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Love is color
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E-book271 pagine3 ore

Love is color

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Info su questo ebook

Ivy, diciottenne curiosa e romantica, si è appena trasferita a New York dall’Italia. Alla Denver High School c’è tutto un mondo che deve conoscere. Nuove amicizie, nuovi interessi, nuove abitudini, nonché un’infatuazione nuova di zecca per Tom de Luca, uno dei belli e dannati della scuola, uno di quelli che è abituato a prendersi tutto ciò che vuole, e a non usare la dolcezza con le ragazze.
L’attrazione tra i due si fa subito evidente, al di là della loro stessa volontà cosciente. È l’innesco a una serie di vicende che travolgono le vite dei due giovani, portandoli a confrontarsi faccia a faccia con i loro desideri e tutti i dubbi più profondi, alla ricerca di un difficile equilibrio in cui vivere vicini in serenità.
Nella famiglia di Tom, infatti, non scorre buon sangue, e si nascondono molti segreti: il potere del denaro può aggiustare ogni cosa e coprire anche i fatti più nefandi. Anche il passato di Ivy, però, ha pagine oscure, storie che sembrerebbero dimenticate e che invece tornano con il loro doloroso carico di incertezza. Tuttavia, con coraggio e determinazione, Ivy si dimostra disposta ad andare a fondo nelle pieghe dei propri sentimenti, lasciandosi scivolare pian piano in quel caos che sembra offuscare i suoi pensieri, per uscirne sicura della verità incontrovertibile che il suo cuore racchiude.
Il debutto di una giovanissima autrice è un romance incalzante e ricco di colpi di scena.
LinguaItaliano
Data di uscita30 set 2021
ISBN9788832929393
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    Anteprima del libro

    Love is color - Elisa Giuliani

    Prologo

    Ci sono colori e colori

    alcuni sono chiari

    altri sono scuri.

    Certi sono caldi

    e altrettanti sono freddi.

    Ma i colori più belli

    sono quelli che ti creano

    farfalle nello stomaco

    e tachicardia.

    Perché è questo quello che sei.

    Diario di Ivy , pagina 17

    Guardare fuori dalla finestra del nuovo appartamento sarà assurdo. Ci saranno grattacieli, strade, automobili e cartelli al neon. Sul marciapiede ci sarà un continuo via vai. Ci saranno pullman e taxi nel traffico. E io starò a guardarli dal terzo piano di un grattacielo fra tanti.

    Mia madre mi dipinse così New York. Mi dipinse in questo modo la nostra futura città, dove ci saremmo trasferiti e dove avrei continuato la mia carriera scolastica.

    In un primo momento pensai che stesse scherzando, che fosse tutto provvisorio, che fosse tutto un’idea. Ma la conferma arrivò col cartello vendesi affisso sul balconcino.

    Da lì capii che dovevo chiudere con tutto quello che c’era qui e, di conseguenza, chiudere col mio passato.

    Lasciai il mio ragazzo. Chiusi molte amicizie e molte attività che svolgevo qui, a Torino, nella mia città natale. Chiusi con una realtà che, alla fine, mi accontentava con tutte le sue sfaccettature.

    Inutile dire che con Jessica mi proposi di non perdere i rapporti, anzi, ci promettemmo di sentirci tutti i giorni, perché la distanza era solo un numero.

    Ivy, andiamo, è il nostro volo, mia madre mi scosse lievemente. Io la guardai, per poi annuire. Insomma, l’aeroporto era l’unico pezzo di normalità che mi rimaneva.

    Okay, sospirai, seguendo mia madre e altre persone per salire sull’aereo.

    1

    Una volta mi dissero che il modo migliore per iniziare una storia è E se…

    E se, in una grande città, succedessero cose che nessun si aspetta? E se, in una piccola scuola, ci fosse una storia d’amore che attende solo uno scrittore per esser raccontata? E se tutto questo, quando piove e quando c’è sole, quando le stelle vengono riflesse su un lago di montagna, venisse raccontato e amato? E se io ci fossi caduta dentro, dentro una stupida ragnatela che può esser tagliata solo da una scelta o, come amo definirla, da un passo più lungo della gamba?

    Diario di Ivy , pagina 83

    Chiusi l’anta dell’armadietto con fare silenzioso e, allo stesso tempo, seccato; domandandomi cosa volesse il professore di Storia da una ragazza come me, che si era appena trasferita a New York, e che cosa pretendesse per darmi un voto superiore all’otto. Non che dovessi lamentarmi, certo, ma per certi aspetti poteva fare sembrare quella severità come qualcosa di più profondo e arduo. E, se non altro, speravo che nessuno potesse fraintendere e che mi lasciasse in pace.

