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Il complesso della vedova: Il volto oscuro della mente
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Il complesso della vedova: Il volto oscuro della mente
E-book290 pagine4 ore

Il complesso della vedova: Il volto oscuro della mente

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Info su questo ebook

Tante storie di vita vissuta si mescolano a miti e leggende popolari finendo col creare un romanzo che verosimilmente rievocherebbe una storia reale.

Nomi e date di pura fantasia danno vita ad uno scenario che racconta come due destini apparentemente distanti finiscano inesorabilmente con l’unirsi per creare un qualcosa di unico e speciale.Così non è più l’idea degli anni vissuti a far grandi le persone, bensì la vita stessa con le gioie e i dolori che solo ed esclusivamente essa è in grado di donare.

Il tunnel della depressione, la solitudine, le difficoltà del vivere quotidiano, il lasciare la propria terra nella speranza di un futuro migliore, tutti argomenti attualissimi che però nascondono, ciascuno per sé, un passato ricco di eventi e tradizioni, di dolci ricordi e traumi che finiscono col far da cornice ad un racconto in cui molti potranno ritrovarsi.
LinguaItaliano
Data di uscita21 gen 2015
ISBN9788882433529
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    Anteprima del libro

    Il complesso della vedova - Stefania Rinaldi

    Stefania Rinaldi

    Il complesso

    della vedova

    Il volto oscuro della mente

    Edizioni Lussografica

    © Copyright Dicembre 2014

    Edizioni Lussografica

    Caltanissetta

    Tutti i diritti sono riservati

    ISBN 978-88-8243-352-9

    Ogni riferimento a persone, cose o luoghi è puramente casuale.

    Tutti i diritti di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi microfilm e copie fotostatiche), sono riservati per tutti i Paesi e concessi solo con autorizzazione autografa dell'editore.

    A voi, Gabriele e Davide

    che siete per me

    aria, luce, vita

    PREFAZIONE

    Q

    uando mi è stato chiesto di scrivere la prefazione di questo libro, ho provato subito tanta gioia e tanta gratitudine allo stesso tempo; innanzitutto ho avuto il privilegio di conoscere la giovane autrice che, anche se alla prima pubblicazione, ha dato prova della sua grande capacità di emozionare attraverso questo romanzo semplice e accessibile a tutti.

    Ho letto il testo in un sol boccone, mi ha subito rapito, emozionato e mi ha fatto profondamente riflettere. La protagonista è Barbara, un’anziana donna ottantenne, ben distinta e curata che nella sua lunga vita ha conosciuto sentimenti contrastanti tra loro: la gioia immensa di essere figlia, madre e moglie ma anche lo sprofondare in un infinito stato di sconforto e solitudine vissuto, per sua scelta, in una casa di riposo.

    E poi l’incontro con Giulia, una dolce infermiera che, nonostante la sua giovanissima età porta dentro di sé i segni di tanto dolore, condizionerà in modo indelebile la vita di entrambe.

    Nel racconto affiora l’antitesi tra il dramma profondo che caratterizza la loro vita e la voglia di amare, vivere e di andare avanti.

    Affascina il parallelismo che emerge tra le due generazioni a confronto, un’ottantenne e una ventiquattrenne che hanno entrambe vissuto, per certi versi, lo stesso destino.

    L’opera esalta alcune sfaccettature della vita come l’amore, la felicità, la spensieratezza per poi di colpo sprofondare nel dolore, nella cattiveria e nell’egoismo, scaturito dal troppo affetto; tuttavia prevale la voglia di rialzarsi, chiedere perdono, aiuto e di avere stima in chi ti sta vicino riscoprendo il piacere di tornare a vivere.

    Vincenzo Di Maria

    CAPITOLO PRIMO

    Q

    uel giovedì era solo un altro dei tanti giorni che Barbara trascorreva all’interno della casa di riposo; altre interminabili ventiquattro ore scandite dalla solita routine: risveglio, colazione, pastiglie e poi attesa, ore ed ore di interminabile attesa davanti a quella finestra che, però, non faceva mai anche solo intravedere uno spiraglio di novità.

