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Desiderio milionario: Harmony Collezione
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E-book160 pagine2 ore

Desiderio milionario: Harmony Collezione

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Info su questo ebook

Javier Dos Santos non ha mai desiderato nessuna donna come l'ereditiera Imogen Fitzalan. L'ha sposata per rafforzare il proprio impero, ma la sua innocente mogliettina ha acceso in lui una fame che non sa come placare.

Diventare schiavo del desiderio non rientrava nei suoi piani, tuttavia adesso Javier ha un nuovo obiettivo: cancellare l'ubbidiente arrendevolezza di Imogen e sostituirla con una passione che sia in grado di saziarlo.
LinguaItaliano
Data di uscita20 nov 2019
ISBN9788830507555
Desiderio milionario: Harmony Collezione

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    Anteprima del libro

    Desiderio milionario - Caitlin Crews

    successivo.

    1

    Imogen

    L'indomani mattina avrei sposato un mostro.

    Non importava cosa desiderassi io. E di sicuro non importava cosa provassi. Ero la figlia minore di Dermot Fitzalan, tenuta a rispettare il volere di mio padre, proprio come ogni donna della mia famiglia aveva fatto prima di me.

    Conoscevo da sempre il mio destino.

    Ma ciò non significava che fosse facile rassegnarsi.

    «Non puoi farti vedere in questo stato da nostro padre, Imogen!» mi riprese in tono brusco la mia sorellastra, Celeste, entrando in camera mia come una furia. «Servirà solo a peggiorare la situazione.»

    Sapevo che aveva ragione.

    La triste verità era che Celeste aveva sempre ragione, su tutto. L'elegante, l'aggraziata Celeste, che a suo tempo si era sottomessa al suo dovere con un sorriso pacato in volto. La magnifica, universalmente adorata Celeste, con l'aspetto biondo e slanciato della sua defunta madre. La perfetta Celeste, a cui sempre sarei stata paragonata.

    E rispetto alla quale sarei sempre stata trovata carente.

    La mia defunta madre era stata una donna di una bellezza straordinaria: capelli rosso tiziano, pelle d'alabastro e misteriosi occhi color dello smeraldo, però io le somigliavo soltanto nel modo in cui un riflesso sfocato può ricordare l'originale.

    Accanto alla mia sorellastra, poi, ero proprio il brutto anatroccolo della famiglia.

    Prendete quel giorno. La vigilia del mio matrimonio. Celeste, dignitosa e impeccabile. Abito di alta sartoria, chignon irreprensibile e appena un velo di fard a dare luce agli zigomi cesellati. Io: pigiama - nonostante fosse già mezzogiorno - e capelli... non avevo neanche bisogno dello specchio, per saperlo. La solita matassa di riccioli. Rossi, indomiti, ingarbugliati. Un disastro.

    Dettagli, direte voi. Certo, dettagli. Come il fatto che il mostro, quello che stavo per sposare, dieci anni prima avrebbe voluto sposare Celeste.

    E probabilmente la vuole ancora, sussurravano tutti.

    Me l'avevano perfino sussurrato in faccia, ed ero rimasta sorpresa da quanto mi avesse ferito. Voglio dire, non è che fossi nata ieri. Il mio non era un matrimonio d'amore, e lo sapevo. Non ero stata scelta. Solo, ero l'unica ereditiera Fitzalan ancora sulla piazza. Era il mio pedigree a rendermi appetibile, tanto da far passare in secondo piano la chioma ribelle, la risata sguaiata e sempre fuori luogo, gli abiti eternamente sghembi.

    Un matrimonio di pura convenienza, dunque. (Quella di mio padre, non la mia.) Ma, ripeto, lo sapevo da sempre. Non è che mi aspettassi una favola.

    «Le favole sono per le altre famiglie!» era solita tuonare la mia severa nonnina picchiando il bastone sui pavimenti di quella tentacolare magione francese in cui, narra la leggenda, la mia famiglia viveva sin dal dodicesimo secolo. «I Fitzalan hanno un fine superiore.»

    Da bambina avevo immaginato me e Celeste che partivamo lancia in resta - alla lettera, indossavamo l'armatura - a trucidare un paio di draghi prima di cena. Mi sembrava perfetto, come fine superiore.

