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Il rapimento
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E-book429 pagine5 ore

Il rapimento

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Info su questo ebook

Quando si rende conto che sua figlia di quattordici anni è stata rapita, Aziz, il dipendente di uno zoo di Algeri, pensa che siano stati gli islamisti radicali, gli stessi che hanno assassinato un giovane uomo di fronte a lei un paio di giorni prima.
Aziz maledice il suo paese, il suo odio fratricida, i suoi fanatici, il suo potere irrigidito dalla paura e dalla polizia incompetente, ma non può immaginare che il rapimento rappresenta la vendetta di qualcosa che risale a mezzo secolo prima. Aziz
potrà finalmente capire che non è lui il vero obiettivo, ma un membro della sua famiglia, un francese rimasto in Algeria dopo l’indipendenza, considerato un “disertore”. La figlia sarà trovata viva?
Il rapimento è una storia d'amore straziante e lo scuro affresco dell'Algeria
contemporanea con la sua violenza - i terroristi, lo stato e la società musulmana in generale - la struggente immagine in un tentativo di riscatto... Un thriller ansimante, ma anche un forte romanzo politico e psicologico.
LinguaItaliano
Data di uscita17 feb 2014
ISBN9788865641040
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    Anteprima del libro

    Il rapimento - Anouar Benmalek

    Note

    Il rapimento

    Anouar Benmalek

    IL RAPIMENTO

    Quando si rende conto che sua figlia di quattordici anni è stata rapita, Aziz, il dipendente di uno zoo di Algeri, pensa che siano stati gli islamisti radicali, gli stessi che hanno assassinato un giovane uomo di fronte a lei un paio di giorni prima. Aziz maledice il suo paese, il suo odio fratricida, i suoi fanatici, il suo potere irrigidito dalla paura e dalla polizia incompetente, ma non può immaginare che il rapimento rappresenta la vendetta di qualcosa che risale a mezzo secolo prima. Aziz potrà finalmente capire che non è lui il vero obiettivo, ma un membro della sua famiglia, un francese rimasto in Algeria dopo l’indipendenza, considerato un disertore. La figlia sarà trovata viva? 

    Il rapimento è una storia d'amore straziante e lo scuro affresco dell'Algeria contemporanea con la sua violenza - i terroristi, lo stato e la società musulmana in generale - la struggente immagine in un tentativo di riscatto... Un thriller ansimante, ma anche un forte romanzo politico e psicologico.

    Titolo originale

    Le rapt

    © Anouar Benmalek, 2009

    © Librairie Arthème Fayard, 2009

    www.atmospherelibri.it

    info@atmospherelibri.it

    traduzione dal francese di Daniele Petruccioli

    I edizione della collana Biblioteca del giallo, gennaio 2014

    ISBN cartaceo: 9788865640883

    La traduzione delle citazioni dal Corano sono di Hamza Roberto Piccardo, in Il Corano, a cura di Hamza Roberto Piccardo, revisione e controllo dottrinale dell’Unione delle comunità ed organizzazioni islamiche in Italia, Newton Compton, Roma 2002 [pubblicato su licenza di Edizioni Al Hikma, Imperia 1994]

    Questo romanzo è ispirato a una Storia vera

    Non condanno nessuno, non assolvo nessuno.

    Čechov

    Perché le cose sono andate così e non altrimenti? Perché sono andate così.

    Tolstoj

    Parte prima

    «Fa troppo bello, per essere inverno. Dio sa tenere i conti, non combina mai niente senza motivo: se continua così, sai che accidenti di siccità l’estate prossima. Schifezza di un cambiamento climatico!» ha sibilato con la sua faccia pallida.

    Sono scoppiato a ridere, davanti a quella chiusa inaspettata e all’espressione incupita del direttore provvisorio dello zoo.

    Ha borbottato qualcosa a mezza bocca, probabilmente qualche insulto sulle persone a cui gli attributi starebbero meglio appesi in fronte, anziché a penzolare in mezzo alle gambe senza costrutto. Era il suo insulto preferito, ma lo utilizzava solo quando era di un «buon» cattivo umore, come diceva lui. A meno che, offeso dai due maschi che si accoppiavano davanti a noi, non se ne uscisse con un «Satana vi bruci il culo in eterno».

