Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Il bambino delle vigne: ispirato alla storia vera di un figlio mancato
Il bambino delle vigne: ispirato alla storia vera di un figlio mancato
Il bambino delle vigne: ispirato alla storia vera di un figlio mancato
E-book257 pagine3 ore

Il bambino delle vigne: ispirato alla storia vera di un figlio mancato

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Abbandonato dalla madre in un collegio femminile a nemmeno due anni, Giuseppe cresce benevolmente accudito tra le verdi colline del Collio goriziano: apparentemente un'infanzia spensierata a cui non manca nulla, ma in cui il primordiale bisogno di amore esclusivo e incondizionato viene costantemente disatteso dall'assenza materna sempre più definitiva. Crescendo impara ad esorcizzare quella mancanza convincendosi di essere emotivamente indipendente e affrontando le sfide quotidiane come opportunità di riscatto. Eppure quell'amore materno negato lascia delle crepe nell'uomo che diventa: finisce col non abbandonarsi mai completamente ai sentimenti, con l'amarsi da sé come avrebbe voluto essere amato e con l'assecondare un infantile bisogno di accudimento. «Adulto troppo presto, bambino per sempre.» Finché non si imbatte nell'occasione inaspettata di pareggiare i conti col passato, di lasciarsi travolgere dall'amore e di far pace con la sua Storia. Liberamente ispirato ad una vicenda vera, «Il bambino delle vigne» è un delicato inno alla vita e alle molteplici possibilità di riscatto che offre. «Dicono che il primo amore non si dimentichi mai, che ti segni per sempre. Ma cosa dire dell'amore prima del primo amore? Di quello materno che non solo segna ma crea l'impalcatura su cui reggere tutto l'edificio di una vita?»
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2022
ISBN9791221431810
Il bambino delle vigne: ispirato alla storia vera di un figlio mancato

Correlato a Il bambino delle vigne

Ebook correlati

Biografie e memorie per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Il bambino delle vigne

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Il bambino delle vigne - Elena Vatta

    1

    IL VINO

    Non guardare se il tuo bicchiere

    è mezzo pieno o mezzo vuoto.

    Guarda quanta luce c’è nel vetro.

    (F. Caramagna)

    Amava il vino, lo amava fin da quando ne aveva memoria.

    «Il vino disinibisce» sosteneva fino allo sfinimento e lo faceva ripetere a chi era con lui, come una filastrocca imparata a memoria da uno scolaretto zelante, mentre annuiva soddisfatto con il piglio di un insegnante che ha portato a termine il suo compito. Il vino era il collante delle sue serate tra amici o l’amico silenzioso di quelle solitarie; il bicchiere fresco che scivolava lungo la gola nelle calde sere estive e quello corposo che gustava dopo averne odorato il bouquet aromatico, nel tepore domestico quando fuori si gelava. Amava il colore rubino del nero che sa di frutta matura e di campi tagliati di fresco, non meno di quello ambrato del bianco che evoca sentori di miele e frutta secca.

    Non si era mai chiesto perché ricavasse così piacere da ogni senso mentre odorava, ammirava e assaggiava quel nettare. Non era solito interrogarsi troppo neanche sul resto. Aveva imparato sin dall’infanzia che è infinitamente più facile non fare e non farsi troppe domande, non pensare troppo ai dettagli e ai perché, evitare le complicazioni e le responsabilità e lasciarle scivolare come bicchieri di vino, rendendo conto solo a se stesso, con tanti sogni ma senza programmi a lungo termine. Tanto aveva provato sulla sua pelle che ci pensa la vita a scombinare i piani fatti.

    Non si faceva domande: non voleva sapere le risposte. Semplicemente viveva alla giornata, come poteva e come riusciva, bevendo ad ampie sorsate le gioie, tutte quelle che poteva avere, e inghiottendo con malcelata stizza i fastidi non aggirabili, come sorsi inaciditi dal tempo.

