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Sul quì e sul quà: Storia di un terribile naugrafio scolastico e di una grande amicizia
Sul quì e sul quà: Storia di un terribile naugrafio scolastico e di una grande amicizia
Sul quì e sul quà: Storia di un terribile naugrafio scolastico e di una grande amicizia
E-book133 pagine2 ore

Sul quì e sul quà: Storia di un terribile naugrafio scolastico e di una grande amicizia

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Info su questo ebook

Uno scolaro di quinta elementare, intelligente e vivace, ma probabilmente con qualche tratto di dislessia, affronta ogni mattina la sua porzione quotidiana di fallimento scolastico. Oltretutto, gli è venuta a mancare la mamma due anni prima, dopo lunga malattia... Sarà la bellissima amicizia con Manocchia, piccolo e sperduto nella nuova classe, a toglierlo dalla solitudine e a riaprirlo alla vita.
Il racconto è la voce narrante del bambino stesso, questo piccolo gigante, così ricco di simpatia, che si carica sulle spalle tutta la sua fragile esistenza e si spinge avanti per conquistare il suo posto in questo mondo. Il lettore – bambino o adolescente, docente o genitore – è conquistato da questa voce fresca, coraggiosa, che scava, scava, che vuol tirarsi fuori dal suo naufragio senza fine..
È così che, per via narrativa – autobiografica – questo libro tratta in modo penetrante il tema dei bambini e ragazzi con difficoltà scolastiche – “con problemi” – e quello dell’amicizia, di quanto possa essere ricco e vitale in una storia personale il grandioso evento di un’amicizia che sboccia tra i banchi di scuola.

Giovannino, l’ex-scolaretto naufrago, divenne poi preside di scuola media per più di vent’anni, avendo, per supplemento di prestigio, l’asso nella manica di aver vissuto dall’interno il problema delle difficoltà scolastiche – con “ problemi” – cosa che ha sempre amato confidare segretamente a quegli scolari (numerosi, purtroppo) che vivono tuttora, con enorme sofferenza, la catastrofe quotidiana dell’insuccesso scolastico.
LinguaItaliano
Data di uscita30 set 2015
ISBN9788869630484
Sul quì e sul quà: Storia di un terribile naugrafio scolastico e di una grande amicizia

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    Sul quì e sul quà - Giovanni Campana

    Giovanni Campana

    Sul quì e sul quà

    Storia di un terribile naufragio scolastico e di una grande amicizia

    Elison Publishing

    Proprietà letteraria riservata

    © 2015 Elison Publishing

    Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico.

    Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate a:

    Elison Publishing

    Via Milano 44

    73051 Novoli (LE)

    ISBN 9788869630484

    1

    UNO SCOLARO MALRIUSCITO

    L’affetto che provo per il bambino che ero non è nostalgia e nemmeno rimpianto. È proprio affetto, un’intima appassionata solidarietà verso quel bambino sempre in disordine, lo scolaretto – soprattutto così mi viene di ricordarmi – con il colletto bianco girato di traverso e il fiocco celeste eternamente disfatto. Il grembiule è tutto una macchia opaca, per non dire delle impiastricciature di inchiostro grumoso lasciate sulla tela nera per le furtive puliture del pennino. Nero su nero, non si vede nulla. In realtà non è così. L’inchiostro lascia delle chiazze lucide in cui il tessuto sembra molto più bello, ed è invece segno che è macchiato. A me, tuttavia, pulire il pennino nel grembiule sembra una furbizia; è la furbizia dello scolaretto malriuscito che le pensa tutte queste piccole astuzie. Sono la mia occupazione principale. Aggiustare il pennino, per esempio. Si pone la punta del pennino, ritorta in modo apparentemente irreparabile dopo l’ultima caduta, sul bordo di un cassetto appena socchiuso, poi si chiude lentamente il cassetto in modo che le due parti in cui il pennino è diviso siano schiacciate uniformemente, recuperando l’originario allineamento. L’operazione va ripetuta più volte perché l’aggiustatura si consolidi un po’. Altre volte è la cannuccia che va riparata. Le lamelle interne si sono deformate a causa di troppo rapide e violente infilature del pennino, che dondola nel supporto. Basta mettere un piccolo rinforzo di carta, una bella strisciolina ripiegata tre o quattro volte e poi infilata all’interno della cannuccia. Il pennino ora aderisce molto bene. Spesso la strisciolina è troppo grossa, all’inizio, e, per assottigliarla lievemente, va a finire che la riduco troppo e va buttata via. Così, in pochi tentativi, consumo un intero foglio di quaderno e mi viene voglia di strapparne un altro. La maestra è molto severa con i bambini che strappano i fogli dal quaderno, soprattutto per motivi così inconfessabili. Una cannuccia mordicchiata al punto da essere ridotta ad un vero rudere in pochi giorni e piena di tamponi di carta, spesso ammorbiditi da discrete quantità di saliva per farli meglio aderire all’interno. Di un nuovo foglio non posso fare a meno. Mi viene un’idea. Intingo a fondo la penna nel calamaio e poi lascio cadere una gran macchia nella parte bassa del foglio. Adesso c’è un motivo valido per strapparlo dal quaderno. Una macchia, in fondo, può cadere a chiunque e potrò sempre dire che non l’ho fatto apposta. Mi sembra una trovata astuta e provo per questo una gran soddisfazione. A fare questi trucchi sento di essere uno in gamba, sento di potermi fidare di me stesso come di un amico abile, che si districa bene in queste cose di intelligenza. E mi ritengo anche simpatico, forse per quel non curarmi delle mani inverosimilmente sporche di inchiostro, per quegli occhiali sempre storti e mai del tutto integri, e perciò costantemente rabberciati in un punto o nell’altro – un elastico, un cuneo di carta pressata tra la stanghetta e il corpo della montatura. E così, mai una volta che le scarpe siano allacciate come si deve, con i legacci strappati e riannodati in qualche modo. Tutte queste cose sono in fondo la mia forza. Così, almeno, le percepisco. Sono la giungla in cui mi dibatto ogni minuto, riemergendo ogni volta vincitore dalla serie intricata di piccoli ostacoli che devo continuamente superare. Se proprio non c’è nulla da aggiustare, trasformare, smontare, allora posso sempre abbandonarmi alla fantasia, posso osservare il muro della casa di fronte, ad esempio, per quel po’ che posso scorgerne stando seduto al mio banco sotto le alte finestre dell’austero edificio, e scoprire alcuni passaggi per arrampicarmi al primo piano o anche fino al secondo o al terzo. Tra grondaie e cornicioni gli appigli non mancano. Passo dopo passo, salgo con lo sguardo la parete facendo attenzione ad ogni singola presa. Non voglio concedermi nulla, inventando qualche supporto in più, né avvicinando ringhiere o davanzali per consentire il passaggio. Ogni tanto, però, finisco per ricorrere a qualche piccola facilitazione, ad esempio metto mentalmente la grondaia molto più vicina alla fila dei balconi, in modo da riuscire ad afferrarne la ringhiera, sia pure sporgendomi pericolosamente e quasi lanciandomi nel vuoto. Spesso rimango appeso solo per un pelo. Poi riprovo daccapo riducendo le facilitazioni o cambiando strada del tutto. Nel compiere queste prodezze immaginarie, mi piace fantasticare che mille occhi mi seguano, pendendo dalle mie acrobazie. Quasi li sento addosso questi sguardi che mi raggiungono, mi sostengono. Mi piacerebbe proprio farlo davvero e che ci fossero gli altri giù a guardare. In queste cose mi compiaccio pienamente di me stesso, mi sento forte e glorioso. Non c’è nulla che non possa fare, nulla di troppo difficile. Non oso dirmelo apertamente, ma, sotto sotto, non ho dubbi: per quanto asino sia a scuola, devo essere proprio un bambino speciale.

    2

    LA TELEFONATA

    Siamo a tavola, fratelli e sorelle con il babbo a capotavola e la Zita che un po’ tiene in braccio mio fratello piccolo e un po’ lo mette nel seggiolone, anche se ha più di due anni ormai. Suona il telefono. Vogliono il babbo. Carissima signora… È la maestra. Si fa un silenzio sacro; si sta tutti con l’orecchio teso ad ascoltare che cosa mai sarà successo. Nessuno osa portare la forchetta alla bocca. Il babbo è passato improvvisamente dalla più squisita cortesia e cordialità ad un tono preoccupato e risentito. Capisco, ma come la prenderà il bambino? … A maggior ragione, se è poco inserito…

    Io sono poco inserito. Il babbo non mi ha nominato, ma tutti hanno capito che non è la maestra di qualcun altro di noi; è proprio la mia. Mi chiedo cos’ho di diverso dagli altri bambini perché mi dicano poco inserito. Non ci avevo ancora pensato che gli altri sono inseriti e io no. L’unica cosa è che io non ho più la mamma, ma cosa c’entra con l’essere poco inseriti? Il babbo riaggancia la cornetta e torna a tavola. È furibondo. Devono togliere qualcuno dalla classe, la 5a C, per l’anno prossimo perché non hanno abbastanza bambini per fare una quinta in più. Io, almeno, ho capito così. Il babbo vorrebbe sfogarsi, ma si trattiene. Si lascia andare soltanto a delle mezze frasi che non spiegano niente. È una schifezza! … Burocrati dei miei stivali! Quando è il momento fanno tutti schifo. E la maestra, con i suoi bei modi: il bambino qui… il bambino là… cicicì, cicicì… E poi ti frega!