    Il viale alberato sul quale si affacciava la finestra della sua piccola stanza era sempre molto tranquillo; ogni tanto passava qualche auto e al mattino generalmente si sentiva il vociare di un gruppetto di ragazzini che percorreva quella strada per giungere alla fermata dell’autobus che li avrebbe condotti a scuola.

    Chissà poi cosa si raccontavano, pensava tra sé e sé Barbara quando li udiva, chissà se immaginavano cosa li attendesse, quale significato potesse avere la vita per loro ancora così saldamente trincerati nelle loro favole da bambini, quelle piene di principi ed eroi, di amore romantico ed ingenuità, quelle in cui non ci sono preoccupazioni, responsabilità, solitudine, angoscia.

    «Devono soltanto arrivare a casuccia e i loro genitori gli hanno già preparato il pranzo, gli hanno pulito la stanzetta, hanno preso appuntamento con l’insegnante che il pomeriggio privatamente gli farà fare i compiti e poi? Beh, diamine! Gli comprano tutto ciò che desiderano, li riempiono di coccole, gli pagano persino le tasse e li portano in giro per il mondo… Certo, se non sono spensierati loro chi altro dovrebbe esserlo?»; erano queste le parole che Barbara ogni mattina si ripeteva davanti ai vetri di quella finestra per poi scoppiare in un pianto quasi impercettibile, così silenzioso e sommesso da mostrare una grande dignità ed anche tanta riservatezza, quasi come a volere proteggere il mondo circostante da quell’amarezza che giorno dopo giorno feriva mortalmente ogni piccola parte del suo cuore.

    Non aveva tanti amici Barbara, anzi, non ne aveva per niente.

    Nessuno mai telefonava per sapere come stesse, per non parlare poi della porta della sua stanza che rimaneva sempre chiusa perché nessuno mai era andato a trovarla eccetto tutti quegli infermieri che tre o quattro volte al giorno interrompevano i suoi pensieri per farle prendere le pastiglie o per misurarle la pressione.

    Gli altri ospiti della casa di riposo si erano sempre chiesti chi fosse quella donna, cosa celasse il suo silenzio, quel suo vivere in disparte, quel suo detestare la compagnia altrui.

    Era una donna inaccessibile Barbara, così austera e severa, immobile davanti quella finestra che la proiettava in un mondo tutto suo fatto di pensieri, tormenti, dolori, con quegli occhi di ghiaccio sempre ben fissi sul vialetto ricoperto di foglie, su quella strada sempre così deserta, su quel cielo grigio simbolo di una Milano che, ormai, non aveva più un posto per lei.

    I folti capelli grigi sempre ben pettinati venivano accuratamente raccolti in uno chignon da quelle mani che Barbara ogni mattina riempiva di splendidi anelli; amava l’eleganza e non mancava mai di adornare quel collo ormai anziano con lunghi fili di perle che sembravano brillare di luce propria. Le sue scarpe, tutte rigorosamente in vera pelle, avevano meravigliosi tacchi a spillo e i suoi tailleurs di Chanel parlavano di un estremo gusto per la moda, un gusto che solo chi ha avuto bellezza e benessere avrebbe potuto assecondare.

    Ogni ruga del suo viso sembrava celare una storia che a nessuno era dato conoscere all’interno della casa di riposo; tutti gli altri ormai la additavano come la scorbutica, l’asociale, la megera, la strega e a Barbara questo andava bene perché era stata proprio lei a voler estromettere tutto il mondo dalla sua vita per vivere quegli ultimi anni cercando di scavare nel suo passato per trovare una ragione a tutto il suo dolore, per capire il perché dei suoi comportamenti, per trovare un perdono che si accorse di desiderare soltanto al tramonto della sua vita.

    Improvvisamente qualcuno bussò alla sua porta distogliendola da quei cupi pensieri e facendola sobbalzare dallo spavento.

    «Signora Grandet il pranzo sta per essere servito in sala mensa, sono venuta a portarle la sua pastiglia».

    «Brutta infermiera impertinente, ma è modo questo di far sobbalzare la gente? Ma come si permette? Sono una signora di una certa età io, il mio cuore non può reggere simili attentati!».