    «Ci sarà un’altra bottiglia di vino buono» si diceva con convinzione «mai lasciarsi sopraffare per un bicchiere dozzinale!»

    Eppure se solo si fosse fermato un attimo a pensare che mai nulla succede per caso, avrebbe individuato che la sua storia era nata nel vino, tra botti, macchine di imbottigliamento e vigne che erano stati gli scenari dei suoi giochi. Non proprio dei primi in assoluto ma sicuramente quelli che riusciva a ricordare andando più indietro nel tempo. Ad essere perfettamente onesti, la sua vita sarebbe dovuta essere molto lontana dalle verdeggianti vigne friulane e dai loro grigi cieli autunnali; avrebbe dovuto essere segnata dal calore dei pomodori maturati al sole cocente del sud, o dal sapore aspro e sugoso degli enormi limoni siculi. Ma la Storia alle volte prende pieghe diverse e fa della piccola storia di ciascuno di noi qualcosa di dissonante che può mescolare i sapori e i profumi di terre lontane, i sentimenti e le paure di persone e di ambienti tanto diversi e creare così individui che vivono di contraddizioni fin dal loro concepimento. E che forse da questi contrasti non si allontanano mai, in un’altalena di pienezza e mancanza, di sogni e cadute, di volere e potere.

    Un gioco di contrasti che segna una vita, finché non trovano casa.

    2

    IL PORTONE NERO

    I tuoi figli non sono figli tuoi.

    Sono i figli e le figlie della vita stessa.

    La vita non torna indietro,

    e non si ferma a ieri.

    Tu sei l’arco che lancia i figli verso il domani.

    (Khalil Gibran)

    Suor Alessandra correva in ansia su e giù dalle scale, il cuore che batteva d’affanno per le incombenze assillanti, lo stress di affrontare qualcosa di nuovo da cui ci si aspetta seccature e fastidiosi imprevisti. Di fatto non sarebbe stata una tragedia, ma nella sua vita ordinata e scandita da regole ferree, quella novità costituiva un piccolo terremoto che la parte meno spirituale di lei avrebbe evitato volentieri.

    «Un maschietto a Villa Russiz non si è visto mai, mai!»

    L’Istituto da sempre ospitava le sorelle e le piccole creature che a loro venivano affidate, alcune per qualche mese in attesa di tempi migliori, altre per trascorrerci anni. Ma erano creature con le trecce e i codini, maglioncini rosa e gonnelline sopra le ginocchia sbucciate o preadolescenti alle prese con i primi sbalzi d’umore; bambine e ragazze che la vita aveva sbattuto in situazioni difficili, con famiglie allo sbando o solamente incapaci di provvedere a loro; piccole sottratte a violenze nella peggiore delle ipotesi o solo a temporanee assenze nelle migliori. Nell'Istituto trovavano un porto sicuro in attesa di tornare nelle loro case passata la burrasca.

    La prima volta che aveva affrontato la questione con l’Arcivescovo, suor Alessandra era stata irremovibile.

    «Non è assolutamente possibile, Monsignore, lo sapete, non siamo organizzate per accogliere maschi, la nostra istituzione ospita da sempre solo femmine, fin dai tempi della Contessa Elvine!» Nel 1891 la contessa goriziana Elvine Ritter de Zahony aveva fondato nella sua tenuta di Capriva una scuola in cui aveva aperto le porte alle bambine, in un tempo in cui a loro erano ancora sprangate. Via via aveva ampliato le attività sociali e assistenziali a loro vantaggio e cura, in un complesso architettonico che con gli anni aveva incluso diversi edifici e funzioni. Dopo la parentesi della Grande Guerra, la sua eredità era stata portata avanti dalla contessa crocerossina Adele Cerruti, che in quel luogo aveva prestato servizio e che vi si era dedicata per decenni, dirigendo dal 1928 l’orfanotrofio intitolatole alla morte. Dopo quasi cento anni la struttura era ancora lì e accoglieva una trentina di bambine tra i cinque e i quattordici anni.

