Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

L'amore è come un pacco regalo
L'amore è come un pacco regalo
L'amore è come un pacco regalo
E-book299 pagine3 ore

L'amore è come un pacco regalo

Valutazione: 2 su 5 stelle

2/5

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Giada ha ventinove anni, lavora come grafica pubblicitaria in un ufficio sull'orlo del fallimento e l'unico sogno che coltiva da sempre è sposare l'uomo che ama e avere dei bambini.
Tutti i suoi piani, però, falliscono quando il suo fidanzato la lascia all'improvviso.
Tornata single dopo tanti anni deve decidere cosa fare della sua vita, e fra le sue liste di buoni propositi e i consigli non proprio convenzionali delle amiche e della madre incontra Sebastiano.
Lui è il classico bello e dannato e non la considera nemmeno. Lei è ben decisa a stargli lontana. Ma, complice una notte di follia di cui Giada non ricorda nulla, le loro strade collidono, si intrecciano, si complicano.
Sebastiano accetta di aiutarla nel tentativo di riprendersi l'uomo che ama e nel frattempo le fa conoscere Michele che, gentile e ricchissimo, potrebbe essere proprio l'uomo giusto.
Protagonista di buffe peripezie che le danno una notorietà che decisamente non vuole, Giada dovrà capire cos'è che desidera davvero. Se aggrapparsi al passato, vivere la storia d'amore perfetta e tranquilla che farebbe felice sua madre, o abbandonarsi a quello che segretamente prova per l'uomo sbagliato.

Dall'autrice di Alis Grave Nil e Onislayer, una nuova, imprevedibile, divertente e romantica storia d'amore.

LinguaItaliano
Data di uscita15 gen 2015
ISBN9781310044571
L'amore è come un pacco regalo
Autore

Barbara Schaer

Ho ventinove anni, vivo a Genova con mio marito e lavoro ormai da qualche anno nel settore informatico. Sono un’appassionata lettrice, divoro tutti i generi anche se in questi ultimi tempi sono diventata una fan accanita dell’urban fantasy, e adoro scrivere fin da quando ero piccola.Alis Grave Nil è il mio primo romanzo, un piccolo grande sogno che si è avverato :)

Leggi altro di Barbara Schaer

Autori correlati

Correlato a L'amore è come un pacco regalo

Ebook correlati

Narrativa romantica contemporanea per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su L'amore è come un pacco regalo

Valutazione: 2 su 5 stelle
2/5

1 valutazione0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    L'amore è come un pacco regalo - Barbara Schaer

    Capitolo 1

    Stefano ti ha lasciata, mi dice un’irriducibile vocina nella mia testa. Ma io la zittisco subito, la soffoco, la estirpo, la eviro seduta stante e le ripeto, forse per la millesima volta, che non si tratta di un addio, ma solo di un arrivederci. Le faccio notare, illudendomi di riuscire a convincerla, che Stefano mi ha semplicemente chiesto una pausa di riflessione e che tutte queste valigie che mi circondano e questa desolazione che mi svuota e mi smarrisce sono soltanto un modo per dare un po’ di spazio a un pover’uomo soffocato dalle mie molte attenzioni e dalle mie troppe pretese. E concludo, con un’abile stoccata di fioretto, che nonostante questa infausta parentesi che mi fa sentire triste come un povero soufflé sgonfio mi infilerò presto l’abito bianco e lo impalmerò davanti al pubblico in visibilio dei miei parenti.

    «Questa è l’ultima?»

    La voce di Stefano mi riporta frettolosamente alla realtà, e io ripiombo sul freddo pavimento del mio quasi ex-salotto fra logore borse Ikea e una pila di mutande ancora da mettere via, mentre il mio ormai ex-fidanzato fissa sconsolato l’ennesimo scatolone traboccante di libri.