    «Oh addirittura parliamo di attentati signora mia, non le sembra di esagerare un po’? Può capitare a tutti di essere in sovrappensiero no? Non vorrà mica farmi processare per questo?» chiese l’infermiera ridacchiando tra sé e sé ormai rassegnata a quella scenata quotidiana.

    «Lei viene qui al mattino solo per rubare lo stipendio lo sa, vero? Dove sta la sua professionalità? Io pago profumatamente per avere personale competente e lei?» disse Barbara con volto scuro e tono arcigno.

    «Si signora Grandet lo so, me lo ha chiesto ieri e poi l’altro ieri e l’altro ieri ancora e la settimana scorsa e due settimane fa, il mese passato, insomma me lo chiede tutti i giorni da quando mi hanno assegnato la sua stanza, ma sono affezionata ai miei nonnetti e quindi non ci faccio caso, adesso da brava metta le scarpe e scendiamo giù per pranzare tutti insieme».

    «Ma nonnetti a chi? Lei non è mica mia nipote sa? E non si permetta di inventare parentele inesistenti perché se fosse stata mia nipote di certo saprebbe come comportarsi adesso. E poi perché mi chiede di scendere? Lo sa che è da mesi che ho chiesto al direttore di consumare il pranzo in camera mia, cos’è forse la sua imbecillità le ha consumato il cervello? Non riesce a capire che un ordine del direttore per lei deve essere assolutamente cogente?».

    La povera infermiera, ormai abituata ai modi della signora Grandet, provò a far finta di nulla e la incalzò: «Comprendo benissimo gli ordini del direttore e se oggi sono qui a chiederle di scendere in mensa è solo perché mi preoccupo per lei; la solitudine non fa bene al suo cuore, stando rinchiusa qui dentro finirà con l’abbrutirsi e rifiuterà ogni forma di contatto con l’esterno, questo lo capisce vero? Non mi sembra poi tanto sprovveduta!».

    Ma quelle parole non intaccarono minimamente l’idea di Barbara che rimase sempre fissa davanti la sua finestra con gli occhi concentrati a scrutare quel viale grigio ricolmo di foglie gialle.

    «Oh! Basta mi arrendo, con lei non si può proprio ragionare. Mi sa che hanno ragione tutti gli altri a chiamarla strega. Le farò portare il pranzo in camera».

    E così, parlottando e sbuffando l’infermiera andò via inghiottita dalla penombra del lungo corridoio che portava all’ascensore.

    Più volte il direttore della casa di riposo era stato costretto ad accogliere le rimostranze delle infermiere che si occupavano della signora Grandet e, costatandone la ragionevolezza, aveva fatto in modo di assegnarne delle nuove sperando che da un giorno all’altro i parenti dell’anziana donna si facessero vivi per chiedere loro il perché di tutta questa aggressività che ben poco si addiceva ad una donna di quell’età e di quel rango, considerando che Barbara era piuttosto benestante e provvedeva da sé al pagamento del suo alloggio, senza però dar spiegazioni a nessuno.

    Una donna di pietra, apparentemente senza sentimenti, senza un passato, senza un presente e senza un futuro, era questo Barbara per chi aveva avuto a che fare con lei negli ultimi otto anni.

    Le infermiere che la direzione le assegnava erano per lo più delle signore sulla cinquantina, donne di esperienza che avevano ormai più di trent’anni di carriera alle spalle ed erano state formate appositamente per occuparsi di casi particolari come il suo, ma niente da fare, nonostante l’esperienza e la professionalità nessuna di loro riusciva ad occuparsene senza arrivare a detestarla nell’arco di qualche mese, desiderando di non vederla mai più.

    CAPITOLO SECONDO

    E

    rano ormai le 13:30 quando il cameriere bussò alla porta della stanza. «Avanti!» rispose Barbara, «venga pure avanti giovanotto altrimenti se lascia passare ancora del tempo mi toccherà mangiare una poltiglia fredda ed insapore come ormai accade da giorni. Ma sa, mi ci sto abituando, so perfettamente che la vostra organizzazione fa pena».

    Il cameriere stava per risponderle a tono quando sulla soglia della porta spuntò il direttore.

    «Buongiorno signora Grandet, mi perdonerà se sono passato per un saluto giusto a quest’ora ma stavo per andare a pranzo e una collaboratrice mi ha riferito che oggi non è di buon umore. Sentiamo, cosa posso fare per lei?».

