La signora Rosetta, ovvero la felicità provvisoria
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Anteprima del libro
La signora Rosetta, ovvero la felicità provvisoria - Tiziana Sferruggia
Tiziana Sferruggia
La signora Rosetta, ovvero la felicità provvisoria
UUID: 9788865641224
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by Simplicissimus Book Farm
Table of contents
Tiziana Sferruggia
LA SIGNORA ROSETTA
Ovvero la felicità provvisoria
SEGNALATO AL PREMIO ITALO CALVINO XXVI
www.atmospherelibri.it
La pia Rosetta Drago, la giudiziosa e ambiziosa figlia del fioraio del cimitero, pur vivendo in un condominio che puzza di fritti e cavolo nel quartiere popolare di una città siciliana non meglio identificata, è nata elegante: «C’è chi nasce bella, c’è chi nasce intelligente, e io elegante sono nata». La sua brama di scalata sociale è tutt’uno col desiderio insopprimibile di circondarsi e possedere cose chic (gioielli, abiti, mobili, cristalli di Swarovski...) e solo un buon matrimonio potrebbe avvicinarla a quel paradiso in terra rappresentato dai quartieri alti ed elevarla finalmente, dopo tanto penare, allo status di vera signora borghese. Questa missione, che si rivelerà fallimentare, perché tanto lunga e faticosa sarà la salita quanto sarà repentina la caduta e il ritorno alle origini e alle case popolari, è accompagnata da una fede incrollabile e da pratiche devozionali, preghiere, messe, processioni. Suggella il romanzo lʼepilogo divertente e crudo in cui la frigida Rosetta vive definitivamente il crollo dei suoi ideali, ma sempre... elegantemente.
Romanzo dal profumo dʼantan, breve, leggero, divertente nella propensione al grottesco e nellʼumorismo un poʼ cattivo, La signora Rosetta ovvero la felicità provvisoria ha la sua forza, stilistica e narrativa, nella vis comica di certe situazioni, nellʼoriginalità dellʼimpianto e nellʼestrosità del linguaggio.
I passi dellʼuomo sono guidati dal Signore: Egli ne sceglierà la via.
Salmo 36,23
GIOVINEZZA
Rosetta Drago nacque povera ma odiò la povertà visceralmente ancor prima di sapere effettivamente cosa fosse. Un odio istintivo, primordiale, forse trasmesso da geni antenati che avevano patito, subìto, penato e bestemmiato, strisciando disperati, sordidi nell’imprecazione e con l’anima indifferente al richiamo della speranza.
Fu così che lei, inconsciamente ma come ubbidendo a una richiesta di purificazione, iniziò, fin da bambina, a frequentare la parrocchia del suo quartiere dedicata a Sant’Agostino. Per riparare ai peccati degli avi, trascorse la giovinezza istruendo i fedeli nella recita di cori salmodianti, mariani rosari e devote suppliche, sempre in prima fila in tutte le funzioni religiose.
Insieme alla madre e alle sorelle anch’esse devote, seguiva le processioni reggendo lo stendardo, mistica, estatica e superba, con la pettorina bianca e la croce ricamata dalle sue infaticabili mani d’oro, consapevole, lei sì che lo era, che un aiuto alle vicissitudini economiche era certo il dono della fede e che non bisognava mai abbandonarsi alla facile e comprensibile disperazione di chi aveva poco o quasi nulla e nemmeno pregava più. Rosetta e le sue sorelle pregavano e speravano senza dubbi e incertezze.
Alle sorelle Drago, altere, bionde, fisico asciutto, e con una certa severità nello sguardo accompagnata da un portamento alquanto rigido, si perdonava tutto, persino di abitare in due spartane stanzucce di un alloggetto situato in uno dei palazzoni popolari di quella periferia priva di servizi primari, di verde, di illuminazione e di marciapiedi. Risultava abbastanza facile perdonarle anche di dormire nei divani letto tirati giù la sera e ritirati su al mattino, perché fu fin da subito evidente quanto fossero diverse da tutta la fauna tipica del posto: un’accozzaglia di poveri, di ignoranti e per di più litigiosi, una marmaglia che esse non facevano avvicinare nemmeno davanti alla porta poiché a frequentarli non c’era nulla da guadagnare, anzi, semmai da perdere, dato che per quelli lì, ogni scusa era buona per oziare al balcone e attaccar briga col vicino.
