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Eduard Epstein
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E-book233 pagine3 ore

Eduard Epstein

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Info su questo ebook

Germania, 1949. Eduard Epstein, neo laureato in matematica, è un giovane che cerca la sua strada tra le tante difficoltà di una faticosa ricostruzione. Intelligente e appassionato, anche se apparentemente introverso e schivo, scopre nell’anziano Padre Floriano, priore del convento, un amico fidato, un confidente e un compagno prezioso per le loro lunghe e spesso ironiche dispute filosofiche. Proprio grazie a quest’ultimo, Eduard riesce ad ottenere un importante ruolo come insegnante in una prestigiosa scuola, dove è direttrice l’enigmatica Professoressa Emelania Müller. Quella che si presenta come un’opportunità lavorativa, si trasformerà per Eduard in uno slancio vitale unico e sorprendente. Il Destino, tuttavia, non gira mai il suo temibile sguardo. Con questo suo nuovo romanzo, Fabrizio Voltolini ci regala pagine intense e delicate, una storia quasi d’altri tempi che vive e vibra nel racconto per l’appassionata caratterizzazione dei personaggi, splendidi ritratti umani capaci di rivelarci il loro lato più nascosto e spesso drammatico, in tutta la loro fragilità.
LinguaItaliano
Data di uscita25 giu 2016
ISBN9788856778335
Eduard Epstein

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    Anteprima del libro

    Eduard Epstein - Voltolini Fabrizio

    Albatros

    Nuove Voci

    Ebook

    © 2016 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma

    www.gruppoalbatrosilfilo.it

    ISBN 978-88-567-7833-5

    I edizione elettronica giugno 2016

    Nota di Iula Lazzari, autrice della copertina:

    Il Tangram è un antico gioco cinese, ottenuto scomponendo un quadrato in sette parti, conosciute come le sette pietre della saggezza. Si diceva che la sua padronanza fosse la chiave per ottenere sapienza e talento. La composizione racconta di una figura anziana che dona conoscenza ad una figura più giovane, raccogliendola dal libro in una coppa, dando vita all’albero che proietta una sagoma spezzata verso il giovane, trafiggendone il capo. Le due figure sono rappresentate su livelli leggermente diversi: il frate, un po’ più in alto, sta ad indicare maggiore saggezza rispetto al più giovane.

    A Flavio Casali,

    Luca Lucini,

    Matteo Falloni

    e Mario S. Pietrodarchi

    "Mi guardai le scarpe

    e mi resi conto

    che effettivamente erano rotte"

    (Pablo Neruda, Confesso che ho vissuto)

    Capitolo Primo

    Il sole è accecante nelle mattinate di primavera qui a Grausamnein. Fende le persiane, si spacca obliquo nei vicoli umidi e mai piani, esplode sulle acque del lago di Anschau. Eppure la gente di qui sembra accorgersi improvvisamente che l’inverno è finito, che può lasciare nell’armadio i pesanti cappotti di lana grezza e le giacche di cuoio. La buona stagione viene con discrezione, si fa percepire con segnali minimi, indecifrabili ai più: la pioggia inaspettata, breve e violenta, il vento nervoso e cangiante come un adolescente e il verde acceso delle colline fino a ieri diafane di nebbia o sfumate in colori usuali al freddo, al vapore che il respiro crea intorno alle nari e alle labbra screpolate. E poi gli odori, quella fragranza vegetale che torna nell’aria più tiepida a sorprendere l’attesa di giorni più luminosi e assolati.

    Sui brevi orizzonti che si aprono tra le case decrepite, stando ad una qualsiasi finestra, il lago appare acuto, insinuato a nord tra montagne a strapiombo, quasi primordiale. A sud invece, come se Dio si fosse repentinamente pentito di tanta violenta bellezza, i declivi si fanno più dolci, lasciando ampi spazi alle campagne e ai borghi, talvolta persino all’ulivo.