    A quel punto il cameriere rosso dalla rabbia, senza proferir parola, adagiò il vassoio sulla scrivania e voltando le spalle abbandonò la stanza salutando con un fil di voce.

    «Signor direttore io ho le mie necessità e le mie abitudini. Se chiedo di pranzare nella mia camera esigo che mi sia accordato, se chiedo di essere lasciata in pace voglio che nessuno mi disturbi e…» alzando il coperchio che copriva il piatto di minestra continuò «… e cavolo, vorrei mangiar qualcosa di commestibile!».

    «Mia cara signora Grandet, lei sa benissimo che la nostra struttura ha da sempre cercato di esaudirla in ogni suo desiderio, nonostante, la prego, mi consenta di farglielo notare, lei non si sia mai mostrata molto predisposta ad accettare gli sforzi che tutto il nostro personale compie quotidianamente perché il suo soggiorno qui da noi sia gradevole. Per quanto riguarda il cibo, beh, mia cara signora sa benissimo che il medico che l’ha visitata ci ha pregato di farle seguire una dieta specifica adatta al suo problema, sa bene che alla sua età la pressione va tenuta sotto controllo, non vorrà mica fare impazzire il suo cuore!».

    «Ahhh al diavolo il medico, al diavolo la dieta, ma insomma è una congiura!».

    «Signora Grandet, stamane l’infermiera è venuta nel mio ufficio per comunicarmi che non ha intenzione di continuare ad occuparsi di lei, esattamente come le ultime dieci che in questi otto anni l’hanno accudita; io comprendo le necessità di tutti qui dentro però è giusto che anche i pazienti collaborino affinché questo luogo prosegua il suo cammino nel migliore dei modi, per questo sono venuto a comunicarle che da oggi pomeriggio una nuova collaboratrice verrà ad occuparsi di lei, la pregherei di essere più… affabile».

    «Certo! io devo essere affabile mentre gli altri devono trattarmi come un idiota vero? Ma io…» Il direttore le lanciò un’occhiataccia «… ma io… uff… sarò affabile e mi comporterò bene, contento signor direttore?».

    «Ah era questo che volevo sentire dalla mia adorata signora Grandet! Adesso le lascio consumare il suo ottimo pranzetto, tornerò presto a trovarla. Arrivederci».

    «Ottimo? Ma quale ott… mmm certo caro direttore, allora a presto. Arrivederci» rispose sarcasticamente.

    Il direttore uscì dalla stanza lasciandosi alle spalle la porta ben chiusa e Barbara nel silenzio della sua consueta solitudine.

    Aveva da poco svuotato il piatto e gli occhi un po’ stanchi si aprivano per poi richiudersi dopo qualche secondo; diede giusto il tempo al cameriere di salire a ritirare il vassoio per poi piombare in un sonno profondo.

    Una bambina correva felice e spensierata su un immenso manto erboso sotto un sole cocente; a tratti, sulla scia del vento che le attraversava quegli splendidi capelli corvini, si sentiva così leggera da pensare di essere un’aquila, reale e maestosa, che volando sul mondo intero insegnava agli uomini cosa fosse la libertà.

    Raccoglieva fasci infiniti di margherite, i suoi fiori preferiti, e voltandosi riusciva in lontananza ad intravedere il ballo sinuoso delle spighe che, in attesa di essere raccolte, danzavano al ritmo del vento dando vita ad uno spettacolo unico ed irripetibile.

    Correva, correva sempre più forte su quelle distese fresche di rugiada, imbevute dell’odore di quella terra, la sua terra, per poi fermarsi di botto; davanti aveva l’immensità del mare che si sposava all’orizzonte con l’azzurro del cielo e una voce calda risuonava nel tepore di quell’aria mediterranea «Barbara, gioia mia, il pranzo è pronto, corri che papà è arrivato, ti ha portato il cioccolato».

    La bambina felice si voltò per tornare indietro ma ad un certo punto si sentì mancare la terra sotto ai piedi, il mare azzurro divenne nero e un vortice la inghiottì senza pietà.