    Spero che quell’aria stanca che gli appanna lo sguardo e gli incurva la schiena sia dovuta allo strazio per questa separazione, per gli ultimi tre giorni passati a spartirci tutte le cose che abbiamo comprato insieme in un monotono ripetersi di lacrimosi ti ricordi? a cui ogni volta è riuscito a rispondere rifilandomi nuove combinazioni di monosillabi, più che alla fatica per il trasporto dei miei pacchi non proprio leggeri dal salotto all’ascensore.

    Lui si china, prova a sollevare lo scatolone, grugnisce e sbuffa, poi getta la spugna e lo spinge fin sul pianerottolo accatastandolo insieme agli altri.

    «Okay» bofonchia mentre rientra in casa e si pulisce gli occhiali su un lembo della camicia. «Direi che abbiamo finito.»

    Già, abbiamo finito.

    Mi alzo in piedi, faccio sparire le mie mutande non proprio sexy dentro a uno dei borsoni in cui è rimasto un po’ di spazio, e rimango disorientata davanti al vuoto che mi circonda.

    Di sicuro adesso c’è molto più ordine, e finisco per pensare a quelle operazioni chirurgiche in cui si asporta un pezzo di qualcosa per lasciare spazio a qualcos’altro che prima era esageratamente compresso. Spero che Stefano non si allarghi troppo, che non ci prenda gusto a poter stare stravaccato sul divano con solo i boxer addosso, una lattina di birra in mano e la possibilità di fare quello che gli pare. Mi auguro che non riprenda il brutto vizio di lasciar accumulare i piatti sporchi nell’acquaio o di non abbassare la tavoletta del water.

    Prego che soffra per la mia mancanza, supplico chiunque sia in ascolto che non riesca a dormire senza prima sentire i miei piedi gelati che cercano di scaldarsi sui suoi polpacci, lancio macumbe in modo che gli vada tutto storto, che gli brucino persino le uova al tegamino e che si renda conto che senza di me la sua vita è un cumulo disordinato di panni sporchi, una sequenza ininterrotta di eventi che non può condividere con nessuno.

    Artù, persiano color caramello che lascio a Stefano solo perché mia sorella è allergica ai peli dei gatti, mi si struscia contro le gambe. Fa la gobba, si strofina, miagola come se avesse già inteso che qualcosa non va e cercasse di scoraggiarmi dal prendere decisioni avventate.

    I suoi occhioni blu mi accusano di essere una padrona degenerata e mi chiedono, fra un ron ron e l’altro, chi è che si occuperà di spazzolarlo prima di andare a dormire o di dargli la giusta porzione di croccantini.

    Improvvisamente ho di nuovo mal di stomaco e so già che passerò un’altra nottata insonne.

    Devo dire che fino a questo momento sono riuscita a non fare scenate, a piangere solo lacrime silenziose e composte non appena lo shock è passato e le parole di Stefano si sono fatte più chiare, a non urlare insulti inviperiti e a non mollare sonori ceffoni da pièce teatrale, ma il dolore mi formicola sulla pelle come se avessi infilato le dita in una presa della corrente.

    Mi sento senza capo né coda, frullata come un disgustoso centrifugato di verdura. Tre giorni fa andava tutto a meraviglia. Facevo progetti, collezionavo ricette pensando a quando avrei cucinato arrosti e brasati per la famiglia durante i pranzi della domenica, e assemblavo album di foto con la soddisfazione di chi vede prender forma, mattoncino dopo mattoncino, il proprio futuro.

    Invece, adesso, sento solo la voce di Stefano che piena di imbarazzo mi dice: non so più se ti amo.

    Continuo a chiedermi come, quando, dove, perché, e a non trovare valide risposte.

    Stefano mi guarda, si gratta la testa e si infila le mani nelle tasche. È imbarazzato e distante, e io detesto questa situazione che ci inchioda qui, ai due capi opposti del tappeto che ci ha regalato sua zia Carmela, senza sapere cos’altro fare o cosa dire.

