. Non c’era niente da fare: non era neppure il caso di provare a recuperarlo.

    Uscito dalla doccia, poi, aveva avuto un corpo a corpo col tubetto del dentifricio che, tristemente accartocciato su se stesso, era spirato senza che nessuno si fosse curato di segnalarne il decesso.

    Piccoli inconvenienti, certo, ma la loro serialità gli procurava un malumore incredibile: una sorta di pessimismo cosmico prodotto dalla sgradevole sensazione di essere al centro di una congiura astrale.

    Sono solo stronzate, non farti suggestionare.

    Quanto alla scelta dell’abbigliamento, decise che non era proprio il caso di essere audace. Andrò sul sicuro: jeans, camicia azzurra e giacca blu, e, per prudenza, niente cravatta.

    La questione nodo poteva diventare impegnativa, e quella mattina Dante non aveva nessuna voglia di rischiare.

    2

    Leggere il giornale era un rito quotidiano al quale difficilmente rinunciava, perché gli consentiva piroet te mentali e gli forniva l’occasione di intrecciare con se stesso fitti dialoghi in cui inneggiava al cinismo e esorcizzava l’indicibile in una sorta di effetto catartico. Era solito acquistare due quotidiani e dirigersi verso il Palazzo di Giustizia al mattino presto, così da avere il tempo di sedersi al bar della piazza. Ordinava il caffè e iniziava la sua lettura in religioso silenzio, aspirando con voluttà la prima sigaretta della giornata.

    Aprire il giornale, sentire il fruscio intrigante della carta e respirare a pieni polmoni l’odore di petrolio che ne sprigionava, tuffandosi con avida curiosità nella lettura degli articoli, gli procuravano un piacere intenso, quasi fisico.

    Anche quel giorno la solita strage di morti sulle strade. Ormai, da quasi una settimana, ogni giorno era la stessa notizia: pedoni arrotati, centauri travolti, ciclisti spazzati, automobili distrutte. Poi, puntuali come cartelle esattoriali e incredibilmente dettagliati, arrivavano i resoconti dei relativi funerali: familiari, amici, conoscenti… tutti pronti a tessere le lodi delle vittime, e a celebrarne le virtù. Studenti modello, integerrimi padri di famiglia, madri esemplari...

    È mai possibile che non venga mai arrotato nessun figlio di puttana? Eppure la città ne è piena.

    Cercava affannosamente nel testo qualche dichiarazione che suonasse come Era ora che quello stronzo sparisse dalla circolazione, ma, pur non perdendone mai del tutto la speranza, sapeva bene che non avrebbe trovato nulla del genere. Negli anni aveva imparato che quella prassi faceva parte del gioco delle parti e del teatro della vita: i vivi parlavano bene dei morti, sempre e comunque, e così sia.

    3

    L’udienza era durata solo pochi minuti, giusto il tempo di un rinvio.

    Nessuna sorpresa per lui: sapeva già che l’avvocato che difendeva uno degli imputati aveva depositato una richiesta di rinvio per legittimo impedimento. Si era così organizzato per tempo e aveva fissato un appuntamento in studio, quella stessa mattina, alle undici in punto.

    Arrivò con un quarto d’ora di anticipo, come sempre. Varcato l’androne, salutò il portiere e si diresse verso l’ascensore che si trovava all’ultimo piano. Dal display poteva osservarne la lenta discesa: dodici, undici, dieci…

    Dante aveva un rapporto piuttosto singolare con l’ascensore: innumerevoli volte gli era capitato, nel preciso istante in cui stava per girare la manopola per aprirlo, che venisse improvvisamente chiamato da qualcun altro. Sembrava fatto di proposito: era come se un essere animato e beffardo fosse sempre lì pronto a prendersi gioco di lui. Alla fine aveva smesso di imprecare, si era rassegnato, e aveva deciso di stare al gio co: lo aveva umanizzato. Anche quando l’ascensore era al piano non si affrettava più ad afferrare la manopola... Anzi, lungo il corridoio dell’androne rallentava l’andatura e, quando la manopola era a portata di mano, volutamente indugiava più del dovuto. Cercava le chiavi in tasca, controllava il cellulare, come per dirgli: Allontanati, non sono assolutamente interessato a te. Che ti chiamino pure, vorrà dire che aspetterò . Fingeva di passeggiare lungo il pianerottolo ostentando indifferenza, mentre l’ascensore continuava a stare immobile, lì al piano, come a sfidarlo apertamente con la sua aria di sufficienza. Poi, con un balzo felino, Dante afferrava la manopola e, trionfante, entrava nell’abitacolo dicendo a denti stretti: Credevi di fottermi, vero? Stavolta ho vinto io!

    Ovviamente, in frangenti come questi, badava sempre di essere al riparo da occhi indiscreti. Del resto, se gli capitava di trovarsi in compagnia di un qualunque coinquilino, lasciava sempre che fosse lui ad aprire l’ascensore. In caso di una chiamata improvvisa, almeno, poteva consolarsi dicendosi che la vittima non era lui, ma quell’altro malcapitato.

    Dante si rendeva perfettamente conto di quanto stupido fosse questo suo comportamento, ma se ne assolveva dicendosi che quel gioco innocuo, fosse anche una piccola forma di nevrosi, serviva a divertirlo e a esorcizzare quella che, in certi momenti, gli sembrava la congiura di un destino infame che si ostinava ad accanirsi contro di lui.

    Mentre aspettava che arrivasse l’ascensore, vide avvicinarsi gli inquilini del quinto piano, i sigg. Anzalone. Una coppia di madre e figlio. Si avvicinavano arrancando lentamente lungo il corridoio. Lei era vedova, lui non si era mai sposato e non aveva mai lasciato la casa paterna. Da quando era morto il padre, era diventato una sorta di badante per la madre. Erano invecchiati insieme e ormai sembravano una coppia di vecchi coniugi, o fratello e sorella. Ma, davvero, non era più possibile identificarli come madre e figlio.

    Qualche giorno prima, in tribunale, aveva vissuto una scena analoga, assistendo a un processo in cui si erano alternate, sul banco dei testimoni, prima la moglie e poi la figlia dell’imputato: quarantasette anni la madre, una gran bella donna, ventidue la figlia, anche lei niente male.

    Si somigliavano come due gocce d’acqua: a guardarle non sembravano affatto madre e figlia, ma sorelle. Eppure c’erano ben venticinque anni di differenza. Lì per lì, Dante si era limitato ad apprezzare le fattezze di entrambe, ma ora quella scena, così simile a quella che stava vivendo adesso, gli era tornata prepotentemente davanti agli occhi, rinvigorendo quella vena di innato cinismo che si

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