    Tra le lacrime provò ad urlare «Mamma, mamma, papà, aiuto, aiutatemi, vi prego, vi supplico, aiuto» ma non arrivava nessuno a salvarla e singhiozzando si rassegnò a quell’atroce destino che lucidamente la portava via tra le spire delle tenebre.

    «Signora, signora Grandet, la prego mi risponda, non mi faccia preoccupare, la supplico».

    Sudata e terrorizzata la signora Grandet si rigirava tra le candide lenzuola del suo letto, riuscendo a malapena ad aprire gli occhi.

    «Signora Grandet si tranquillizzi è stato solo un brutto sogno, adesso passerà tutto, le ho ordinato una camomilla calda. Giusto qualche sorso e vedrà che tutto si sistemerà».

    Con gli occhi ancora velati per il sonno, Barbara ebbe giusto la forza di dire «Chi è lei? Cosa vuole da me?».

    «Oh signora Grandet, ha perfettamente ragione, con tutto questo trambusto non mi sono ancora presentata, mi chiamo Giulia, Giulia Biassi e sono la sua nuova infermiera. Contentissima di far la sua conoscenza».

    Barbara la fissò per un attimo e la figura che in quel momento le si materializzava davanti agli occhi era decisamente diversa da tutte quelle che sino ad allora avevano interrotto la routine delle sue giornate.

    Giulia era una giovane donna di appena ventiquattro anni; era di media statura, molto magra, senza un filo di seno o di fianchi. Le sue mani minute e lisce raccontavano la storia di una persona che non aveva mai fatto dei lavori pesanti nella vita, ma che si era probabilmente dedicata a sfogliare le pagine leggere e profumate di qualche libro. I suoi occhi castani erano grandi e innocenti e un color rosa pallido le incorniciava quel viso da bambina.

    «Così tu sei la vittima sacrificale… ehm…» Barbara tossì improvvisamente ricordando le parole del direttore «… volevo appunto dire così lei è la mia nuova infermiera, ha detto Giulia, vero?».

    Balzando sull’attenti come un soldato davanti al generale la ragazza rispose a viva voce «Sissignora! Infermiera Giulia al suo servizio!».

    Invece di divorarla con le sue consuete sgradevoli parole, Barbara ebbe quasi un sussulto alla vista di quella ragazza, dopo otto anni di infermiere professioniste le assegnavano una novellina, cos’è? hanno finito la grana? pensò tra sé e sé, ma non disse nulla conscia del fatto che quella ragazza non le suscitava la rabbia che tutte le altre erano riuscite a farle ardere in petto.

    «Allora, mia cara signora Grandet, io mi sono presentata, perché adesso non mi dice qualcosa di lei? Qui nessuno sa nulla, non le piace raccontarsi immagino, ma sono certa che diventeremo grandi amiche».

    «Ehm, signorina Gloria o come diavolo si chiama…».

    «Giulia, signora Grandet, il mio nome è Giulia».

    «Appunto, Giulia, quello che ho detto io!».

    L’infermiera le lanciò uno sguardo interrogativo.

    «Io ho pagato per avere un’infermiera non un confessore altrimenti sarei già in chiesa non crede?».

    «Oh signora Grandet, la prego, mi perdoni, non volevo certo apparire invadente, era giusto così, per rompere il ghiaccio, ma la prego di non fraintendermi, in realtà io sono una persona molto discreta…» Giulia si interruppe abbassando lo sguardo e arrossendo un po’ «… e poi questa è la prima vera esperienza di lavoro per me».

    Davanti a quella scena la signora Grandet avvertì una strana sensazione alla quale però non riusciva a dare un nome. Forse quella ragazza le stava suscitando sentimenti che ormai da decenni non riusciva a provare; forse in quel cuore arido e malato si stava riaccendendo una luce.

    Chissà, forse era tenerezza quella che sentiva di provare.

    Poi però, dopo quei secondi di assenza assorta nei suoi dilemmi interiori, Barbara si riebbe e pensò, macché tenerezza e tenerezza, non scherziamo!, e allora rispose «Il fatto che tu… ehm… lei , volevo dire, sia alle prime armi non farà sì che io sia disposta a chiudere un occhio. Mi attendo ugualmente un servizio impeccabile e la massima disponibilità, per diamine! Ciò per cui ho pagato e continuo mio malgrado a pagare, insomma!».