    Confessa, vecchio catorcio ho pensato, nonostante i capelli bianchi, ti piacerebbe essere al posto di quelle scimmie. Almeno una volta nella vita, eh, farsi entrare la felicità su per le chiappe. Come se mi avesse letto nel pensiero, il casto dirigente mi ha scoccato un’occhiataccia. Ho badato ad assumere un contegno più serio e abbiamo ripreso il giro di ispezione.

    Avevo un bloc notes a spirale, su cui annotavo, da bravo dipendente, ogni commento del capo – per quanto soltanto ad interim, visto che quello in carica era ricoverato per via di una prostata devastata dal solleone algerino – senza immaginare che a fine giornata avrei voluto essere morto. O meglio, di lì a poche ore avrei cominciato ad agonizzare: un po’ intorno alle ventuno, molto verso le ventidue. E dopo… Be’, dopo avrei invidiato l’imperturbabile serenità di chi aveva la fortuna di essere morto e sepolto per davvero.

    Eppure la giornata era iniziata bene, anche se di tanto in tanto un’antipatica stretta allo stomaco mi ricordava che da una settimana circa Meriem, la donna che amavo da una quindicina d’anni, aveva cominciato a parlare di divorzio. Avevo commesso l’errore di prendere in giro le sue recriminazioni. A quel punto era andata definitivamente in bestia. Era uscita da camera nostra sbattendo la porta e se ne era scappata a dormire sul divano. Al mattino non ne avevamo riparlato, ma quel giorno e i successivi aveva rifiutato il mio bacio sulla guancia, la carezza leggera con cui suggellavo le nostre separazioni fino a sera, io a guadagnarmi il pane allo zoo di Algeri in qualità di biologo, lei al liceo linguistico dove insegnava. Quella mattina ero uscito per primo; con l’unica automobile di famiglia si faceva a turno, e oggi andare in autobus toccava a me.

    Mi aveva raggiunto sulla porta – dopo essersi sottratta di nuovo al mio bacio – per comunicarmi preoccupata:

    «La piccola va male a scuola. Ho dato un’occhiata ai suoi quaderni, sembrano carta straccia. Bisogna rimetterla in riga».

    «Mi ci vedi, a farle la predica il giorno del suo compleanno?»

    «Mica è una scusa». Sfoggiava quella che tra me e me chiamo la sua faccia da brava madre di famiglia (del tipo: bada, perverso figuro, la cosa non riguarda né i nostri bacetti per far pace né le liti ormai continue, ma qualcosa di molto più serio, addirittura sacro: il ‘futuro-di-tua-figlia’!). «Ho paura che abbia un amico…»

    Non mi era affatto piaciuto il modo in cui i puntini di sospensione si erano pressoché materializzati fra di noi. Ho finto di non capire e ho mugugnato:

    «Ne avrà tanti, di amici, e anche di amiche».

    «Non fare l’imbecille, Aziz! Sai benissimo cosa intendo. Tra le sue cose ho trovato il biglietto di un cretino. Le dava appuntamento al cinema del centro commerciale di Riad el Feth. E sai come finiva? Indovina» ha alzato le braccia al cielo. «Muoro per te. D’avvero. Davvero con l’apostrofo! Pure ignorante».

    Deve avermi letto in faccia una muta protesta: Andiamo, è troppo piccola per queste cose. Mi sentivo paonazzo. A giudicare dallo sguardo sarcastico di mia moglie ero arrossito come quando, sei mesi prima, mi era stato annunciato tranquillamente che nostra figlia – da me ancora troppo spesso denominata «bambolina mia» – aveva appena avuto le sue prime mestruazioni.

    «Al cinema, ieri l’altro? Ma allora la scuola…»

    Identici puntini di sospensione, stavolta da parte mia.

    «Ha segato. Sì, la tua amata figlia dice le bugie. Succede spesso, alle ragazze della sua età, e anche dopo, non lo sapevi?» ha aggiunto, con quel risolino sarcastico che aveva il dono di darmi sui nervi.

    Subito dopo, però, una ruga le è apparsa sulla fronte.

    «Ricordati in che quartiere abitiamo. La moglie dell’imam, secondo quanto mi ha lasciato capire la vicina, spettegola su di lei in maniera piuttosto pesante».

    «Sai dove possono infilarsi i loro commenti buzzurri, l’imam e sua moglie?»

    «I commenti buzzurri con barba e hijab sono pericolosi, in questo paese di pazzi!» ha sibilato. «Metà dei nostri vicini qui alla Cité joyeuse si butterebbero nel fuoco per gli islamisti, te lo sei scordato?»