    «Bambine appunto! Solo bambine» perché la promiscuità non si addiceva ad una fondazione rigidamente cattolica come la loro.

    «Sorella, io capisco bene le sue obiezioni, ma non abbiamo valide alternative. Innanzitutto il bambino è davvero piccolo, due anni appena, anche meno. Non costituirà certo un problema per le sue giovani ospiti, vista l'età e lei sa che in provincia non ci sono strutture per tale fascia. Qui inoltre sono tanto i servizi sociali quanto la madre a richiederlo. La donna è divorziata, è molto giovane e pare decisa a dare una svolta alla sua vita in cui non c’è posto per il bambino. Probabilmente le ristrettezze economiche la spingono a questo ma non pare accettare di rivedere la sua posizione. Una tristezza anche solo a pensarlo, me ne rendo conto mentre lo dico Madre, ma la ragazza non sente ragioni. Non ha dato il consenso perché venga preso in carico da qualche famigliare, da uno degli zii che risiedono in zona, ma insiste affinché entri in una struttura. Abbiamo provato a parlare anche col padre, tra l’altro ventenne anche lui; l’abbiamo rintracciato in Germania dov’è emigrato. Dice che se lo aspettava, che la donna non era tagliata per la maternità e che non avevano mai progettato quella gravidanza, ma che è pur sempre lei la madre del piccolo e che deve prendersene cura; afferma che lui è un uomo, deve lavorare e che non avrebbe nessuno lassù a cui affidarlo, se anche lo prendesse con sé. Non mi sembra il caso, no? D’altronde l’assistente sociale ha escluso che per ora lo si possa lasciare con la madre naturale dopo la scenata della settimana scorsa. Ma credo che lei sappia già tutto, vero?»

    La giovanissima donna, che si faceva chiamare Rosi ma che all’anagrafe aveva tutt’altro nome, si era presentata in stato confusionale davanti al portone nero del collegio, durante i giorni di fine anno in cui suor Alessandra era stata assente per una commissione che l’aveva richiamata alla casa madre. Al suo ritorno, le sorelle avevano narrato con dovizia di particolari l’accaduto: come avevano sorpreso la giovane mentre presumibilmente si stava allontanando lasciando lì quel fagottino addormentato sui gradini della scala, in un vago sentore di presepe moderno, e di come l’avessero fermata e interrogata con un misto di sospetto e di pietà.

    La donna siciliana, da poco giunta a Gorizia e rimasta da sola dopo un matrimonio riparatore fallito in pochi mesi, aveva una ventina d’anni ma ne mostrava di più in virtù di una bellezza appariscente e ostentata. Aveva grandi occhi scuri pesantemente truccati di nero, che alternavano momenti di velata tristezza ad altri di malcelata, tracotante fierezza; a tratti si posavano sul bimbo con affetto materno volutamente soffocato e palesavano così un senso di colpa orgogliosamente negato; in altri si indurivano, impenetrabili e inscalfibili, mentre con ferrea determinazione si staccavano dalla vista e dalla vita della propria creatura.

    «Sorella, le avranno raccontato che la donna sembrava avere tutte le intenzioni di lasciarlo davanti alla vostra porta e andarsene? Ha saputo che era in evidente stato confusionale…

    Diceva di non volere il bambino, perché piangeva di continuo e non ne capiva il motivo, di non poter provvedere a lui, perché non poteva portarlo con sé mentre lavorava nelle case e mentre faceva le audizioni in giro per la regione e di non avere la possibilità di sostenerlo. Poi però tappava le orecchie al piccolo e gli intimava di non sentire quelle parole che le erano sfuggite di bocca, perché lei in realtà gli voleva bene; e neanche finita questa concessione al suo senso materno, ricominciava a dire che non sarebbe dovuto nascere e che lei non si sarebbe dovuta sposare. Ripeteva fino alla nausea che non lo voleva e che se voi non lo aveste tenuto, lo avrebbe lasciato lì comunque.