    Mi ero immaginata il trasferimento in modo totalmente diverso, affogando in quel film mentale ricco di abbracci, saluti e ci vediamo. Ovviamente, mi ero sbagliata su tutta la linea e mi ero fatta solo del male illudendomi in quel modo.

    Ero arrivata a New York pochi giorni prima e già detestavo la città, con il traffico, i gas di scarico e la loro puzza. Insomma, avrei preferito tornare in Italia, dove c’erano i miei amici, il venticello leggermente tiepido e le colline verdeggianti contornate da boschi e con qualche cascina qua e là. Tutte cose che mi mancavano, tutti aspetti a cui mamma aveva dovuto rinunciare. Solo per lavoro? A quanto pare sì, ma lo aveva fatto anche per cambiare la mia vita, dandole un pizzico di brio.

    Io fingevo di crederle ogni volta che me lo ripeteva, per convincermi che tutto sarebbe andato bene e che la nostalgia si sarebbe dissipata nel tempo. Ma, per quanta rabbia potessi provare inutilmente nei confronti di mamma, a New York avevo Eleonor e Lilianne e mi bastavano loro, per il momento.

    Sospirai, cercando di scacciare quei pensieri dalla mia mente mentre i miei piedi camminavano lungo i corridoi azzurro cielo della scuola. Erano diretti verso la mensa con un ritmo costante, poiché il mio inconscio ormai comandava a bacchetta, meglio della coscienza, e di questa cosa non potevo andare fiera. In fondo, nulla di me era abbastanza positivo da diventare una qualità.

    Diciamo che, per sembrare normale, cercai di alleviare un po’ della mia ansia fissando i miei piedi che facevano avanti e indietro, pensando che avrei potuto addentare il mio pranzo e distrarmi per un po’. Eppure, non riuscivo a nascondere la paura che mi circondava ogni volta che incrociavo lo sguardo di qualche studente che non conoscevo o che, comunque sia, non mi sembrava simpatico fin dalla prima impressione.

    Paura, strana questa parola vero? Una parola sola per esprimere mille sfumature di un’emozione negativa quanto positiva. Paura per un esame è differente dalla paura di perdere una persona cara.

    Ognuno ha paura di qualcosa, io ho paura di tutto. Tanto per fare un esempio: ho paura dei ragni, così come ho paura delle persone.

    Perché? Non lo so nemmeno io. Forse perché temo di essere ferita o perché temo i miei sentimenti. Strano anche questo, ma non mi sorprende più nulla.

    Per uscire dalla paura ci vuol coraggio, cosa che non avrò mai. Una cosa che non ho mai avuto, più che altro. Che cosa occorre per provare coraggio? Semplice, autostima, che mi manca da quando sono nata.

    Oppure ci vorrebbe qualcosa in cui credere, come dio o una persona importante e, anche qui, non ho nessuno in cui credere: ma ci provo.

    Ci vorrebbe anche amore, cosa che non ho mai provato, credo. Vorrei sapere le sensazioni, testarle sulla mia pelle, percepire le farfalle nello stomaco, respirare il profumo della persona che si ama e sfiorare quella chimica che ti attrae all’altro...

    Un’altra riflessione invase la mia mente, offuscandola di nuovo. Quando ciò accadeva, osservavo la realtà con superficialità, sembrando ubriaca o fatta. Mi potevo considerare normale su questo?

    Direi di no, almeno che non senta dire da qualcuno che gli accade la stessa cosa.

    Guardai svagata il piastrellato che costituiva l’entrata della mensa, bianco tendente al crema e una sottile striscia di piastrelle color azzurro polvere, decorato da una bacheca con segnato il menu e da un bastone per tende, senza le tende. Mi riportò alla realtà quella caratteristica che spesso scappava agli occhi della gente, ma mi rivedevo tanto in quel bastone, sempre lì ma mai nessuno si preoccupava per lui.

    Sospirai a pieni polmoni, sia per calmarmi sia per affogare i miei pensieri nell’anidride carbonica che avrei emesso seduta stante. Mi sistemai una ciocca di capelli ribelli che mi era caduta sulla fronte e, ahimè, passai attraverso i tavoli pieni di ragazzi e ragazze incrociati di fretta per i corridoi dell’immenso liceo.

    Anche lì, provai una sensazione di vuoto e disperazione che cercai di oscurare appena mi sentii chiamare da una delle due ragazze con cui avevo fatto amicizia.

    Sorrisi mentalmente e corsi da loro.