    Vaffanculo alla Cité joyeuse, quartiere di merda, altro che quartiere della gioia! Non me lo ero scordato, no, né mi ero dimenticato la soddisfazione di alcuni nostri vicini all’indomani dei primi attentati contro giornalisti e intellettuali considerati antiislamisti. Dopo l’orribile omicidio di uno scrittore sotto gli occhi di moglie e figlia, perfino la vedovella carina del sesto piano, abituata ad arrotondare vendendo le sue grazie, si era sentita in dovere di confidarmi l’avvento di una nuova era di giustizia, libera da miscredenti e miscredenze.

    Vaffanculo alla Cité joyeuse e pure a noi, sì! Eravamo stati costretti a nascondere l’angoscia, a fingere un’imparzialità troppo vicina all’acquiescenza. La doppiezza a cui ci sottoponevamo io e Meriem – ultimamente più attenta anche nel vestire – ci faceva uscire pazzi. Ma quell’inasprirsi degli animi, lo avevamo capito subito, non indicava solo un inasprirsi della temperie politica e poteva trasformarsi in minaccia per la nostra incolumità. Da allora non avevamo più saputo liberarci di una certa tensione, di quell’istinto di sopravvivenza che ci obbligava a tenere a freno la lingua. D’altronde non eravamo certo i soli a coprire con il prudente velo dell’ipocrisia almeno le opinioni, se non il fisico. Una buona fetta di algerini – fors’anche la maggioranza, va’ a sapere, con questo popolo sempre sulle sue – aspettava con ansia di vedere dove avrebbe girato il vento. Il destino non aveva ancora deciso da chi saremmo stati governati, dunque meglio non sbilanciarsi. «In questo paese senza regole né legge, se ti ammazzano, l’unica persona a piangerti per più di un giorno è tua madre; gli altri, a cominciare dagli amici più cari, si affrettano ad asciugarsi le lacrime per paura di tradirsi agli occhi dei tuoi nemici» insegna la saggezza popolare nostrana.

    Per quanto mi riguarda, dopo qualche anno di quella vita stremante ero diventato ferratissimo nell’arte di destreggiarmi tra opinioni contraddittorie, a forza di cenni di assenso e sorrisi d’intesa, in modo da convincere gli abitanti della Cité joyeuse – fossero islamisti, poliziotti, o «semplici» vicini di casa – di quanto fossimo d’accordo in realtà. Tutti tranne uno: il gentilissimo inquilino del piano terra, sempre vestito di scuro, a suo dire semplice impiegato alle poste ma da me sospettato di essere una spia al servizio della polizia o dei militari, certo di livello molto basso visto che abitava nel mio stesso palazzo di falliti. Cinquant’anni scarsi e un modo antipatico di sfiorarti le dita mentre faceva domande improbabili. Mi sentivo sporcato e vagamente in colpa anche solo a sentirmi chiedere da lui cosa pensavo del tempo. «L’uomo ratto» lo avevo bollato tra me e me, e il soprannome si era rivelato molto azzeccato. Correva voce che avesse preso parte alla repressione delle rivolte nell’88, quando prestava servizio in un’altra provincia, sempre nella regione di Algeri, e ne avesse approfittato per violentare alcuni ragazzi arrestati durante i disordini. Secondo qualcuno, i fatti avevano avuto luogo all’interno di un commissariato, secondo altri in una caserma dei parà. Ma queste pesanti accuse non dovevano essergli giunte all’orecchio – o forse se ne infischiava – perché ogni venerdì andava tranquillo in moschea, vestito con un elegantissimo burnus bianco.

    Avevo ereditato quell’orrenda casa dopo la morte di mio padre a causa di un incidente; lui e mia madre avevano divorziato quando ero ragazzo e lei viveva al paese insieme a mia sorella maggiore. Il mio stipendio e quello di Meriem non ci permettevano di affittare un appartamento in una zona meno squallida. Alla fine mi ero rassegnato ad abitare per qualche altro anno in quel covo di barbuti, nella speranza di riuscire a mettere da parte un piccolo gruzzolo.

    «E va bene» ho assecondato vigliaccamente Meriem, «se stasera non faccio tardi ne parliamo con Shahra. Imbastiamo una bella riunione di famiglia con tanto di urla, te lo prometto. Anche qualche bastonata, se insisti. In giornata mi lascio crescere i baffi, così magari riesco a essere all’altezza. E per stare tranquilli compro pure un bel burqa».