    E’ poco più di una bambina lei stessa che a fatica provvede a sé e che al momento non ha la forza economica e pare nemmeno emotiva per crescerlo. Magari più avanti, chissà… Le sorelle hanno fatto bene a chiamarmi immediatamente quella sera, visto che Lei era assente. Quando mi sono precipitato a Capriva, l’avevano fatta accomodare in cucina e facevano a gara per coccolare Giuseppe. Forse se lei avesse visto la scena capirebbe come il piccolo abbia rubato loro il cuore immediatamente. Quella sera ho riaccompagnato personalmente Rosi e il figlio nella loro stanza d’affitto, ma non prima di aver avvisato i servizi sociali. Hanno preso in carico la situazione la mattina successiva. Il Comune di Gorizia, lei sa, non dispone di strutture atte ad ospitare bambini tanto piccoli e così hanno avvallato involontariamente la scelta di Rosi, rivolgendosi alla medesima struttura che lei stessa aveva scelto, la sua, sorella.

    Se vogliamo che Giuseppe stia bene, in questo momento è necessario che chi si prende cura di lui abbia un minimo di formazione e di esperienza, oltre che di pietà cristiana. E chi più di voi, sorella? Che poi così facendo e alleggerendo ora la donna dal carico quotidiano, magari riusciamo ad aiutarla a recuperare un po’ se stessa e la sua capacità di essere madre. E’ fondamentale che cooperiate con lei e che incentiviate il rapporto con la massima frequenza e sollecitudine.»

    «Lei parla come se fosse tutto stabilito, Monsignore….»

    «No, non lo è, e pur avendo il potere di imporle la mia volontà suor Alessandra, vorrei che lei fosse la prima sostenitrice di questo intervento. Sono convinto che perché porti buon frutto, Lei deve sentirlo venire dal cuore. E non ho dubbi che sarà così. La prego guardi il fascicolo che i servizi sociali hanno stilato…» e così facendo, le mise sotto agli occhi una cartellina con i pochi fogli frutto dell’indagine dei giorni precedenti e una foto. Era il ritratto del bambino, un bimbo come tanti, eppure unico come ciascuno: gli occhi scuri che fissavano l’obiettivo incuriositi, le grosse guance e i capelli scompigliati. Era bellissimo, di quella bellezza che ha ogni creatura che ancora non sia stata toccata dalle brutture del mondo e che la sorella conosceva bene.

    Suor Alessandra si fermò a fissare quegli occhi e lasciò che parlassero al suo cuore. Lo sentì stringersi. In fondo lei era comunque una donna, il cui istinto materno era stato sopraffatto dall’amore per Cristo, ma che non era mai stato cancellato del tutto. Come forse in ogni donna. Come forse anche in quella mamma che aveva messo al mondo il piccolo Giuseppe e che ora non lo voleva o non lo poteva tenere con sé. Suor Alessandra, il cui ventre non era mai stato abitato da essere umano, aveva provato ad immaginare più volte cosa si provasse a tenere in grembo una creatura per nove lunghi mesi, soffrire per metterla al mondo e poi rinunciare o non lottare abbastanza per crescerla. Se l’era chiesto per ogni bambina che aveva accolto nella Casa Famiglia, alle volte con una stretta al cuore più forte quando le possibilità di un sereno e veloce rientro a casa per le fanciulle erano più remote. Se lo chiese anche quel giorno difronte a quel piccolo volto, il più piccolo davanti al quale si fosse mai posta quella domanda. Avrebbe potuto lasciare che il bimbo prendesse la sua strada e portasse con sé le sue domande senza risposta, o avrebbe potuto scegliere di farne parte e aiutarlo a percorrerla, finché la sua mamma non fosse stata abbastanza forte d’animo da riprenderlo con sé. Come avrebbe potuto lei continuare a parlare col Signore senza vergogna, se in nome delle regole dell'Istituto che serviva da anni non avesse dato asilo a quel Suo figlio?