    Adesso come lo saluto? Ora che tutte le mie valigie sono finite in ascensore e la metà dei condomini ci ha già gridato insulti per averli costretti a salire a piedi che cosa faccio? Lo abbraccio? Lo bacio? Gli stringo la mano? Gli mollo un calcio negli stinchi?

    Lui non sembra intenzionato a muoversi, temo si sia trasformato in una statua di cera, e capisco che non ci sarà nessuna smanceria, nessuno scambio di battute affettuoso, nessun contatto fuggevole e intimo che mi possa dare un po’ di speranza per il futuro.

    «Scendi anche tu?» butto lì, giusto per rompere il silenzio di ghiaccio che mi fa sputare nuvolette di vapore.

    «Non mi sembra il caso» mugugna, e la temperatura precipita di altri dieci gradi.

    In fin dei conti non posso dargli torto, nessuno vorrebbe incontrare la sorella della fidanzata appena scaricata. Sarebbe strano, dopotutto, discorrere amabilmente del più o del meno quando l’istinto del tuo interlocutore sarebbe quello di investirti con il furgoncino e passarti sopra due o tre volte, giusto per essere sicuro di aver portato a termine il lavoro.

    Eppure non riesco a non sentirmi delusa.

    Una parte di me, una parte molto piccola e molto stupida, sperava in un gesto di apertura, in uno slancio che mi avrebbe permesso di tirare avanti un altro giorno convinta che avremo un lieto fine.

    «Quindi...» ricomincio, fissando il panorama di tetti e comignoli che si scorge dalla finestra giusto per non essere costretta a guardare lui, «ci penserai?»

    «Sì, te l’ho detto» replica lapidario.

    «E ci sentiremo?»

    «Ma certo.» Si schiarisce la voce. «Magari non tanto come prima. È molto meglio se non mi stai troppo addosso, ho bisogno di chiarirmi le idee e se continuassimo a sentirci o a vederci non ci riuscirei.»

    «D’accordo» sospiro, e il petto mi balla per il desiderio di dar sfogo a tutti i singhiozzi trattenuti.

    «Allora ciao» mi dice, come se volesse virtualmente accompagnarmi alla porta. O mettermi alla porta, se volessi essere un minimo obiettiva.

    Decido di non lasciarmi scoraggiare e tento un ultimo assalto. Mi avvicino torcendomi le dita, alzo la testa e sporgo le labbra.

    Non so bene cosa avessi intenzione di fare all’inizio, probabilmente dargli un bacio veloce sulle labbra o, se proprio non fosse stato possibile, depositargliene uno su una guancia, ma Stefano si ritrae come se gli fosse capitato vicino un ragno velenoso e fosse indeciso se darsela a gambe o spiaccicarlo sul finto marmo del suo pavimento.

    «Non mi sembra il caso» ripete sconvolto, e io vorrei ricordargli che poco più di una settimana fa abbiamo fatto l’amore.

    Come può essere cambiato tutto in così poco tempo? O già allora avrebbe preferito evitare e si è gentilmente concesso solo per non sbottonarsi troppo?

    Mi trema il respiro, sento dolere anche le costole, e mi assale il terrore che questo non sia affatto un arrivederci ma un addio bello e buono.

    L’unica consolazione è sapere che dovrò comunque tornare qui perché non ho infilato in valigia proprio tutto ciò che mi appartiene. Ho finto di dimenticare due tazze a cui tengo moltissimo, un paio di scarponi da trekking che non mi serviranno mai più nella vita ma che all’occorrenza potrebbero ancora venirmi bene, e un maglione vecchio di secoli di cui sentirò presto la mancanza.

    «Forse è meglio che tu vada» mi esorta, mentre la parete gli taglia la ritirata ed è costretto a spalmarsi contro il muro come una lucertola assetata di sole.

