Alone. Racconti: a cura di Paolo Alberti
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Info su questo ebook
Impalpabile ma indelebile, come un alone appunto, impressa da tempo nella mente di Paolo Alberti, autore e curatore della raccolta.
Un’antologia di racconti, che quasi didascalicamente ne riflettono il titolo e il filo conduttore, trasversale e poliedrica nei generi, dal noir alla fantascienza, dal comico al drammatico.
Le storie di Alone infatti hanno come protagonisti la solitudine e l’invisibilità, osservate o vissute da ogni punto di vista, in un mondo in cui invece l’aspetto social sembra essere l’unica chiave per esistere e affermare la propria identità.
Ed è forse l’unica antologia il cui titolo è perfettamente calzante e traducibile in italiano, quanto in inglese. Alone, come un respiro che si rapprende su un vetro gelido d’inverno, come una macchia che proprio non se ne vuole andare. Ma anche Alone, all’anglosassone, ovvero Solo, Solitario, o ripiegato su se stesso.
Uno stretto manipolo di scrittori, già pubblicati, si è cimentato nella sfida di declinare in modo molto personale e variegato l’immagine evocativa di Alone, riuscendo nell’impresa di rendere meno invisibile l’invisibilità e meno sola la solitudine.
Racconti di:
Paolo Alberti, Gianluca Morozzi, Stefano Mellini, Leonardo Vicari, Piero Mariella
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Anteprima del libro
Alone. Racconti - AA.VV.
ALONE
RACCONTI
A cura di Paolo Alberti
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati.
commerciale@giraldieditore.it
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ISBN 978-88-6155-808-3
Proprietà letteraria riservata
© Giraldi Editore, 2019
Edizione digitale realizzata da Fotoincisa BiCo
Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti è puramente casuale o utilizzato dall’autore ai fini della creazione narrativa.
A mia madre
E se solo ti penso
Solo rimango
E piango
ALONE
Paolo Alberti
Io sono invisibile.
Ma non come un supereroe che può diventare invisibile.
Io sono trasparente, proprio. Per gli altri, dico.
O forse sono fin troppo appariscente, proietto un’immagine sicura, disinvolta, sono quello che, figurati, che problemi potrà avere mai?, uno così. Bel lavoro, due soldi in banca, una manciata di romanzi pubblicati, una casa, qualche sguardo femminile che si ferma volentieri sul mio. Sembro sempre sereno, quasi distante dalle ansie quotidiane che distorcono i lineamenti altrui, mentre sulla mia faccia è facile trovare una ruga di compiacimento, un sorriso sornione, uno sbadiglio, o anche niente. Mica la tengo per moda, la barba, o per sfoggio di canuta virilità. È una maschera utile, dissimula, nasconde e distrae. Avete mai visto un film in cui uno con la barba piange?
Sono l’amico per l’amico che è stato piantato e ha bisogno di sfogarsi.
Sono il figlio che tanto in un modo o nell’altro ce la fa.
Sono la persona a cui chiedere un favore, poi a restituirlo ci pensiamo.
Sono il collega che non fa una piega, se gli tocca fare due ore in più tutti i giorni e non si tira indietro se un altro non fa il suo, o un pagamento tarda ad arrivare.
Sono quello a cui chiedere ospitalità al bisogno, che prima o poi una soluzione la troveremo, mica muore di fame, lui.
E vigliacco se mai nessuno mi chiede E tu, hai bisogno?
Sono un alone impercettibile che si rapprende sul vetro freddo di una finestra in inverno. L’orma di un respiro, ma la finestra è grande, l’alone non disturba, il panorama non cambia. E nessuno, cazzo, si chiede mai di chi sia quel respiro opaco che evapora via.
Sono scontato. Letteralmente.
Scontato perché è così, e basta, scontato perché costo poco, sono sempre in saldo.
Agli altri basta questo, e questo vedono, vedono attraverso me, non dentro. Sono trasparente, appunto. Io appaio, non esisto. Tutto qui.
Colpa mia, forse. O di nessuno, probabile.
Sono fatto così, tendo a non mostrarmi del tutto, a nascondere insicurezze e paure, a cavarmela da me e senza sfoghi, poi è normale che chi mi sta intorno si sia abituato all’alone, a quello che, figurati, che problemi potrà avere mai?, uno così.
Fatto sta che poi capitano serate chiazzate di nero, come questa, serate in cui il compiacimento della solitudine, la sicurezza disinvolta, la serenità mascherata e tutto il resto crollano. E mi trovo a fare due conti con me stesso, bilanci sghembi di un’esistenza a due velocità. ON-OFF, la mia vita non ha modalità intermedie, acceso in pubblico, spento quando me ne sto come adesso, spiaggiato su un divano la domenica sera, il pc in grembo, mentre il pollice che vaga schizofrenico sui tasti del telecomando senza intercettare nulla per cui valga la pena distrarsi. Nulla che mi distolga da quei bilanci.