    E fu in quel momento che lei acconsentì a fare di Giuseppe il primo maschietto nella storia centenaria di Villa Russiz, oltre che il più piccolo ospite accolto.

    Parcheggiò l’auto fuori dal cancello, chiudendo la portiera con noncuranza. Teneva molto alla sua macchina che aveva soprannominato affettuosamente con un nome di donna, ma dopo quasi vent’anni, nonostante la sua cura maniacale nel conservarla, era troppo vissuta perché qualcuno pensasse di rubarla; ancor più la sua attenzione in quel momento era troppo distratta da ciò che c’era oltre la cancellata perché badasse ad altro. Senza chiudere a chiave, si avviò verso l’inferriata come ipnotizzato da ciò che vi avrebbe trovato. Mancava da quel posto da moltissimi anni. Nel primo periodo in cui se ne era allontanato, era andato spesso a rivedere le persone e i luoghi a lui cari, ma da quando le suore avevano lasciato la gestione del collegio ai laici, non aveva trovato più motivi sufficienti per spingersi lassù.

    Ma ora era diverso. Ora aveva cominciato a tirar fuori i ricordi, a narrarli, a condividerli e voleva rivedere finalmente coi suoi occhi ciò che da oltre un decennio serbava solo nel cuore.

    Il cancello si aprì con un leggero stridio e lui avanzò sulla ghiaia. Lo scricchiolio che faceva sotto ai piedi lo riportò con la mente alle infinite corse consumate su quel vialetto. Inspirò la frizzante aria primaverile, procedendo lentamente verso il castelletto. Sulla destra si apriva uno spiazzo d’erba che digradava dolcemente verso il muro di cinta, dalla cui sommità si potevano ammirare le verdi colline circostanti coi filari di vite ordinati fino all’orizzonte. Chiuse gli occhi e dietro alle palpebre vide affiorare immagini confuse... le galline che correvano crocchiando in quello spiazzo allora recintato e lui piccolissimo che sgambettava loro dietro, cadeva e si rialzava. Aprì gli occhi, immagini sfocate dei volatili che si dissolvevano... Proseguì sulla stradina alla volta del bianco castello. Una donna uscì dal portone principale dell’edificio, probabilmente allertata dai rumori inattesi che denunciavano la sua presenza.

    «Buongiorno, posso aiutarla?» chiese premurosa.

    «Si beh, facevo solo un giro se non disturbo. Vede, io sono cresciuto qui, tanti anni fa e manco da tantissimo tempo, quindi mi faceva piacere, se possibile, rivedere il collegio...» esitò davanti allo sguardo poco empatico della donna.

    «Certo se vuole può dare un’occhiata. Il castello ora ospita le attività amministrative dell’Ente, ma al piano terra può vedere alcune stanze di rappresentanza aperte al pubblico.»

    «Io veramente avrei voluto fare un giro nell’edificio del collegio, quello col portone nero e la cappella al piano superiore. Era lì che vivevo...»

    «Capisco, ma il vecchio complesso collegiale non è praticabile. La Casa Famiglia ha sede lì ora, a Casa Elvine» e indicò un nuovo moderno edificio fuori dalle mura della proprietà, poco lontano da dove Giuseppe aveva parcheggiato.

    «Lì un tempo c’erano le case dei lavoranti, dei contadini, me le ricordo!»

    «Si può essere, però quelle vecchie casette sono state ristrutturate una quindicina d’anni fa. La sede storica della Cappella di Villa Russiz non è agibile e non si può entrare.»

    Beppe la guardò deluso; la donna non mostrò nessuna sollecitudine e non aggiunse nulla che potesse dargli la speranza di uno strappo alle regole.