    Poi ero stata spedita in convento a ricevere un'istruzione, e quelle povere monachelle austriache avevano penato anni per farmi entrare in testa che no, la caccia ai draghi non era di mia competenza. Le giovinette di antico lignaggio con padri ambiziosi erano chiamate a ricoprire un ruolo diverso. (Ma mi raccomando, non diciamo pedina. E non essere così ribelle, Imogen! E io giù a sgranare rosari per espiare i miei peccati.)

    Solo molti anni - e un'infinità di rosari - più tardi avrei capito. Il fine superiore dei Fitzalan era il denaro. Accumula, accumula, accumula. Eccola, la gloria che ci scorreva nelle vene.

    «Non sono in nessuno stato» ribattei in quell'istante rivolta alla mia sorellastra, che, giustamente, neppure mi degnò di una risposta.

    Ero rimasta tutta la mattina barricata nel salottino della cameretta, a guardare il cortile giù in basso e sognare il perfetto, bellissimo Frederick. Lo stalliere di mio padre. Occhioni azzurri.

    Ci eravamo parlati una sola volta, secoli prima, ma era stato sufficiente per farmi crogiolare per anni nel calore del suo sorriso.

    E invece i prossimi, di anni, li trascorrerai con il mostro. Un uomo detestato e temuto in tutta Europa.

    Un futuro orribile.

    Non che il passato...

    Prendi esempio da tua sorella!, era una delle frasi preferite di nonnina.

    E io ci avevo provato, giuro.

    Avevo osservato Celeste diventare maggiorenne prima di me, elegante e mansueta. L'aveva fatto con grazia e bellezza, come sempre. Si era sposata il giorno del suo ventesimo compleanno, con un uomo dell'età di nostro padre. Un conte nelle cui vene scorreva il sangue di famosi sovrani, un uomo le cui radici affondavano nel glorioso passato dell'Europa. Un uomo sul cui viso non avevo mai visto neppure l'ombra di un sorriso.

    E, negli anni successivi, Celeste aveva omaggiato il torvo maritino di due figli maschi e una femmina.

    E adesso tocca a te. Domani compirai ventidue anni e sposerai l'uomo che tuo padre ha scelto per te.

    Perché nessuno si opponeva al volere di Dermot Fitzalan, tantomeno le sue figlie-pedine.

    Neanche se significava convolare a nozze con un uomo spaventoso.

    Un uomo che avevo visto una sola volta - di sfuggita, da lontano, mentre si allontanava dalla nostra dimora - ma di cui conoscevo le nefandezze.

    Un uomo noto in ogni angolo del mondo per essere il diavolo fatto persona.

    Un uomo che neppure aveva sangue nobile nelle vene, e questa sì era una novità nelle usanze Fitzalan.

    Il marito di Celeste, per esempio. Spiantato, acido, vecchio, ma conte.

    E invece, questa volta, niente sangue blu. In compenso, tanti di quei soldi da mandare giù perfino del banale sangue rosso.

    Certo, trovare un aristocratico per l'aristocratica Celeste non era stato difficile. Con me era più dura. Meglio vendermi a un plebeo. Un essere ignobile e crudele, ma visto che era disposto a pagare per entrare nella nostra cerchia, e visto quanto pagava... eh, be'. Per mio padre significava avere la botte piena e pure la moglie ubriaca.

    Lo sapevo. Lo sapevo bene. Ma non significava che mi piacesse.

    Celeste mi si sedette accanto.

    «È inutile startene qui a rimuginare, lo sai. Non cambierà nulla, e finirai per prendere freddo e ammalarti» mi rimproverò, pragmatica.

    «Non voglio sposarlo, Celeste.»

    «Ah ah ah. Non vuoi?» domandò sbottando nella sua solita risata argentina. Quel giorno, chissà perché, mi parve urticante. E quel lampo duro negli occhi? L'avevo solo immaginato? «Dimmi un po', qualcuno ti ha mai detto che i tuoi desideri contano qualcosa?»

    «Ma avrebbero almeno dovuto chiedermelo!»

    «E da quando in qua i Fitzalan sono così moderni? Se volevi il progresso, dovevi nascere in un'altra famiglia.»

    «Non è che me la sia potuta scegliere.»

    «Oh, piantala di fare la bambina! Hai sempre saputo che questo giorno sarebbe arrivato. Non avrai creduto di poter sfuggire al destino delle Fitzalan, mi auguro.»

    Sfuggire al destino...

    Perché quella scelta di parole? E quel tono, così amaro? Forse neanche per lei era stato facile e naturale come aveva sempre lasciato intendere?

    Venni scossa da un brivido, e non era solo per il gelo di quella magione tetra.