    Giulia, visibilmente turbata da quell’atteggiamento apparentemente tanto ostile a cui non era abituata, annuì e riponendo sul comodino la pastiglia e la camomilla che le aveva ordinato, la salutò educatamente ricordandole che sarebbe tornata per la medicina del mattino seguente.

    Barbara rimase in silenzio, ma inaspettatamente, non appena Giulia chiuse la porta, rispose con un «A domani e che Dio ce la mandi buona!».

    Era ormai sera e il giovedì volgeva al termine.

    Barbara rimaneva incollata alla finestra.

    L’autunno stava ormai lasciando spazio all’inverno e faceva freddo, tanto freddo, eppure due bambini avvolti nelle loro sciarpe pesanti scorrazzavano sul vialetto della casa di riposo.

    Dalla macchina parcheggiata al bordo della strada si poteva udire una voce femminile «Bambini non fate i monelli se no non vi porto dal nonno», e a quelle parole quei due birbanti si ricomponevano quasi fossero adulti ormai consumati.

    Il campanello suona, la famigliola entra e la frase che si ode nitidamente è sempre la stessa - nonno, nonno ci manchi - e la risposta è ovvia - anche voi piccoli miei mi mancate tanto, vi amo - bla, bla, bla pensò Barbara avvolta dal silenzio assordante della sua stanza.

    Poi all'improvviso un sussulto e una lacrima le rigò il volto; un pugno sbattuto sulla scrivania e i denti stretti «Ma quale nonno e nonno, diamine! Ma non si rende conto che lo hanno rinchiuso qui dentro perché non gliene frega niente di lui? Che è vecchio e malato ed è solo un peso per la sua famiglia? Che i figli, i generi e le nuore vogliono solo fottergli tutto il patrimonio? Ma perché nessuno si rende conto della realtà in questo covo di imbecilli?».

    Anche per quella sera avrebbe rifiutato la cena, si sentiva lo stomaco chiuso e sarebbe andata a letto preda delle sue solite crisi di nervi, ma non avrebbe chiesto aiuto perché lei era sola, sola nella sua stanza, sola in quella Milano che non le apparteneva, sola in tutto il mondo.

    Quella notte riuscì stranamente a riposare qualche ora in più, era come sempre adirata col mondo intero, ma una strana sensazione di pace, seppur momentanea, sembrava allietarle l’animo.

    La scena dei nipoti che corrono tra le braccia del nonno era ormai svanita dalla sua mente e avvertiva un insolito, profondo desiderio di non attendere il suono della sveglia, ma di correre davanti alla sua finestra per poter vedere l’alba.

    E così fu.

    La luce nascente le illuminò il volto, ma quel sole fece appena in tempo a far capolino che un mix di nuvole grigie e nebbia inghiottirono la città.

    «Buongiorno Milano! Non ti smentisci proprio mai vero?» borbottò un po’ seccata.

    Giusto il tempo di indossare i suoi vestiti appena usciti dalla lavanderia che qualcuno bussò alla porta.

    «Signora Grandet, sono Giulia l’infermiera, se non la disturbo posso entrare?».

    Quasi colpita dall’educazione della richiesta della giovane assistente, cosa che nelle infermiere che si erano precedentemente occupate di lei notava molto raramente, rispose «Venga pure avanti».

    Giulia, preventivamente avvertita, per non dire impaurita, dalle parole dei colleghi che ben conoscevano quell’ospite particolarmente difficile, rimase quasi allibita per l’improvvisa manifestazione di cortesia di quella donna e, porgendole la pastiglia pensò tra sé e sé beh, il buon giorno si vede dal mattino no? e si rasserenò un po’.

    «Allora mia cara signora Grandet come si sente oggi? Ha avvertito un po’ di tachicardia durante la notte oppure è riuscita a riposare serenamente?».

    «Beh, ovviamente io parlo di queste cose solo con il mio medico…» la ragazza un po’ rassegnata abbassò lo sguardo e Barbara inaspettatamente continuò «ma dato che lei tutto sommato non fa schifo come le precedenti infermiere

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