    «Va bene, capisco. Posso fare un giro solo intorno all’edificio e nel parco?»

    «Si, faccia pure. Io entro, sono nell’ufficio qui a destra se ha bisogno di me.» Non aveva neanche finito di parlare che era sparita all’interno tradendo le sue parole con le azioni: evidentemente si augurava di non essere disturbata oltre.

    Giuseppe si volse alle sue spalle verso il datato edificio che aveva volutamente ignorato fino a quel momento. Aveva desiderato assaporarne il ricordo girando per le stanze ma sembrava che quel piacere gli sarebbe stato ora negato. Guardò la casa, un complesso dalle forme severe se paragonate a quelle del bianco castelletto antistante, ma con un non so ché di ricercato, con quella torretta aggettante sulla facciata. Svoltò l’angolo e sussultò. Eccolo il portone nero, sovrastato da una lastra di marmo con le spigolose lettere in un indecifrabile tedesco: l’ingresso del collegio, attraversato per anni, su e giù, centinaia di volte. Alcuni gradini vi permettevano l’accesso. Mise il piede sul primo. Com’erano bassi, con un paio di passi sarebbe riuscito a scavalcarli tutti. Quant’erano alti al contrario nei suoi ricordi!

    Alzò gli occhi e scrutò le finestre sovrastanti. Lì sopra c’era la cappella, la stessa dove aveva ascoltato la Messa quotidianamente per anni, fin quasi a stufarsene e a smettere per rimando di frequentarla. Non metteva più piede in una chiesa da tanto di quel tempo... Sentì risuonare nelle orecchie i canti intonati assieme ai compagni... le urla mentre si rincorrevano giocando lungo i corridoi ora spettralmente vuoti e silenziosi... le voci affettuosamente severe delle suore che li riprendevano... Sbirciò da una finestra: vide una stanza disadorna, una vecchia scrivania abbandonata contro una parete, polvere. Tutto era come avvolto dal tempo, imprigionato in un’epoca lontana, apparentemente privato di ogni vita eppure così presente nella sua mente da poter sentire ancora l’odore della mensa, i richiami delle suore, le camerate vocianti...

    Salì i gradini sotto al grande portone nero per vedere meglio intorno, lo sguardo perso verso il castelletto. Un tempo era solito montare lassù per innalzarsi un pochino finché la natura non gli aveva regalato i centimetri in più rendendo superflua quell’azione. Sorrise con tenerezza al pensiero del bambino che era stato. Com’erano cambiate le cose. Qualcosa però non era cambiato: aveva la stessa smania di salire quel po’ più in alto, per vedere e soprattutto per essere visto, di essere protagonista; la stessa voglia infantile di farsi notare e di affermare la sua presenza in questo mondo. Quell’implicito, naturale bisogno di riconoscimento di sé che contraddistingue lo sviluppo di ogni bambino e che si attutisce con la crescita equilibrata e con l’approvazione sociale e soprattutto genitoriale, si era fissato nella sua persona in una costante ricerca di visibilità, cristallizzato come miele rimasto sul fondo di un vasetto abbandonato.

    Tirò fuori dalla borsa il suo inseparabile iPhone, aprì la fotocamera, protese il braccio davanti a sé e, messosi in posa, scattò diversi selfies ammiccanti. Scelse con cura l’inquadratura migliore e pochi istanti dopo condivise il post. Ritorno a casa lo intitolò, facendolo seguire da numerosi hashtag e aspettando quella scarica di dopamina che i like gli avrebbero dato. Una parte di lui avrebbe voluto esprimere come si sentiva ad essere tornato lì dopo tanto tempo, raccontare le sue aspettative di anni, le gioie, le delusioni. Ma il pudore che lo accompagnava e che lo inibiva dall'esibire la parte più fragile di sé, frenò le confidenze più intime; si limitò a mostrare un volto felice sullo

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1