    Gabbiani, germani e cigni si muovono di buon’ora in cerca di cibo. Li si possono vedere numerosi, a pochi metri dalla riva, affondare i loro becchi nell’acqua. Nessuno sa da dove vengano, dove vadano a dormire, sembrano spuntare con il sole, fare parte dell’alba, necessari come la luce dell’est. I vecchi pescatori li conoscono. Al ritorno dalla battuta notturna, gettano in acqua interiora, teste di pesce e residui di esche. Gli uccelli vi si buttano famelici, soprattutto i gabbiani predatori, poi riprendono il volo circolare, sopra le barche quasi in secca. Uno dei più anziani tra i pochi pescatori rimasti dice che questo è il loro modo di ringraziare, poi raspa in gola e sputa in acqua, come se si vergognasse di aver ceduto i propri umori alla fantasia, e presto si affaccenda tra reti e casse di legno fradicio che senza cura espone sui pietroni dello sconquassato lungolago, aspettando che qualche massaia si decida a comperare. Gente che abita qui a Grausamnein ne è rimasta davvero poca. Umili anime, quasi tutti anziani, che hanno deciso di restare per abitudine, forse per rallentare il fluire del tempo sperando di rimandare il giorno del loro giudizio, nascosti come animali predati, all’occhio cinico di Dio. Si contano in tutto due forni per il pane e una drogheria, gestita dalla signora Tzildian, una donna grassa e rubizza dalla voce querula che, si dice, sia stata l’amica del borgomastro, l’unica autorità del posto, perché qui non c’è nemmeno uno speziale. Poi qualche negozietto che vende un po’ di tutto, dalle mutande ai chiodi, la locanda Conca d’oro, il funereo municipio e una birreria di quart’ordine, dove ogni sera si ritrovano gli uomini del paese e i vecchi, che bevono consapevoli di aver rubato un giorno in più alla sorte ria. La domenica alla messa vanno quasi tutti, alla cappella dei frati cappuccini, tutti religiosi di origine italiana, attaccata al convento, solo due miglia a nord. Nessuno vuole lasciare conti in sospeso con il Padreterno e magari molla qualche centesimo di elemosina, per riscattare le bestemmie della settimana.

    Eduard Epstein a messa non era mai andato. Lo ricordano ancora qui in paese. Un bel giovane, alto e con la faccia pulita. Uno dei pochi che aveva studiato ed aveva deciso di restare per qualche tempo ancora a Grausamnein, dopo la laurea in matematica pura, per meditare, diceva lui ridendo, sicuro com’era che i compaesani non avrebbero capito, anzi, qualcuno lo scherniva dandogli del fannullone. Epstein non faceva una gran vita, come tutti gli altri del resto, a soli quattro anni dalla fine della seconda guerra mondiale. Stava in affitto in due stanze umide della signora Tzildian, in un vicolo stretto che s’arrampicava verso Heilig Michael, la frazione più estrema del borgo: al numero civico sette di Stuart Gasse. Si arrangiava insegnando per alcuni periodi dell’anno nelle scuole superiori del capoluogo, a trenta miglia, quando lo chiamavano, e non accadeva di frequente. Però riusciva a pagare la pigione e a comprarsi senza far debiti il carbone per alimentare l’unica stufa che aveva a disposizione. Salutava tutti nel paese, ma non sembrava avesse amici, troppo diverso, sussurravano le pettegole nei negozi e, volentieri, si lasciavano andare a colorite supposizioni circa la sua reale identità di uomo solitario dedito soltanto, almeno così appariva, ad accanite letture. Non che a loro importasse molto, ma il vederlo rientrare dalla città con l’unica corriera delle sei di sera, con due o tre libri sotto il braccio che alla partenza non aveva, le riempiva di curiosità e diffidente rispetto. A quell’età egli avrebbe dovuto cercarsi una fidanzata, non bazzicare per librerie.

    «E poi, secondo me, nemmeno li legge» insinuava la signora Hoffner riponendo gli spiccioli del resto nel borsellino «Non vedete che non porta gli occhiali? Quelli che stanno tanto tempo sui libri sono tutti miopi e tristi, lui invece sorride sempre, come un ebete!».

    «Buon per lui!» apprezzava l’altra donnetta, la signorina Holtzl, una zitella petulante che evitava con cura di compiere gli anni «Da quando ha perso il padre, la primavera scorsa, sta sempre tappato in casa, esce solo a fare un po’ di spesa. Lasci almeno che se la rida, povero diavolo!» e aggiungeva come borbottando tra sé «Chissà chi gli lava i panni».