    Allungai lo sguardo verso l'esterno. Oltre il giardino, al momento spoglio, si stendeva la campagna. Sembrava tutto così tranquillo.

    Peccato fosse solo illusione. Il resto della residenza era tutto un brulicare di parenti e ospiti vari, che non vedevano l'ora di spingermi incontro alla mia tragica sorte.

    Erano arrivati da tutto il mondo. Celeste e famiglia da Vienna, prozii raggrinziti da Parigi, cugini insolenti dalla Germania. E colleghi di mio padre, ben pasciuti e scaltri, da ogni dove. Perfino lo sposo - il mostro - arrivava da un altro Paese.

    «Lui com'è?» domandai con voce tremula.

    Celeste tacque a lungo. Troppo. Mi girai a guardarla. Sembrava... compiaciuta. Possibile?

    «Sicura di volerlo sapere?» domandò infine. «Dovrai sposarlo comunque. A volte, meno se ne sa e meglio è.»

    «Ma gira voce che sia un mostro.»

    «È diverso dalle persone che frequentiamo di solito, Imogen. È impossibile prepararti al colpo, sul serio.»

    «Non... non capisco cosa intendi.»

    E rieccola, la risata-graffio. «Oddio, continuo a scordare quanto sei giovane. Ingenua. Inviolata.»

    «Tu eri ancora più giovane di me, quando ti sei sposata. E altrettanto ingenua e inviolata, a quanto ne so.»

    La sua occhiata mi ridusse in cenere. Perché se il lampo che vi avevo scorto era autentico - e se le parole che aveva pronunciato prima erano rivelatrici, così come quella risatina graffiante, così come il sorriso compiaciuto - ebbene, allora mia sorella non era affatto quella che avevo creduto in tutti quegli anni.

    Basta, non puoi pensarci, non ora! Hai un mostro da affrontare, ed è già qui, in casa tua.

    «Mi dispiace per te, Imogen. Sul serio, non è giusto. Come si può pretendere che una fanciulla ingenua come te gestisca un uomo come Javier Dos Santos?»

    Di nuovo. Ero io, o il tono di Celeste era davvero tutt'altro che sincero?

    Comunque. Il mostro. Persino il suo nome mi incuteva paura. Almeno, pensai che fosse paura, quella sensazione rovente e solida che mi colpì al centro del petto per poi scendere in una spirale fino a depositarsi nel basso ventre. Cielo, ti terrorizza proprio!

    Ricordavo ancora quel che era successo dieci anni prima. Le urla. La voce di mio padre che rimbombava in tutta la casa. I singhiozzi di Celeste. E la causa di tutto quel trambusto era proprio l'uomo che allora era stato cacciato, l'uomo a cui adesso avevano deciso di concedere me.

    Ma ciò che ricordavo ancora di più era l'unico scorcio di Javier Dos Santos che avessi mai intravisto. Dopo l'ennesimo accesso di urla e singhiozzi, e una lite sguaiata, di quelle a cui credevo che i Fitzalan non si sarebbero mai abbassati, mi ero incollata alla finestra sopra l'ingresso. Nascosta tra i tendaggi, avevo osservato il mostro che per poco non aveva mandato in pezzi la mia famiglia.

    Era successo molti anni addietro, eppure lo ricordavo come fosse accaduto il giorno prima.

    Era scuro come il peccato, una macchia contro il pietrisco. Capelli nerissimi da sembrare quasi blu. Un'espressione tanto dura da lasciarmi senza fiato. Un fisico incordato di muscoli, possente e pericoloso, un contrasto vivissimo con mio padre, l'uomo raffinato con cui ero cresciuta. Javier non era elegante. Non era distinto.

    Non poteva vantare alcun diritto sulla mia bellissima sorella, avevo pensato con orgoglio.

    Sentimento che, evidentemente, il mio genitore condivideva senza mezzi termini. Come aveva urlato per tutto il palazzo, Celeste era destinata ad avere molto di meglio.

    A quanto pare, però, per te va bene.

    «Allora, vediamo, come posso spiegartelo?» riprese Celeste. «Non è come gli altri uomini. È importante che tu capisca questo. Togliti dalla testa quelli che conosci.»

    «L'unico uomo che conosco è nostro padre. Oh, e una manciata di sacerdoti. E tuo marito.»

    Celeste si adagiò contro lo schienale. Sembrava quasi rilassata, per la prima volta in vita

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