Se dunque volevano elevarsi da quella situazione stagnante, non dovevano dare confidenza ai chiassosi operai senza futuro, anche se tonici e nerboruti, dotati di braccia abbronzate e muscolose, con la canottiera bianca e lo stuzzicadenti all’angolo della bocca, a tratti masticato con i denti, a tratti mosso dalla lingua in un andirivieni che a fissarlo dava vertigine e metteva a disagio.
Sgomente e turbate dalla loro sensuale sfacciataggine, spesso erano costrette a chiudere le ante della finestra per sottrarsi agli sguardi insolenti di quei ragazzotti che le fissavano ostinati, senza educazione, bramosi della loro eburnea carnagione che non conosceva le selvagge abbronzature che le loro vicine prendevano sul terrazzo dello stabile, che con la scusa di prendere il sole o di stendere i panni, amoreggiavano fra lenzuoli freschi di bucato e piantine di basilico odoroso.
Era indispensabile resistere alla tentazione della carne, mantenersi pure come caldamente consigliato dalla mamma e potere così aspirare a un buon matrimonio salvifico. E poi, appunto, frequentarli, avrebbe comportato solo grane, magari anche convocazioni al commissariato per testimoniare sul come e sul perché fosse iniziata l’ennesima rissa condominiale.
Solo problemi, dunque, meglio evitare amicizie
compromettenti.
Ma quei ragazzotti sfrontati non avevano colpa. Sfogavano il malcontento, il reale male di vivere, così, cercando qualcuno o qualcosa su cui riversare la loro insoddisfazione.
Chi nasceva e abitava in quel quartiere sviluppava fin da piccolo un senso di rassegnazione che non gli permetteva di riscattarsi e ambire all’ascensore sociale che sollevava i più deboli e dava la speranza che almeno un pochettino della torta, almeno una briciolina sfuggita al gran banchetto poteva, hai visto mai, toccare anche a loro.
Era una palude col suo giornaliero brulichio senza senso. La sfiducia nella vita degli antenati è come lʼerba cattiva, difficile da estirpare. Tracce dei torti subiti dagli avi erano ravvisabili anche per tre generazioni. Un bagaglio ingombrante, difficile da scaricare, che quasi sempre era l’unica eredità.
E poi, la mancanza di soldi amplificava la malinconia, era senza dubbio un potente agente depressivo. Se poi all’indigenza, si aggiungeva un’ignoranza atavica, viscerale, beh, la sconfitta era inevitabile. Né libri, né pensiero: dove mai cercare almeno la causa e la soluzione del male, o magari, la consolazione, seppur magra, che a questo mondo erano in buona compagnia, perché di uomini nella loro condizione di proletari con poche prospettive, ce ne sono molti, se non la maggioranza del pianeta ?
Povere sì, ma almeno istruite! Le sorelle Drago la pensavano così e fu la loro salvezza.
Alla povertà si poteva rimediare con il lavoro o un buon matrimonio per esempio, ma alla ignoranza c’era poco da fare, quella ti trascinava giù che era una bellezza.
«La speranza va coltivata e va debellata semmai l’accidia e la lascivia.
Ma se la speranza è un balsamo per lenire le ferite che le ingiustizie della vita procurano, la perseveranza è un dono per l’anima errabonda. Certo, tutto questo deve essere sostenuto da una sincera fede in Dio, anche quando si è tentati da dubbi insinuanti e insidiosi, ma se l’anima erra, è. E se errate, fatelo non dimenticando di tornare sempre in voi, accorgendovi della vostra mutevolezza e ne uscirete rafforzati. Il raccoglimento interiore è la cura migliore per le anime.