    «E certo, non prendere mai niente sul serio, tu, mi raccomando, trova sempre la maniera di tirarti indietro» ha recriminato lei, ma si è dovuta fermare perché nostra figlia, a piedi nudi e in pigiama, ci ha raggiunti sulla porta di casa. Nonostante gli occhioni assonnati, si era già infilata una cuffia all’orecchio destro, a suo dire il più musicale.

    «Tzao» ci ha detto con la pronuncia blesa che un costoso logopedista si sforzava di correggere.

    «Un po’ tardi per alzarsi, Shahrazàd».

    L’ho chiamata per esteso, come tutte le volte in cui mi riproponevo di sgridarla. Quel nome non le piaceva, troppo da principessa orientale da due soldi, secondo lei, e comunque nessun uomo, fosse pure un re, l’avrebbe mai costretta a blaterare senza posa per mille e una notte, a sentir lei.

    «Oggi si entra alla seconda ora. Quello di matematica è malato. Meno male, perché non ci capisco niente».

    «Shahra, dobbiamo parlare. Adesso non ho tempo, sono impicciatissimo. Domani ci casca tra capo e collo una commissione ministeriale. E togliti quella cuffia, che diventi sorda!»

    Avevo parlato con voce severa, ma la mia splendida nonché menzognera figlia non si è lasciata impressionare. Mi ha spinto fuori.

    «Allora non vorrai perdere l’autobus, e poi i tuoi animali si annoiano senza di te. Ricordati di dare un bacio a Lucette da parte mia. Dille che presto vengo a insegnarle il pmc».

    «pmc», altrimenti noto come «papà, mamma, caramella» erano state le prime parole di Shahra, ma anche le uniche che ha detto per così tanto tempo da averci fatto temere un brutto ritardo… Finché, dall’oggi al domani, non si era decisa a diventare più chiacchierona di un assembramento di gazze a primavera.

    Ho sorriso mentre Meriem, esasperata dal mio atteggiamento, alzava le spalle e mi diceva di non dimenticare di invitare il mio collega veterinario al pranzo per il compleanno di Shahra, programmato per il fine settimana.

    Uscendo dal portone per poco non andavo a sbattere contro la vedova del sesto piano. Il velo e i guanti neri la invecchiavano da morire. L’ho salutata. Mi ha risposto in un sussurro, a occhi bassi. All’inizio dei «fatti», mi era stato detto, una sera si era ritrovata dentro casa alcuni sconosciuti con fucile a canne mozze, dai quali era stata minacciata di castighi efferati se non avesse cambiato mestiere. Da allora, preoccupatissima di far dimenticare le sue passate mancanze, la bellissima bigotta si era praticamente trasferita nella moschea del quartiere. Di tanto in tanto però veniva inseguita dai lazzi di bambini urlanti, istigati da qualche moglie gelosa. Memore dell’antico dimenarsi espressivo del suo deretano, mi sono trovato a pensare: Che spreco! Con tanti cazzi assetati, ecco uno splendido didietro, modellato con tanta passione da Darwin e madre natura, lasciato a raggrinzire in disuso.

    Ho comprato giornale e caramelle alla menta da Moh, l’uomo senza braccia né gambe perennemente acquattato davanti a una baracca a metà strada tra la fermata e la biglietteria del giardino zoologico. Con il busto poggiato su una cassetta, sotto la quale dei cuscinetti a sfera fungevano da rotelle, mi ha salutato tutto allegro.

    «Buongiorno professore, come stai?»

    «Benissimo, e tu?» ho risposto. «Purtroppo non sono professore, te l’ho già detto».

    Di solito la nostra conversazione non andava oltre, quell’uomo e il suo sempiterno buonumore mi mettevano a disagio. Sembrava di sentirlo: Guarda la mia sfortuna, amico, e apprezza il coraggio come merita, tu che ti lamenti ogni due per tre. Cosa dici, me lo sono guadagnato un posto in paradiso? Stava sempre a raccontare barzellette il cui finale si perdeva in biascichii misti a risate. Gli ho messo i soldi in una scatola di plastica rivestita di versetti del Corano, posata su un tavolino abbellito da altri testi sacri. Un giorno gliene avevo chiesto il perché e lui mi aveva confidato di circondarsi delle sacre scritture per difendersi dagli imbroglioni.