    «Su, su!» cercava di arginare i discorsi la Tzildian pesando crauti «State parlando di un mio inquilino, una brava persona sapete?». Poi lasciava la merce e si chinava sul bancone consunto, verso le clienti. Era il segno che stava per spifferare un gran segreto, a tutte. «Non sono mica scema io. Ho la chiave delle sue stanze e quando lui non c’è...» e si rimetteva ad incartare, sicura di aver lasciato in trepida attesa le donnette. Poi si chinava ancora e, con gli occhi vividi e la voce sottile, diceva «Tiene tutto pulito e in grande ordine. Secondo me lì c’è lo zampino di qualche donna, altro che studioso! Oddio, di libri ce ne sono dappertutto, e una quantità di carte scritte sul tavolo, piene di numeri e lettere di un alfabeto che non conosco». Scuoteva la testa e concludeva «Quello lì è un po’ matto, ve lo dico io. Ma paga sempre al primo del mese e non fa scandali in casa mia».

    La signora Tzildian parlava sempre con una superiorità riconosciuta da tutte le clienti, un po’ perché, stando sulla pedana di legno dietro il banco, risultava più alta delle presenti, un po’ perché quella vecchia e mai verificata storia del borgomastro la circondava dell’alone di chi, in qualche modo, ha visitato le stanze dei potenti, e da questi è stata accolta e desiderata.

    Anche Epstein era cliente. Comprava talvolta cetrioli e qualche fetta di carne salata.

    «Allora, cosa festeggiamo?» insinuava la bottegaia con un sorriso che a lui pareva ripugnante, mentre cercava di carpirgli almeno un’emozione.

    «Il mio buon appetito!» rispondeva il giovane allungandole i soldi contatati. E se ne andava con naturalezza, salutando cortesemente.

    Una mattina Epstein fu visto pedalare di buon’ora, sulla sua vecchia e cigolante bicicletta nera, verso il convento dei frati cappuccini. Pedalava con energia sullo stradone deserto che usciva da Grausamnein verso nord. Incrociò soltanto il garzone del fornaio e alcuni operai che andavano al lavoro. Eduard arrivò ansante, ma di ottimo umore al grande e pesante portone di legno del convento. Si aggiustò la giacca e i pantaloni che aveva avuto cura di rimboccare affinché non si impigliassero nella catena, sentendosi appena rabbrividire dal distaccato ed imponete potere di quei battenti. Parevano significare una solida e inappellabile divisione dalle faccende comuni e mortali. Chiunque poteva tirare la catenella della campana o semplicemente bussare. Padre Serafino, il frate portinaio, avrebbe aperto un minuscolo sportello nel massiccio portale, per spiare il visitatore, domandare le ragioni della richiesta, valutare l’opportunità e forse, quasi mai, aprire, affinché la persona potesse trapassare dal mondo illusorio del peccato a quello incontaminato della meditazione e delle opere di bene, tanto vicino a Dio che soltanto la leggenda di Frate Francesco lo rendeva meno accecante e più calato nella miseria mondana. Sotto al corto e austero porticato d’ingresso, dormiva a terra, vicino ad un sedile di pietra, un giovane mendicante, evidentemente gobbo e di pelo rosso. Stava rannicchiato come un animale su di una coperta sudicia, con il braccio sinistro ripiegato sotto al capo, così da fargli da guanciale. L’espressione del volto, anche nel sonno, appariva irosa, ancor più per la barba ispida e lunga che lo segnava come un Cristo di scuola minore, condannato a morte violenta dalla Storia. Epstein lo guardò rantolare, osservò le sue mani strette a pugno coperte di pelle ingiallita e percorse da vene gonfie e bluastre, poi i poveri abiti, luridi anch’essi, nauseanti d’orina. Non riuscì ad avvertire la pietà che avrebbe desiderato, percepì invece un acuto senso di repulsione per quel coagulo di rabbiosa miseria che di colpo gli si era concretizzato nello sguardo, così distante dal suo raffinato pensare, dalla luce sovrana e penetrante di quel mattino.

    Tirò con violenza, quasi per fuggire, il meccanismo di chiamata. Poco dopo udì il passo indolente e trascinato dei sandali del frate portinaio. Padre Serafino aprì il piccolo sportello ed Epstein vide soltanto due occhi scuri, strizzati in uno sguardo miope.