Ho quasi cinquant’anni, mi trovo a pensare. È quell’età, quell’età di merda, diciamocelo, in cui non puoi ancora sbattertene e tirare a finire il giro di pista come ti pare, infischiandotene di tutto e di tutti, facendo marameo. Quell’età di merda in cui non sei più un ragazzo, con tutto il margine per sperimentare, sbagliare, fare, disfare, rifare daccapo. E rimandare.
L’età schiacciata. Sotto, i ricordi, i rimpianti, i ritardi, i rimorsi. Sopra, sempre meno tempo. E in mezzo, ci sei tu, con gli impegni, le scadenze, le rate e sta gatta che mi fissa muta, come se il divano che mi è costato una fortuna fosse suo e io un ingombro usurpatore al suo pisolino.
Non ho figli, mi è mancato il coraggio, siamo sinceri. Non ho debiti, che io sappia, e sarebbe una bella cosa, ma sulla scrivania dietro di me c’è una pila di carte del commercialista, multe verde bile e posta ancora da aprire, che mica ci giurerei. Non ho malattie, credo, e anche in questo caso sono uno struzzo sano solo perché non faccio un esame da anni, e allora tengo la testa piantata nel terreno.
Ma soprattutto, non ho tempo. Mai.
ON-OFF, come al solito.
ON: ho riempito le mie giornate fino all’orlo, con una professione che significa responsabilità, orari da minatore di fine Ottocento e chilometraggi da carovaniere, con la passione per la scrittura, con l’affetto per chi mi sta accanto a costo di azzerare i miei bisogni, o banalmente chiedere una mano. OFF: lei dorme accanto a me, rannicchiata sul divano e azzerata dalla mia assenza. È tutta sera che digito freneticamente per concludere una relazione che mi servirà domani, forse non le ho nemmeno rivolto una parola. E come sempre, nemmeno una giustificazione.
Dovrei imparare a farlo.
Non a giustificarmi, dopo, dico. A pretendere e rivendicare. A spiegare. Sarebbe tutto più semplice, e probabilmente non dovrei poi farmi carico dei suoi comprensibili malumori, se non la cago.
Ma come dicevo, è un’età di merda e di mezzo, la mia. Non ho tempo per imparare, solo per correre più forte e accumulare comunque ritardo.
Sono un buono a nulla, ecco qua. Un buono a nulla, è l’esito del bilancio sto facendo.
In fin dei conti è anche doveroso ammetterselo, ogni tanto. Tanta fatica, per cosa? Tanta ostentata efficienza, per cosa? Per non avere il coraggio di imporsi in ufficio o di fare un figlio? Per dover distogliere lo sguardo dalla scrivania con le scadenze accumulate come un blob extraterrestre per non annegarci dentro? Per avere di fianco a me qualcuno che dorme stizzito credendomi distante e apatico?
La gatta si stira, sbadiglia. Poi torna sull’attenti e riprende a fissarmi come se condividesse pienamente la conclusione a cui sono arrivato.
Sono un buono a nulla, come il personaggio di quel racconto mai pubblicato di Lansdale, che ho scovato in rete qualche giorno fa e ho pensato fosse perfetto. In generale e per me. Lo avrei voluto scrivere io, quel racconto. Il marito frustrato che uccide la moglie, la fa a pezzi, ma mentre cerca di sbarazzarsi dei resti della consorte petulante si incarta in una serie interminabile e grottesca di inconvenienti, che lo obbligano a fare una vera strage di innocenti testimoni prima di morire affogato a sua volta quando cerca di gettare l’auto e tutti i cadaveri in mare.
Ansioso e divertente, come il me stesso che ho creato.
Finisco la relazione, e domani vada come vada. Lei continua a dormire, le copro i piedi con il plaid che mi si era incastrato sotto a una coscia, lei ha sempre freddo, ai piedi. Sul tavolino, di fianco a me, ci sono un posacenere, le sigarette, una bottiglia d’acqua e una scatola di Prazene da 10 mg.
Chiudo il pc, continuo con lo zapping sterile, ho bisogno di qualche minuto di nulla, sono in quel bosco spinoso in cui i rami secchi del sonno e dell’agitazione si intrecciano impedendoti di riposare, inutile passare al letto, adesso. E so che non posso resistere. La linguetta semiaperta della scatola sembra il sorriso di una sirena, mi chiama e mi seduce. La capsula di Prazene è piccola e bianca. Blandissimo ansiolitico, ha detto il medico, aiuta giusto un po’ a dormire meglio.
Be’, col cazzo. Ho letto il bugiardino, lo so che non si deve mai fare, ma sembrano le istruzioni per un suicidio perfetto. Comunque, col Prazene di solito mi passa tutto. E in effetti dormo come un bambino, spariscono le ansie, le autocommiserazioni, i bilanci, l’alone e l’età di merda, quindi viva il Prazene, anche stasera.
Chiudo gli occhi, in attesa di svenire, in pratica.
E ci riesco.
Solo che sogno. Sogno parecchio, specie in certe serate come questa, chiazzate di nero.