    Ivy! urlò Lilianne, sventolando una mano con una bottiglietta stretta fra le dita con le unghie perfettamente laccate di un color rosso autunno. Non arrivavi più, pensavamo che qualche bel ragazzo ti avesse intrattenuta per una conversazione. O magari che qualcuno ti avesse invitato a pranzo, continuò la ragazza sorridendo, io le scagliai uno sguardo di ghiaccio e, dopo, arrossii lievemente.

    Avete cambiato tavolo, dissi fredda e pacata, quasi come una lama. Potevate avvisarmi, come minimo. Cercai di sembrare più dolce questa volta, ma con scarso successo.

    Problemi con i gruppi dei nerd. Volevano a tutti i costi il tavolo dell’ala est, perché lì c’è campo, continuò Eleonor, tentando di oscurare la sua rabbia con un finto sorriso e con uno sguardo gelido.

    Almeno vi ho trovate, provai a confortarle guardandole con gli angoli delle labbra leggermente curvate all’insù, quel tentativo sembrò funzionare, e loro ricambiarono. Poi, incominciammo a mangiare dopo esserci scambiate un paio di sguardi.

    Tentai di aprire l’acqua, ma mi bagnai tutta sprecando metà bottiglia e facendo ridere le altre. Lo ammetto, faceva ridere questa cosa e, con tutta la naturalezza del mondo, alzai una spalla e addentai il panino con il solito condimento previsto da una dieta che seguivo da anni ormai, ma presi comunque delle patatine dal vassoio della mia vicina Eleonor.

    Spero che questo sgarro non rovini il mio tasso glicemico, perché il dietologo mi avrebbe ammazzata.

    Mentre mangiavamo, parlavamo e ridevamo a gran voce, fondendo le nostre chiacchiere al caos della mensa, che rimbombava giungendo alle mie orecchie come un rumore sordo. Le due, che mi supplicavano da almeno una mezz’ora, insistevano per portarmi a vedere la città che mi aveva tolto tutto, per distrarmi e per convincermi che la city non era poi così male come pensavo. Mi rivedevo molto in Hardin Scott di After per questa mia testardaggine, quando non vuole andare a Seattle con Tessa, per dei motivi che tende a tenere oscuri.

    Quanto vorrei un Hardin al mio fianco, ma i personaggi dei libri non esistono, per quanto ci voglia sperare.

    I pensieri che affollavano la mia mente vennero interrotti tutto d’un colpo, così come le chiacchiere delle ragazze che sedevano con me, dal chiudere della porta della mensa che dava sul retro e dall’ingresso di una banda di ragazzi che non avevo mai visto prima.

    Saranno stati sei o sette, tutti vestiti in modo simile, con colori freddi o cupi. Collane luminescenti, polsini di pelle, come i giubbini, e odore di fumo e menta. Volevo tapparmi il naso, anche perché avevano tentato di oscurare l’odore di fumo con mentine di sottomarca, di quelle che compri lungo le autostrade fuori città.

    Arriveranno da lì, pensai.

    Erano tutti di una corporatura muscolosa al punto giusto, con dei tatuaggi qua e là per gli avambracci. Per quanto volessi distogliere lo sguardo, la mia attenzione era incoraggiata dalla curiosità che faceva battere forte il cuore.

    Vidi un ragazzo che spiccava fra tutti gli altri, alto a sufficienza da superarmi di una decina di centimetri. Aveva i capelli di un rosso mattone mosso, raccolti in un ciuffo, che faceva da contrasto con il colore nocciola-verde dei suoi occhi perfettamente equidistanti dal naso, che era pari a quello di una statua greca. Le labbra sottili e le linee degli zigomi ben definite, così come la mascella. Era qualcosa che non avevo mai visto prima, nemmeno in Italia, dove si è abbastanza rinomati per i lineamenti del viso.

    Gli avambracci erano completamente privi d’inchiostro ed erano palestrati al punto giusto, valorizzati dalle maniche un po’ larghe della maglietta viola che indossava e che valorizzava anche i pettorali e gli addominali, che potei intuire fossero perfettamente scolpiti.

    Poco dopo incrociai lo sguardo del ragazzo in questione, che creò un sorriso malizioso sul suo volto, e un bagliore che attraversò i suoi occhi. Mi sentii sprofondare ma, per un istante, percepii un brivido lungo la schiena e le guance arrossarsi. Distolsi i miei occhi un attimo dopo. Lui sghignazzò e, dopo ciò, si sedette al tavolo dietro di noi. Facendomi sentire la sua presenza più vicina di quanto già non fosse.

    Scusate, ma chi sono questi ragazzi? Non li ho mai visti prima, sussurrai alle mie amiche per non farmi sentire, ma le loro risate coprirono tutte le mie parole in una botta sola.