    «Chi è? Che vuole?» domandò bruscamente.

    Eduard pensò che avrebbe potuto centrare con uno sputo la piccola apertura che lo separava da quel vigliacco seminascosto, girare i tacchi e filarsela ridendo fino in paese, per farsi una birra con quegli altri infelici, per la prima volta in vita sua e mai così di buon mattino. Invece sorrise di cordialità insincera e disse: «Sono Eduard Epstein, ho scritto al padre priore il mese scorso, ha accettato di ricevermi questa mattina, ho un appuntamento... devo aver qui con me la lettera di risposta come credenziale» farfugliò palpandosi le tasche, impreparato a dare giustificazioni.

    «Sì, sì, il matematico. Ho capito» rispose acido richiudendo lo sportello. Eduard udì scorrere un grosso catenaccio, poi uno più piccolo e infine scattare una serratura a molte mandate. Il portone si aprì e finalmente poté vedere l’intera figura del frate. Epstein constatò con sorpresa che questi era un uomo imponente. I tratti del viso erano di inaspettata nobiltà, la barba ben curata gli conferiva un aspetto austero, da condottiero medioevale.

    «Il frate priore la sta aspettando nel refettorio. Mi segua, le faccio strada». Padre Serafino si avviò per il porticato del chiostro, zoppicava leggermente e trascinava i piedi, pareva malato alle anche, perché ad ogni passo tutto il corpo dondolava penosamente, come un pupazzo. Passarono davanti a stemmi gentilizi dipinti o in rilievo, lapidi di tombe di vescovi illustri. Crani ed ossa di pietra testimoniavano sinistramente la levità spirituale ormai affrancata dall’ingombro della carne, presumibilmente annichilita in povere casse di legno chiaro. Il chiostro appariva piccolo, ma ben proporzionato, leggero di colonne sottili ed eleganti, ognuna con un capitello diversamente scolpito. Gli archi a tutto sesto reggevano la velatura incrociata dei soffitti, anch’essi ornati con stemmi nobiliari e scudi di guerra. Al centro del giardino, una piccola fontana circolare limitata da pietre tufacee, zampillava acqua a spruzzi irregolari, sul muschio che a tratti ineguali ricopriva le pietre. Per l’intero perimetro si aprivano ad intervalli regolari alcune porte troppo basse constatò Epstein in cuor suo, che costringevano ad un inchino chiunque vi passasse. Accanto al legno scuro del battente di ognuna, una piccola targa in pietra grigia recava incise a caratteri minuscoli parole o nomi che il visitatore passando non riusciva a leggere. Forse nomi di benefattori o moniti latini, a perpetua memoria della regola dell’ordine. Piegarono a destra, lungo il secondo lato del quadrato. Epstein si accorse di camminare su antiche pietre tombali, consumate dai passi di secoli, anch’esse riccamente incise di nomi altisonanti ed epitaffi. Circa a metà di quel lato si apriva una porta molto più grande delle altre. Vi entrarono e da lì salirono una corta e stretta scala di gradini crepati. Fecero pochi passi e finalmente si ritrovarono davanti all’ingresso sovrastato dalla scritta cenacolum, dove il priore lo stava aspettando. Padre Serafino bussò con vigore ed il silenzio immanente sembrò moltiplicare il suono cupo del legno negli sconosciuti corridoi. Il frate non attese risposta e, abbassando il maniglione di ferro, spinse la porta dicendo semplicemente «S’accomodi».