    «Sì» annuisco, ma vorrei dire no. Vorrei dirgli che non è meglio per me, ma solo per lui. Che io rimarrei in eterno, all’infinito, per provare a fargli cambiare idea, per ricordargli tutti i momenti belli che abbiamo vissuto e che adesso sfilano davanti ai miei occhi come tanti burattini che mi prendono in giro. «Allora vado.»

    Non succede nient’altro, non si getta ai miei piedi chiedendo perdono e pregandomi di riportare le mie valigie in casa, non si mette a ridere dicendomi che è tutto uno scherzo, una bufala per mettermi alla prova, non mi sveglio sudata dopo un incubo così realistico da sembrare vero.

    Prendo la borsetta e l’ultima borsa rimasta, e mi improvviso contorsionista per entrare in ascensore.

    Premo terra, le porte mi scorrono davanti, e l’ultima cosa che vedo è Stefano che fa capolino dalla porta e la richiude senza fare troppo rumore.

    Mia sorella abita poco distante dal centro, in una palazzina antica con la facciata tutta sculture e ghirigori scolpiti nel marmo ormai nero di smog. Il posto non sarebbe male se non fosse che dista poche centinaia di metri dal pronto soccorso con il conseguente sfrecciare quotidiano di ambulanze a sirene spiegate, e che l’unica pozza di verde consiste in un parchetto tutto alberi segaligni e arbusti rachitici, ma immagino di non potermi lamentare.

    L’appartamento è piccolo ma accogliente, con il pavimento in parquet e un arredamento sovrabbondante di tessuti dai colori caldi e quadri moderni, e la mia stanza ha tutto ciò che serve, con in più una grande finestra che offre l’entusiasmante visione del muro di contenimento della franosa collina retrostante il palazzo.

    Di certo non è il massimo e sicuramente mia sorella avrebbe potuto ottenere molto di meglio semplicemente facendo gli occhi dolci a papà, ma il fatto che abbia pagato questa casa fino all’ultimo centesimo contando solo sulle sue forze mi rende incredibilmente orgogliosa di lei.

    Ho già sistemato la maggior parte delle mie cose, nel senso che ho appeso qualche abito nell’armadio e ho impilato in un angolo tutto quello di cui non ho immediato bisogno, e ho passato il resto del tempo sdraiata sul letto a fissare per un po’ il soffitto e per un po’ lo schermo del mio cellulare.

    Giorgia entra in camera senza bussare, mi guarda, mi studia, soppesa la mia espressione e la mia aria da malata terminale, poi si chiude la porta alle spalle e viene a sedersi sul bordo del letto.

    Io e mia sorella ci assomigliamo quel tanto da capire che in entrambe c’è aria di famiglia, ma mentre lei è bella di una bellezza più appariscente, più chiassosa, io mi faccio notare decisamente meno.

    Giorgia è biondissima, ha occhi verdissimi, la terza di reggiseno, un vitino da vespa e un taglio di capelli coraggiosamente corto che le lascia scoperti orecchie che sembrano disegnate e un collo da cigno, lungo e slanciato.

    Io sono castana, ho lo stesso taglio di capelli di quando avevo quindici anni, gli occhi marrone chiaro, e il petto che si vede e non si vede, a seconda delle cose che scelgo di indossare.

    «Come stai?» mi chiede a voce bassa, dandomi una veloce carezza su una guancia.

    Intreccio le dita sullo stomaco e continuo a guardare il soffitto come se fossi già morta. «Male.» Sospiro, mi giro su un fianco e la guardo in tralice. «Non hai detto niente a mamma, vero?»

    Lei batte le palpebre, innocente. «Di cosa?»

    «Non fare la tonta.» La fisso imbronciata. «Di me e Stefano. E del mio trasferimento qui.»

    In media un sano rapporto madre-figlia richiederebbe almeno una telefonata al giorno e quel tipo di confidenza in cui ci si raccontano gli affari di cuore o i cambi di residenza, ma nel nostro caso le cose sono un tantino più complicate di così.