    «Non posso correre né lanciare sassi, lo vedi. E allora mi appello alla religiosità del prossimo. Ma la parola di Dio non serve in questo paese di ladri, che proliferano come mosche sulla merda di un generale». Poi, abbassando la voce: «La mia povera mamma mi ha infilato un Corano nella tasca interna del giubbotto, per proteggermi. Lo ha portato dalla Mecca, è costato una fortuna. O almeno così dice. È molto avara, ma io le credo perché ha la copertina intessuta di fili d’oro. Be’, se i ragazzi del quartiere lo sapessero, mi lascerebbero in mutande, pur di fregarmelo!»

    Ho storto la bocca:

    «E perché lo racconti a me?»

    Si è fregato il naso con il moncherino e ha ribattuto:

    «Tu sei un professore, mica un ladro. Almeno fino a prova contraria» ed è scoppiato a ridere di nuovo.

    Attraverso lo sportello della biglietteria ho stretto controvoglia la mano al custode – lui ce le aveva tutte e due, ma sempre appiccicose; come se non si preoccupasse di asciugarsele dopo esserselo menato, diceva una collega con orrore. Dopo ho mangiato una caramella, triste surrogato della sigaretta che non fumavo più. Mi ci è voluto ancora qualche istante di pietà mescolata a disgusto, per cancellare l’immagine del monco e sbarazzarmi della sensazione, idiota ma tenace, che la povertà di quell’invalido potesse contagiarmi in qualche modo.

    Ho allungato un po’ per passare a salutare Lucette e mantenere così la promessa fatta a Shahra – e lì ho incontrato il capo già operativo, motivo per cui ho tirato fuori il bloc notes a spirale in modo da farmi credere anch’io in piena attività. Qualche tempo prima avevo visto insieme a mia figlia un documentario con immagini virtuali sui primi ominidi. Shahra ne era rimasta impressionata, tanto da convincersi che la nostra scimmietta fosse la copia sputata dell’australopiteco digitale visto in tv. Mi aveva spinto a prometterle di insistere presso i miei colleghi affinché lo zoo di Algeri la chiamasse ufficialmente Lucette – figlia, al di là delle ere preistoriche, della veneranda Lucy del documentario. Per fortuna Lounès, amico di famiglia e capo veterinario del giardino zoologico, mi aveva assecondato volentieri, pur dubitando che la vera Lucy fosse sfacciata quanto i moderni cugini da noi recentemente accolti.

    La scimmietta mi ha squadrato con aria indifferente e poi si è rimessa a poppare, mentre i due pelosacci proseguivano nelle pratiche che tanto scandalizzavano Hajj Sadek. Il direttore ad interim staccava spesso lo sguardo dal recinto dei primati. Temeva, ho capito alla fine, che qualche visitatore mattutino incappasse nello spettacolo di un grande primate maschio intento a fornicare felice con una scimmia del suo stesso sesso. Nonostante ciò, essendosi accorto dell’espressione beata di quello a cui toccava «ricevere» l’omaggio del compare, Hajj Sadek mi sorprese con un risolino nervoso.

    «È pazzesco, non pensano ad altro, quegli schifosi! A proposito, come li abbiamo chiamati?»

    «Kader e John».

    «E l’arabo qual è?»

    «Arabo? Scusa, l’altro sarebbe texano, secondo te?»

    «Dico quello che si chiama Kader…»

    «Ebbene sì, è Kader a ingropparsi il compagno. Oggi il mondo arabo ha messo sotto l’America. Ma i due devono avere, ehm, una concezione democratica della geopolitica, perché lo fanno a turno».

    Hajj Sadek mi ha fissato con il chiaro intento di ricordarmi il rispetto dovuto a un superiore, per quanto interinale. Poi è sbottato con rabbia:

    «Che mania cretina, dargli nomi da uomini. Tra l’altro sono identici a noi… Secondo me, qui si sfiora il sacrilegio». Poi ha aggiunto, sempre preoccupato: «Speriamo si calmino, questi deficienti di gorilla. Te lo immagini se passa una classe in gita? Per non parlare di quei tarati dei barbuti, sempre in giro per il parco a caccia di coppie illegittime. Come minimo ci accusano di traviare la gioventù».