    Eduard ebbe un attimo di esitazione. La lineare austerità di quel luogo e la memoria storica che esso denunciava in ogni pietra gli insinuavano un disagio epidermico. Egli non aveva grande esperienza del mondo, tuttavia si era convinto negli anni che la freddezza ragionativa e di calcolo, cui la sua formazione accademica l’aveva abituato, gli avrebbe fatto controllare qualsiasi emozione, e anche lo avrebbero tratto da quella sensazione di subalternità intellettuale che spesso si può provare davanti ad altri, in qualche modo titolati. Il priore non era che un frate, probabilmente neppure di eccelsa cultura, un uomo che aveva scelto di stare, nelle gerarchie divine, tra gli ultimi. Eppure Epstein non si sentiva a posto, sarà stato forse il silenzio carico di intuibili preghiere, o l’odore secco dell’incenso e dell’olio di lino di cui ogni legno era impregnato. Entrò. Il refettorio gli apparve come un vasto stanzone rettangolare. Ai lati erano allineati tavoli stretti e lunghi e panche attaccate ai muri. Sulla parete di fondo, quella opposta alla porta d’ingresso, su di una pedana anch’essa in legno, stava un grande tavolo con soltanto tre sedie ad alto schienale. Il frate priore sedeva su quella centrale, tratteneva con la mano sinistra una scodella di coccio bianco e, con la destra, vi inzuppava fette di pane imburrato. Epstein calcolò in fretta che in quello stanzone vi potevano sedere almeno trenta persone, sotto lo sguardo severo di illustri prelati i cui ritratti su tela pendevano bui e afflosciati dalle pareti. Il priore, non appena lo vide avanzare, inghiottì senza premura e si pulì le mani nella tonaca. Sorrise:

    «Benvenuto tra noi, dottor Epstein! Il Signore sia lodato».

    Quel vanto suonò stonato alle orecchie di Eduard, non era abituato al titolo accademico che pure gli spettava, gli era più familiare la considerazione di ragazzotto di paese, e del suo nome di battesimo.

    «Sempre sia lodato» rispose esitante, tendendo la mano destra.

    «Sono Floriano» disse il frate stringendogliela con decisione «Il priore di questo convento». Sorrise ironico.

    Epstein ancora una volta si stupì dei propri errori immaginativi. Il priore era un uomo basso di statura, di una magrezza innaturale. Portava con negligenza una barba grigia e trascurata che s’allungava sul mento come in una caricatura caprina, e occhiali montati in metallo chiaro, sottili, da presbite, dietro cui fiammeggiavano occhi furbi ed acuti. Anche il suo volto appariva scavato e tormentato, gli zigomi vi si protendevano ossuti e nervosi.

    «Si sieda qui, vicino a me, la prego» lo invitò il frate «Facciamo insieme colazione!».

    «Io veramente...» si scusò Epstein sedendosi.

    «Suvvia, non faccia il difficile» tagliò corto padre Floriano, e continuò: «Si adatti al cibo dei poveri e mangi qualcosa, parleremo meglio». E, prima che l’ospite potesse ancora obiettare, il priore ordinò misurato e perentorio, apparentemente nel vuoto «Un’altra scodella di latte caldo e pane imburrato e della marmellata!». Poi si rivolse ad Eduard «Sa com’è, io sono in piedi dalle cinque di questa mattina, ho già detto messa per le vecchiette del paese che si sentono chiamate dal buon Dio, ho recitato tutte le giaculatorie con i fratelli, ho dato una zappata all’orto... mi dica lei se non è lecito rifare colazione. La marmellata poi, è solo per gli ospiti» ammiccò il frate «Spero non si arrabbi se approfitto della sua presenza per un peccatuccio di gola».

    «Ma le pare!» riuscì solo a dire Eduard, stordito ma invogliato dalla profumata fragranza di pane fresco che gli saliva alle nari. Il priore gesticolava e parlava con rapidità, sembrava trattenere le parole tra i denti anteriori. D’improvviso il suo volto magro si illuminò di un sorriso, entrava un giovane frate con un vassoio carico di ciò che egli aveva richiesto. Il giovane, alto e scuro in viso, si muoveva con misurata lentezza, disponendo sul tavolo, davanti ad Epstein, una grossa tazza di latte caldo ed il resto. Poi, in silenzio, fece un leggero inchino e, senza alzare lo sguardo, si ritirò.

    «Forza, mio giovane amico materialista» fece padre Floriano sorprendendo il commensale «Facciamo questo sacrificio e ripuliamo le scodelle!». Quindi afferrò una grossa fetta di pane e cominciò a divorarla con gusto.

    «Cosa le fa pensare che io sia ateo?» domandò Eduard servendosi a sua volta.

    «Mah! Vede, lei è giovane e colto e a questo punto...» si interruppe per bere rumorosamente dalla tazza «lei ha due possibilità. Il materialismo che le scienze di questo secolo esasperano, o una religione pedante, quasi pignola, da antico padre della Chiesa. Un voto di castità laica non mi meraviglierebbe più di tanto. Ora, siccome a messa non l’ho

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