    Se non fosse che nel prossimo periodo saremo obbligate a vederci spesso, complici le feste natalizie e svariati compleanni, il mio segreto sarebbe in una botte di ferro e non rischierei di subire la solita ramanzina non hai ancora capito che hai pessimo gusto nel scegliere gli uomini e non riuscirai mai a tenerti uno di questi scarti della società di cui ti ostini a innamorarti il tempo necessario a organizzare il vostro matrimonio? che solitamente mi propina senza il minimo scrupolo anche quando ho il cuore spezzato e l’umore così a terra da poterlo calpestare.

    «Ti sembro scema? Ovvio che non le ho detto niente! Però non capisco perché ti preoccupi tanto... Stefano mica le piaceva.»

    «Solo perché non mi aveva ancora sposata» puntualizzo, ben decisa a proteggere il piedistallo su cui ho trionfalmente posato la mia storia con Stefano anche dalle più innocue scalfitture.

    «No» mi contraddice. «Quello è l’unico motivo per cui gli preferiva Max. Per il resto ha sempre pensato che per te non andasse bene.»

    Max è il marito di Giorgia, e il fatto che non sia esattamente il tipo di compagno che avrei voluto per mia sorella è l’unico punto su cui io e mamma siamo sempre state d’accordo.

    È fermamente convinto che diventerà una rockstar o un attore famoso, penso che ancora non gli sia del tutto chiaro, ed è così certo delle sue possibilità da aver mollato un lavoro sicuro da impiegato bancario per inseguire i suoi sogni. Scelta poetica e molto romantica, se non fosse che negli ultimi quattro anni non ha fatto altro che partecipare a milioni di provini da cui è stato puntualmente scartato e a organizzare concerti in qualche bettola sconosciuta dove veniva retribuito quel tanto da pagarsi il trasporto degli strumenti.

    A ben guardare, quindi, non ha fatto altro che vivere alle spalle di mia sorella e perdere tempo.

    «Non le va mai bene nessuno» le faccio notare distratta, «sarebbe felice solo se mi fidanzassi con qualche principe erede al trono, o il figlio di uno dei suoi amici di famiglia con abbastanza soldi da far sembrare quelli di papà una bazzecola.»

    Giorgia ride. Probabilmente pensando alla crisi di panico che si è fatta venire mamma quando le ha candidamente annunciato che si sarebbe sposata con un buono a nulla spiantato e senza prospettive per il futuro. «Può darsi. In ogni caso è meglio se ti sbrighi a raccontarle tutto perché fra poco ci sarà la cena di compleanno di papà e se ti vedono arrivare senza Stefano faranno due più due e poi sarà anche peggio.»

    «O magari...» aggiungo, lievemente irritata dalla cosmica ottusità che mi circonda, «per quella data io e Stefano saremo tornati insieme.»

    Mia sorella mi fissa, poi scuote la testa e io capisco che quello che sta per dire non mi piacerà nemmeno un po’. Ha la stessa espressione di quando, da ragazzine, mi vietava di girarle troppo intorno a scuola o di bazzicare la sua stanza quando lei non c’era. «Non ti illudere, Giada. Li conosco i tipi come lui. Farà passare un po’ di tempo, poi un altro po’… e alla fine sarai tu a lasciarlo perché sarai stufa di stare con il fiato sospeso. Così non sarà nemmeno costretto a consolarti dopo averti piantata.» Da come mi guarda capisco che è assolutamente sicura di quello che dice. «Le pause di riflessione non esistono. Sono un modo carino per dirti che è meglio se ti levi di torno perché il tempo dell’amore è finito e sta per iniziare quello delle lacrime, delle telefonate senza risposta e degli appuntamenti rimandati.»