    Ho risposto con la faccia inespressiva del burocrate intento a soppesare i pro e i contro:

    «Sarebbero senz’altro capaci di lanciare una bomba nella gabbia delle scimmie o di spedirci un kamikaze ansioso di scambiare la moglie con un harem di urì. Ma non bisogna dimenticare i magnaccia adibiti alla sorveglianza delle zoccole negli anfratti del giardino. Ai loro occhi, l’effetto dei nostri bonobo potrebbe rivelarsi benefico. Tra palle vaganti e attentati, agli algerini gli tira di meno. Logorio da stress. Grazie ai nostri bonobo, invece, le meretrici non sapranno più a chi dare i resti». Ho assunto un’aria vagamente meditabonda. «Dovremmo chiedere ai nostri finanziatori una quota extra. Questi casanova del Congo apportano un miglioramento sociale. Forse addirittura politico, nel caso in cui il loro gagliardo andirivieni spinga certi barbuti, anziché ad avvelenarci la vita, a cercare un minimo di sollazzo tra le fratte…»

    Hajj Sadek mi ha squadrato con stupore misto a ribrezzo. Si è guardato intorno per assicurarsi che nessuno mi avesse sentito.

    «Apri bocca e gli dai fiato, tu, non prendi niente sul serio. Ma prima o poi ti si ritorce contro». Devo essermi incupito, perché il vecchio si è aperto in un sorriso ironico. «Non ti facevo così suscettibile. Qualche residuo di pudore ti è rimasto, eh, piccolo?»

    «Primo, non sono piccolo; secondo, oggi non sei il solo ad avermi accusato di non prendere niente sul serio».

    È scoppiato a ridere:

    «E una cosa del genere la prendi sul serio?! Bravo, piccolo, facciamo progressi». Per cambiare discorso, ho indicato il cosiddetto recinto delle scimmie – un recinto stretto, separato dal pubblico tramite un’inferriata e un grande fossato, con una serie di gabbie aperte durante il giorno. I due primati, dopo essersi scambiati ben altro che carezze, si dividevano della frutta. Uno dei due sgranocchiava un’arancia con tale abbandono da farmi pensare alla sigaretta dopo l’amore. «Be’, nella vita non c’è solo l’incularella delle scimmie antropomorfe» ha esclamato Hajj Sadek con inattesa goliardia. «Il Signore opera come meglio crede, non sta a noi discutere il Suo operato. Su, Aziz, io vado a scartabellare dalle parti del ministero, tu passa dagli addax e poi prepara tutto per l’ispezione». Si è grattato la testa con una smorfia. «E se prima dell’arrivo dei ministeriali gli mettessimo del valium nel pastone?»

    «Non dirai sul serio». L’ho guardato: il vecchio diceva sul serio. «Il veterinario si opporrà recisamente, non se ne conoscono gli effetti su animali di questa stazza, ti accuserà di scambiare i bonobo per soldati di leva».

    «Smettila di prendermi in giro. Domani, quando arrivano quelli, dì agli inservienti di liberare solo le femmine».

    L’ho interrotto:

    «Ma anche le femmine, tra loro…»

    Ha tagliato corto:

    «Sì ma tra donne fa meno impressione che tra uomini!»

    Ho sgranato gli occhi: aveva detto «uomini» e «donne» anziché «maschi» e «femmine». Anche lui si è reso conto del lapsus. Per la vergogna, ha finto di concentrarsi sulla placca su cui veniva spiegato a lettere dorate che i sette scimpanzé pigmei (Pan paniscus) erano un dono della Repubblica democratica del Congo alla repubblica sorella di Algeria, in segno di eterna amicizia dopo la visita di sua eccellenza il presidente bla bla bla…

    Il mio casto capo è tornato verso la sua automobile borbottando di non capire perché diavolo il dittatore congolese avesse regalato al nostro presidente quella specie d’uomini venuti male, anziché animali simpatici come i leoni o gli elefanti.

    Sono rimasto almeno un altro quarto d’ora a guardare Lucette e sua madre – ribattezzata da me e Shahra con l’ovvio soprannome di Lucy. Mentre la piccola poppava, accoccolata addosso a sua mamma in una posa di inquietante umanità, la bonobo (poco meno di quindici anni, a prestar fede ai documenti ufficiali della diplomazia congolese) mi ha lanciato un’occhiata di vago disprezzo, del tipo: Brutto scioperato, non hai altro da fare a parte spiare una brava madre di famiglia e i suoi marmocchi?