    Il babbo quando si arrabbia fa veramente paura. Manda fuori una voce tutta chiusa in gola come un sibilo terribile, farebbe meno paura se urlasse liberamente, ma così capisci che potrebbe succedere qualcosa di veramente terribile. Quando dice se ne fr-r-r-ega…, lo dice tirando in lungo la erre come se dovesse rovesciare chissà che cosa addosso alla maestra. Il babbo lo sa che sono somaro a scuola, però non mi sgrida quasi mai. Anzi, ride perché ho una scrittura da gallina. Lo dice anche a scuola ai suoi scolari, che sono ragazzi molto grandi e signorine. Quando uno è troppo disordinato o fa degli errori di ortografia, dice: Mi sembri il mio Giovannino. Che scrittura da gallina, che ha! Che disperazione!

    Delle volte, però, il babbo si arrabbia perché non ho mai una cosa a posto. Il pennino è sempre rotto e fa le macchie. I quaderni sono tutt’un’orecchia e pieni di scarabocchi e cancelloni, persino cancelloni con il buco nella pagina; e poi non sto attento a quello che faccio e non ragiono. Allora il babbo mi sgrida veramente. Io, per ottenere un po’ di compassione, perché quelle sgridate mi fanno stare malissimo, faccio finta di capire ancora meno, faccio il povero bambino che non capisce niente, ma proprio niente. E alle volte penso che è proprio vero che non riesco a capire nulla di nulla. Il babbo grida: Ho un figlio cretino, io? Ho un figlio cr-r-retino? e fa quella erre terribile. Si capisce che fatica a tener ferme le mani per non lasciarsi andare alle botte; alla fine rimedio soltanto uno scappellotto o due. Nel darmelo arrotola la lingua a pugno tra i denti come per concentrarsi e farlo cadere proprio bene, un bel colpo secco, e che faccia un piccolo botto sulla nuca. Gli scappellotti del babbo non fanno male. E sono assolutamente perfetti. Quella telefonata lo ha proprio fatto uscire dai gangheri. È anche molto offeso. Non conta proprio niente essere uno stimato professore di liceo? Non è mica l’ultimo cretino della terra, lui. Noi siamo ancora immobili davanti al piatto. Nessuno si attenta a mettere in bocca qualcosa. Guardiamo basso verso il piatto con una gran paura che muovendo gli occhi si vada a incrociare lo sguardo furente del babbo. Ma il babbo cambia voce. Mangiate! dice mangiate! Lo dice in modo sofferente, con una voce buona. Lui ha fatto la fame da bambino. Lo sa cosa vuol dire e lo dice sempre, con orgoglio: Ho fatto la fame, io! Ma noi no. Noi dobbiamo mangiare. Caschi il mondo, a noi non deve mancare mai da mangiare. Nessuno si attenta a muoversi per primo e io meno che mai. Mangiate, mangiate! Mangia! Si spazientisce, ci implora. Allora, in silenzio, si ricomincia a mangiare. Ci sono le patate fritte, che mi piacciono moltissimo. Adesso riprendo a mangiare anche io. Il babbo è diventato buono, premuroso; capisco che ci abbraccia tutti con lo sguardo.

    Chi è quest’altro bambino che mi ha detto la maestra …Cracchia… Conocchia…?

    Manocchia!

    La mia voce è vispa e saltellante. Adesso tutto è passato. È un bambino nuovo che è arrivato quest’anno. Di nome si chiama… si chiama… Non mi ricordo neanche come si chiama. Forse di nome non lo so proprio come si chiama, so solo che è Manocchia. Quello è proprio un bambino poco inserito, lui sì. Ma io non sono proprio così. Sono così, io?

    3

    MANOCCHIA

    Alla fine della scuola mancano due o tue giorni soltanto, poi ci saranno le vacanze. Manocchia è dall’altra parte della classe, nella fila vicino alla porta, quasi in fondo alla classe. Adesso che ci penso, mi sembra di non aver mai sentito la sua voce. In realtà non può essere vero perché la maestra gli avrà pur chiesto delle cose, certe volte. Però è un bambino molto timido e secondo me non parla mai. Mi

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