    Sbuffo e rimango in silenzio. Il vento sbatte contro i vetri, la tapparella vibra, e io mi sento contemporaneamente vuota e pesante, persa fra mille pensieri che guizzano e scoppiano come bolle d’aria dentro all’acqua.

    «Vorrei tanto sapere dove ho sbagliato» bisbiglio, dando voce a un dubbio che mi tormenta da giorni. «Mi sembrava andasse tutto così bene…»

    «Probabilmente ha trovato un’altra.»

    Il commento di mia sorella mi sgonfia e mi affonda. È il colpo di grazia a una giornata francamente schifosa. La degna conclusione di un periodo che fa concorrenza all’inverno russo o alla siccità del deserto.

    «Ha bisogno di tempo per pensare, Giorgia. Non ricamarci troppo sopra.»

    «Ah ah ah.» La sua risata è finta quanto le labbra a canotto di Pamela Anderson. «Questa è la balla del secolo. Gli uomini non riflettono. Quante volte devo ripetertelo? Non è nel loro DNA. Le uniche due cose che interessano davvero a un uomo sono mangiare per sopravvivere e fare sesso. Tu cucinavi e lo sollazzavi a dovere. Se avesse voluto semplicemente riflettere lo avrebbe fatto con la pancia piena e il testosterone tenuto a livelli di guardia.»

    «Oppure è uno dei pochi uomini onesti che non voleva approfittarsi di me senza essere sicuro dei propri sentimenti.»

    E mentre lo dico so di essermi messa nel sacco da sola.

    Primo, con la sua quinquennale esperienza nel campo investigativo Giorgia non crede più agli uomini onesti, fatta eccezione per suo marito.

    Secondo, dire ad alta voce che Stefano non è sicuro dei suoi sentimenti mi fa lo stesso effetto di un film romantico con la colonna sonora di Profondo Rosso.

    «Dammi carta bianca, Giada» insiste, senza sentirsi in colpa per il dolore da dito che affonda nella piaga. «Fammi fare un paio di appostamenti e qualche ricerca, vedrai che lo prenderò in castagna e...»

    «No!» la interrompo bruscamente, saltando a sedere sul letto. «Se hai voglia di fare straordinario vattene in ufficio anche il weekend. Io e Stefano non abbiamo bisogno del tuo aiuto.»

    Giorgia non si scompone, ma ha l’aria di una che ha rinunciato a convincermi delle sue teorie solo temporaneamente. Si alza e si stiracchia. E se non fosse che le voglio davvero bene la detesterei con tutto il cuore. È troppo sincera e troppo bella, e ora come ora non ho bisogno di nessuna delle due cose.

    «Sei sicura di non voler cenare con noi?» mi domanda, cambiando discorso.

    Io faccio spallucce e mi sistemo i capelli che ho pinzato sulla nuca. «Non credo che Ilaria sentirà ragioni, stasera. Da quando ha saputo che io e Stefano... be’, sì, abbiamo rotto, insiste per portarmi fuori. Non posso tirarmi indietro all’ultimo.»

    «Peccato. Max ha partecipato a un provino ed è stato scartato anche questa volta.» Solleva lo sguardo e sospira stancamente. «Ha bisogno di essere tirato un po’ su. Sto preparando le lasagne. Le tue preferite.»

    «Ti odio» le rispondo, ma entrambe sappiamo che non è vero.

    Non è mai stato così, nemmeno quando eravamo adolescenti e lei assomigliava a una modella svedese mentre io mi sentivo come la brutta protagonista dell’omonima canzone di Alessandro Canino.

    «Ti passerà» afferma risoluta, guardandomi da sotto alle lunghe ciglia scure. «È solo questione di tempo. E tutto sommato uscire non può che farti bene. Ti terrò da parte una fetta di lasagne per domani, non preoccuparti.»

    La ringrazio e le sorrido mentre se ne va e si chiude la porta alle spalle con delicatezza, come se il rumore di una porta sbattuta con troppa irruenza potesse mandarmi in frantumi.