    Con il suo fardello sempre appeso al collo, la scimmia ha stretto l’inferriata tra le dita e ha cominciato a scuoterla con forza, prima con una mano, poi con due e alla fine anche con gli arti inferiori. La piccola ha perso l’equilibrio e solo all’ultimo è riuscita ad aggrapparsi ai peli del petto della madre. Quest’ultima, in un crescendo assordante, si è messa a urlare fino a bloccarsi per un crampo alla gola. Alla fine, con un ultimo gridolino, si è accucciata al centro del recinto. Si è esaminata un pollice sbucciato. Si è infilata in bocca il dito ferito e poi, con lo sguardo spento e il fiato ancora grosso, ha dato una grattatina alla palletta nera aggrappata al suo seno. Nella sua zucca, la nuova arrivata si chiedeva forse con orrore come aveva fatto il mondo a lasciarsi stravolgere in maniera tanto atroce.

    Mamma scimmia si è voltata verso i due maschi, Kader e John, che si spulciavano tranquilli a vicenda. Ha fatto per alzarsi ma poi ha cambiato idea, ha posato la piccola, si è aperta le grandi labbra e ha cominciato a massaggiarsi il clitoride. Senza entusiasmo, come per tenersi occupata.

    Ho deglutito pensando: Ehi, cugina, se credi in un dio dei bonobo, meglio pregarlo di intervenire; sei in un paese arabo, ragazza. Anzi, peggio: arabo berbero, in cui si sommano le idiozie di entrambi i popoli. Niente amore all’aria aperta, niente femmine dominanti. Nel giro di poco, tra i sette e i settantasette anni ti toccherà la sacra trilogia nostrana: hijab, niqab e cavolate degli imam. Era meglio, per te e i tuoi, che il presidente del Congo si fosse invaghito del suo omologo svedese.

    Le scimmie regalate al nostro presidente, avevamo saputo, erano state deportate dalla foresta equatoriale un mesetto prima, al massimo due, se si calcolava l’attesa per essere imbarcate. Lounès mi aveva dato da leggere l’e-mail di un’associazione in difesa dei primati, tramite la quale venivamo informati del loro «rapimento» nei pressi di una stazione di ricerca giapponese, da qualche parte tra il fiume Congo a nord e il suo affluente Kasai a sud. Nonostante le proteste degli studiosi, alcuni soldati armati di fucili a freccette avevano attratto i bonobo con caschi di banane, messi dove i primatologi erano soliti lasciargli del cibo extra. Alcune scimmie, rintronate dal sedativo, erano morte cadendo dagli alberi. Altre avevano agonizzato per ore tra i cespugli. Un vecchio maschio era morto di infarto. I sopravvissuti avevano subito le sgradevoli conseguenze del ritrovato affetto tra presidenti africani.

    I nostri nuovi inquilini, cioè, non erano mai stati in cattività prima di allora. Ormai conoscevo abbastanza bene le crisi di rabbia e angoscia da cui venivano colti in certi momenti della giornata, specialmente all’alba. Chissà se di notte si rifugiavano in dolci sogni di spidocchiamenti tra le fronde della foresta natale, per cui al risveglio mal sopportavano il ritorno alla triste realtà.

    Questi accidenti di primati somigliavano troppo alle persone. E io, biologo fallito che in gioventù aveva tanto sognato di somigliare al grande Pasteur, dovevo vedermi ridotto a guardia carceraria di esseri quasi umani? Ho sospirato, scontento per la mia iperbole niente affatto spiritosa.

    «Mi dispiace, Lucy. Fosse per me, aprirei tutte le gabbie di questo tetro zoo. Ma innanzitutto mi ritroverei disoccupato, e poi a che ti servirebbe scappare, in questo paese di matti? Ti ritroveresti violentata a morte nei recessi di un commissariato o fatta a pezzi da un fanatico della decapitazione religiosa». Ho tamburellato sul bloc notes. La scimmia ha alzato la testa, quasi mi avesse ascoltato. «Hai ragione, bella mia, non credere a quello che dico. Gli esseri umani passano quasi tutto il tempo a mentire. È vero, mi prendevo gioco di te e non è bello».

    Il verbo «mentire» mi ha fatto tornare in mente il discorso di Meriem su nostra figlia. La discussione serale sarebbe stata un inferno. La mia cara figlioletta testarda si sarebbe probabilmente ostinata a negare tutto, io e Meriem ce la saremmo presa prima con lei e poi l’uno con l’altra. Sono stato colto da una vaga nostalgia dei tempi non così lontani in cui, da giovani genitori, ci chinavamo con le lacrime agli occhi sull’esserino che avevamo appena riportato a casa dal reparto maternità. Il coprifuoco, gli attentati, gli ammazzamenti sotto casa saranno anche stati l’unica realtà dell’Algeria; ma tra le nostre mura io, Meriem e quella piccolina ancora tutta rugosa eravamo la famiglia più felice del mondo.