Impegno e preghiere dunque, e si verrà ricompensati dalla grazia di un futuro migliore».
Che massaggio benefico per i neuroni strapazzati dal cicaleccio quotidiano e dal vociare irritante da un capo all’altro della strada in quel quartiere proletario di periferia! Solo un uomo sapeva parlare così, e di queste cose, e quell’uomo era un parroco e per l’esattezza il parroco della chiesa di Sant’Agostino e si chiamava Vitaliano Bonafede (quando si dice il destino in un nome), ma per tutti era don Vito che oltre a essere un preciso uomo di chiesa era anche un seguace di Agostino il Santo e le sue omelie domenicali erano autentici trattati di filosofia.
Un omone dall’aspetto bonario, con tesissime guance rubiconde nelle quali reticoli di venuzze azzurrine creavano casuali ghirigori e dalle bianchissime mani tenere che parevano di burro Così era don Vito e aveva talmente in simpatia le sorelle Drago, che non fece mai mancare loro un consiglio, una buona parola, un conforto, una raccomandazione Era una vera benedizione avere un sacerdote, uomo sapiente, per amico.
Dato che non apriva mai la bocca per fargli prendere aria, ciò che diceva era sempre considerato sacro, santo e prezioso per la vita delle tre sorelle Drago, alle quali insegnò il distacco dalla bolgia infernale e la presa di distanza dalla massa dannata che potenzialmente poteva fare ombra alle sue protette. Talvolta l’ambiente in cui si nasce può oscurare o distogliere dalle buone pratiche anche l’animo più eletto e quindi era necessaria una costante vigilanza.
A parte la bontà e l’affezione, don Vito era coltissimo, capace di tradurre, senza penare, complicate versioni dal latino all’italiano, e viceversa, e per le tre sorelle, che per i compiti non potevano contare sullʼaiuto di mamma e papà, fu sempre un insostituibile punto di riferimento, anzi una vera fortezza.
Perennemente immerso nei libri e nelle meditazioni filosofiche, curava poco il suo aspetto esteriore. Proteso all’interiorità non si accorgeva che la nera tonaca, lisa ai gomiti e sul didietro, troppo corta, lasciava scoperti calzini spaiati e scarpe che non conoscevano energiche spazzolate con il lucido. La signora Drago scuotendo la testa ma col dolce sorriso di una vera madre di famiglia, lo esortava a scrivere alla curia perché gli mandassero due tonache nuove e della giusta misura. Il fatto era che indossate da don Vito, larghe spalle su un torso pressoché squadrato, di qualsiasi misura gliele avessero mandate, sarebbero sembrate sempre troppo corte, perché lui con la sua camminata veloce si tirava su tutta la stoffa che quasi attratta da una forza centripeta si convogliava verso le ascelle e dunque non bastava mai a coprire per bene quel gigante già brizzolato sebbene fosse ancora giovane. Don Vito, che ci teneva a sembrare più vecchio di quel che era, portava pesanti occhiali dalla montatura demodé perché era convinto che la vetustà dava autorità.
Le tre sorelle Drago lo ascoltavano nelle lunghe prediche, quando tuonava dal pulpito contro l’ignoranza e la pigrizia, la vigliaccheria, l’accidia e l’ignavia ed esortava gli sprovveduti fedeli a non rassegnarsi al proprio stato, a migliorare, a studiare, ad avere dei progetti di sano cambiamento, anche se, molto spesso, comprensibili momenti di sconforto lo avviluppavano al petto quando guardava le facce attonite e gli occhi vacui, distanti, fors’anche sfuggenti degli astanti, e gettando uno sguardo dall’altare verso la navata centrale capiva che le sue parole, ancora echeggianti nell’aria, suonavano incomprensibili e nemiche ed era chiaro che stavano pensando:
"Ma che vuole oggi don Vito? Come si svegliò stamattina? Ma che ci vuole avvelenare la giornata? Almeno si sbrigasse! La nostra vita è quella che è, punto e basta. Chi lascia la vecchia per la nuova, sa quello che lascia ma non sa quello che trova. Gli antichi