    Mi guardo allo specchio, un bello specchio grande fra il cassettone e la finestra, e capisco di avere un’unica certezza, al momento. Non mangerò le lasagne di mia sorella, né stasera né mai.

    Perché io ingrasso anche solo a guardarla la besciamella, e considerando lo stato critico in cui mi ritrovo, ex-fidanzata disperata alla soglia dei ventinove anni, non mi posso permettere nemmeno il più piccolo buchetto di cellulite.

    E, a dire il vero, ci sarebbe da fare qualcosa anche per questi capelli, né dritti né ricci, ma vagamente mossi a meno che non mi impegni a domarli con un bel passaggio di piastra rovente, o per queste dita tutte mangiucchiate, gonfie e rosse intorno all’unghia.

    Forse sono tutti questi particolari ad aver convinto Stefano a scegliere la sera del nostro anniversario, proprio quando stavo per addentare una fetta della crostata a forma di cuore che ho impiegato dodici ore a preparare, per dirmi che non sente più alcun impulso sessuale nei miei confronti. Che mi vuole bene come a un’amica speciale ma non è più sicuro di amarmi come dovrebbe. Che quando si alza alla mattina si sente insoddisfatto come un adolescente in piena crisi esistenziale, e che probabilmente stare lontani per un po’ lo aiuterà a capire se la nostra relazione si è ormai trasformata solo in una cattiva abitudine o meno.

    Forse sono io, con le mie perenni imperfezioni, ad aver rovinato tutto.

    Queste considerazioni mi fanno girare la testa, come un bicchiere di vino tracannato tutto d’un fiato, quindi faccio l’unica cosa che so fare quando ho bisogno di un tracciato sicuro lungo cui camminare.

    Compongo una lista.

    Acchiappo il primo pezzo di carta utile, che in questo caso è il retro di uno scontrino lungo un chilometro, e setaccio la mia borsa alla ricerca di una penna. Ne viene fuori una matita spuntata, ma me la faccio andare bene lo stesso.

    Così comincio a scrivere questa sorta di memento di buoni propositi, un carosello che mi terrà in piedi almeno per i prossimi due o tre giorni, convincendomi che nel caos sconclusionato della mia vita io ho comunque degli obiettivi precisi.

    Smettere di mangiarmi le pellicine

    Fare una maschera purificante al viso almeno tre volte a settimana

    Smettere di stare ore davanti allo specchio a caccia di punti neri

    Comprare un set per la manicure e tenere lo smalto per almeno due giorni di fila

    Smettere di pinzare i capelli

    Seguire un corso su Youtube su come raccogliere i capelli quando sono troppo sporchi per tenerli sciolti

    Bandire i carboidrati dalla dieta

    Fare almeno cinquanta addominali ogni mattina

    Riprendere a correre

    Infilarmi una gonna almeno il sabato sera

    Capitolo 2

    È Ilaria a salvarmi da questo pazzo deragliamento emotivo.

    Piomba in camera mia con i suoi sessanta chili di muscoli ipertonici scolpiti da estenuanti sedute in palestra, il caschetto azzurro cielo che fa tanto moda e una mescolanza di così tante sfumature di rosa addosso da farmi pensare a una Barbie diventata improvvisamente daltonica.

    Si ferma davanti a me e mi scruta con occhio critico. «Qualcosa mi dice che non l’hai presa affatto bene.»

    «E tu che cosa pensavi?» replico laconica, senza pretendere che capisca la spessa disperazione che mi annoda lo stomaco privandomi dell’appetito e, nei giorni futuri, anche dell’unica taglia di reggiseno che possiedo.

    Perché è così che va sempre a finire, purtroppo, si dimagrisce ogni volta nel solo punto in cui non se ne ha il minimo bisogno.

    «Be’, ora ci sono qua io. E si da il

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1