    Certo, anche allora sentivo un gran vuoto nell’anima – Meriem lo chiamava il mio cinismo congenito – unito a quel tanto di canagliesco necessario per districarmi in qualche modo in una città come la nostra. A mo’ di scusa potevo citare l’amore assoluto nei confronti di mia moglie. Al primo incontro con lei, tutto quanto possedevo di vitale, cuore, coglioni, pancia e cervello, mi si era rivoltato da cima a fondo. Anche Meriem, credo, era stata trafitta nella stessa meravigliosa maniera. Quando era in vena di ironia, così spiegava il nostro incontro:

    «Un colpo di fulmine in un paese di attentatori, cosa c’è di più ovvio?»

    Ogni tanto ironizzavamo sulla coincidenza quasi perfetta tra la nostra storia d’amore e l’evolversi della situazione politica in Algeria. Ci eravamo conosciuti durante la grande rivolta dell’ottobre 1988; avevamo fatto l’amore la prima volta nel corso del colpo di stato dopo la vittoria degli islamisti alle legislative del dicembre 1991; sei mesi dopo, all’annuncio dell’omicidio del presidente Boudiaf, rimpatriato in fretta dal suo esilio in Marocco per servire da fantoccio a una manica di grassi generali, avevamo deciso di sposarci in fretta e furia. Chissà, forse volevamo combinare qualcosa nella vita, prima di finire ammazzati da un coltello o da una bomba.

    Nei primi tempi ce l’eravamo goduta parecchio. Nonostante le liti furibonde, il nostro affetto si era rivelato immenso e il desiderio veniva spesso rafforzato dall’eccezionalità, o meglio dalla pericolosità dei luoghi dove ci proponevamo di spegnerlo. Per esempio, una sera tornavamo da una cena fuori città. Il coprifuoco era stato revocato in maniera solo parziale e per strada c’erano poche automobili. Pioveva, l’atmosfera era inquietante. Non ce la facevamo più e avevamo deciso di fermarci su una strada sterrata che costeggiava un campo di grano. Meriem si era spogliata sul sedile di dietro e io l’avevo in parte imitata, quando una vecchia Citroën 404 con tutte le luci accese era spuntata sul sentiero reso fangoso dall’acquazzone. Dentro era stipata una famiglia intera, forse contadini del luogo di ritorno alla fattoria. Padre in turbante, madre in haik e una sfilza di ragazzini avevano sorpreso le nostre nudità con stupefazione, a cui ben presto aveva fatto seguito un sacrosanto sdegno.

    «Come osate? Siete nella mia proprietà, cani!»

    L’uomo al volante era sceso dall’auto armato di randello. Avevo rimesso in moto terrorizzato, mentre con la mano libera cercavo di tirarmi su i pantaloni. Per un’orrenda manciata di secondi le ruote avevano slittato a vuoto nel fango. Il conducente della Citroën menava botte da orbi sul cofano della mia auto, mentre augurava a noi e ai porci destinati a nascere dalla nostra perversione di annegare nella merda bollente dell’inferno. Meriem era paralizzata dalla paura, non riusciva nemmeno ad abbozzare il gesto di rivestirsi. Alla fine, con un frastuono di cambio tirato al limite, la macchina era balzata in avanti e ci eravamo ritrovati a correre a rotta di collo verso Algeri, ridendo di sollievo come pazzi, io con il sesso di fuori e mia moglie in nudo integrale.

    «Ah, Meriem…» Mentre prendevo nota delle modifiche da apportare alla gabbia dei bonobo, un dubbio – Ci amiamo ancora o il nostro amore si sta infognando nell’oscena fanga del disincanto? – mi si insinuava in gola come un aculeo. Prima… Adesso… «Ehi, Lucy, ti andrebbe di tessere un tappeto volante e riportarmi ai momenti meravigliosi di quando avevo solo certezze?» Lucy mi ha voltato le spalle. «Te ne freghi dei problemi di noi secondini, eh? Hai già i tuoi drammi a cui pensare. Ma con chi altri mi posso consigliare? Ad Algeri non ho nessuno da…» Sono rimasto un secondo inebetito, dopo essermi reso conto di aver cambiato tono per confidarmi davvero con un animale. «Tra un po’ ti chiederò di leggermi le carte, strega dal viso pallido».

    Mi si è stretto il cuore. Senza Meriem e

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