Talvolta i miei sogni sono incubi senza sceneggiatura, incongruenti squarci di paura. Altre volte sono semplicemente sogni. Illogici, ma molto legati alla realtà, ai ricordi recenti o del subconscio profondo, o ancora allo stato d’animo con cui ho abbandonato lo stato di veglia.
Come stasera.
Buono a nulla.
Nel mio sogno infatti sono a casa di mio padre, e litigo con mio padre. Ferocemente. Non so perché, ma ci sputiamo uno in faccia all’altro ogni recriminazione.
Sei un buono a nulla,
mi dice lui alla fine. Hai fatto carriera, certo, e che carriera… poi, eccoti qui, come al solito, quando hai una grana da risolvere, una raccomandata non ritirata… cosa sono? Il tuo segretario, io? Buono a nulla!
Lo so che sto sognando, ma resto lì, dentro all’incubo. Gli tiro uno strattone per levarmelo dal percorso che mi separa dalla porta, poi corro, scappo quasi tuffandomi giù per le scale.
Vaffanculo, vaffanculooooo!
urlo.
All’improvviso, non sono più sotto casa di mio padre, mi trovo nell’atrio di un palazzo in cui ho un piccolo appartamento affittato a un amico.
Be’, che c’è?
sento alle mie spalle.
Balbetto qualcosa di incomprensibile.
Il mio amico si scrolla l’acqua di dosso, fuori sta piovendo come non è mai piovuto nella storia della Terra.
Ancora qui? Cosa sei, un esattore? Ti chiami Equitalia, coglione? Io adesso non li ho i tuoi soldi di merda, come devo dirtelo, non li ho. Ti credevo un amico…
Ma lo sono… è che…
È che sei un buono a nulla, sei. Uno che prima ti aiuta, poi sembra un avvoltoio, sempre qua a batter cassa… un buono a nulla, ecco cosa sei!
Un attimo dopo, come per magia, sono fuori, sotto la pioggia, che stranamente non mi bagna né mi infreddolisce.
Vaffanculo, vaffanculooooo!
grido di nuovo.
Vedo i piedi del mio amico sparire mentre risale verso l’appartamento. Ma il palazzo non è più lo stesso, ora è un caseggiato più lungo e basso, simile a quello in cui lavoro.
Un’auto suona il clacson, facendomi sobbalzare e compiere una mezza piroetta all’indietro.
Il mio superiore diretto sfanala due volte, poi abbassa il finestrino e mi fa cenno di avvicinarmi.
Queste sono due bollette da pagare, io non ho avuto tempo,
dice passandomi due buste ancora chiuse, e poi c’è quel problema da risolvere domani, con quel fornitore, io ho famiglia, mica posso fare tardi…
Eh, ma…
Niente ma, so che ce la puoi fare, sei bravo, tu ce la fai sempre,
conclude, poi dà un colpo di gas, pattina un paio di metri sull’asfalto bagnato e se ne va, urlandomi e ricordati la relazione, buono a nulla…
Osservo la sagoma nera della sua auto fino a quando sparisce, svoltando a sinistra, pietrificato da un misto di rabbia, angoscia e assurdo senso del dovere.
Vaffanculo
è l’unica cosa che riesco a mormorare, abbassando lo sguardo, sulle gocce che danzano per poi trasformarsi in bolle, dentro a una pozzanghera scura.
Ehi, ci siamo addormentati, è tardissimo
mi dice lei, scuotendomi leggera e facendomi uscire dal sogno.
La gatta si è arresa e adesso ronfa che è un piacere, raggomitolata a riccio, si è arrangiata su una poltrona.
Andiamo a letto, su, amore…
insiste lei.
La guardo ebete e cisposo, sulla lingua una patina di fumo, incubi e Prazene da 10 mg.
Mi sorride. Mi vede, cazzo, mi vede.
Per un attimo, solo un attimo, ho l’illusione che mi capisca.
Non sono più trasparente, forse, mi stia guardando dentro, forse.
Oltre l’alone.
LA SOLITUDINE DELLO SCRITTORE FANTASY
Gianluca Morozzi
Non per vantarmi, ma la strategia per andare a Campocannucciano di Sopra senza nessuna delle mie quattro, adorate fidanzate era stata studiata con assoluta perfezione.
La Fidanzata Punk, che abitava a sei chilometri da lì e avrebbe potuto agevolmente raggiungermi, be’, lei non usava Facebook, non aveva saputo dell’evento, e io, per puro caso, per un’imperdonabile dimenticanza, avevo scordato di dirle Sai che stasera presento un libro a sei chilometri da casa tua!
Alla Fidanzatina Vergine, quella che non riteneva utile per il buon andamento di una relazione applicare il verso della Canzone dei vecchi amanti che dice bisogna pur che il corpo esulti
– trombare, cioè –, avevo dipinto quella spedizione a Campocannucciano di Sopra come una complicata e remotissima avventura, una scomoda, disagevole toccata e fuga, scoraggiandola brillantemente.
La Fidanzata Fidanzata, ovvero, quella delle mie quattro fidanzate che aveva già un fidanzato, per cui io ero l’amante essendo lei, appunto, fidanzata – ci siete ancora? – quella sera