    Temevamo che ce lo chiedessi, rispose Eleonor, mentre si sistemava una ciocca di capelli rossi dietro l’orecchio. Lui è Tom de Luca, sospirò.

    E sarebbe?

    Ah sì, è tra i ragazzi popolari a scuola, ma è solo uno dei seguaci di Zed, mimò le virgolette con le dita, che è suo fratello, il ragazzo più popolare della scuola, sussurrò per non farsi sentire, mentre io mi limitavo ad annuire.

    Solo questo? domandai storcendo il naso con fare distratto, per oscurare quella curiosità che cercavo di reprimere da quando avevo sentito il suo nome.

    Curiosa la ragazza, rise vivace Lilianne. Te la racconto io, visto che Eleonor ci impiegherebbe una vita. Bevve un po’ d’acqua, si sistemò dei capelli che le erano sfuggiti sulla fronte e incrociò lo sguardo di uno dei ragazzi entrati poco prima. Ma Tom era concentrato su altro. Tom de Luca arrivò qua l’anno scorso, presentandosi come fratello di Zed. Da quel che sappiamo sulla famiglia de Luca, il padre non aveva due figli, ma soltanto uno, ovvero Zed.

    Potrebbe essere stato adottato, o magari ha sempre studiato in un’altra scuola e ospitato in una casa famiglia, gesticolai, maledetto animo da italiana.

    Possibile. Ma, in un compito in classe, disse che veniva dalla Virginia, mentre agli esami di ammissione si presentò come proveniente dal Canada. Lo osservò, mentre il ragazzo era intento a fare una cosa con il tovagliolo e l’acqua. Non frequenta buona gente, come Zed, e lo vedi, non degna di uno sguardo nessuno, e se proprio lo fa, o finisce in una rissa o si scopa la ragazza che ha guardato.

    Detto questo, una morsa strinse il mio stomaco e si accese una lampadina d’allarme nella mia mente.

    Seriamente? Lui voleva… scoparmi?

    Sentendo questo, percepii come un pericolo e persi la fame improvvisamente. Forse dovevo scappare dalla mensa e avviarmi nella sala conferenze. Mi concessi del tempo per riflettere e, alla fine, rimasi seduta al mio posto tenendomi il mio rossore e il mio imbarazzo per quelle parole.

    Se lui avesse voluto prenderti, l’avrebbe già fatto. Ora ti sta osservando, ti studia, intervenne Eleonor. Sei nuova qui e, da quel che so io, è un ragazzo di cuore ma lo mostra a pochi. Insomma, la regola di protezione dei feudali per lui è come il pane: senza di quella non vivi, continuò, sbirciandolo di sottecchi.

    Io lo guardai nuovamente, incrociando per la seconda volta in poco tempo il suo sguardo profondo. Sussultai.

    Non ci sperare, non gli interessano le cose serie. Se sei brava a fare sesso, ti prende e considerati sua. La dote in quelle cose conta molto di più di quanto sembri, terminò Lilianne, facendo distaccare lo sguardo di entrambi. Ci eravamo guardati per una manciata di secondi e avevo potuto vedere, anche se con estrema facilità, del desiderio misto alla timidezza. Potei respirare un attimo.

    Tanto nessuno mi cercherebbe per quella roba, annuii per convincerle, anche se, per quanto volessi fingere, serviva a convincere me stessa. Ora, se non vi dispiace, devo andare a buttare le cose, mi alzai, sistemandomi i leggins e la felpa lunga fino alla vita.

    Loro annuirono sorridenti e mi dissero di ritornare, perché poi ci saremmo avviate assieme alla sala.

    Passai di fianco al tavolo del gruppo e, per mia grande sfortuna, non passai inosservata. In fondo, era scontato. Sapevo di avere un bel fisico e, spesso, i ragazzi me l’avevano fatto notare con apprezzamenti di vario genere, dai più volgari ai più semplici. Io ho un fisico nella norma. Girovita piccolo, portavo la terza, alta il giusto, fianchi accettabili, lato b desiderabile: in sostanza, ero la ragazza perfetta ma non troppo. Ero quella che avrebbe potuto stare a fianco di un bel fusto senza troppi problemi, ma non volevo. Sentii dei fischi d’apprezzamento, degli applausi e tutto accompagnato da dei sottofondi rumorosi. Procedetti per la mia strada, ma vidi Tom osservarmi con sguardo vigile, per poi appoggiarsi allo schienale della sedia con un braccio sullo schienale a fianco.

    Quando tornai indietro, diretta verso il tavolo, i ragazzi si limitarono a osservarmi con dei sorrisetti maliziosi e Tom, per quanto avesse potuto contenersi, mi accarezzò il fondoschiena accompagnando il tocco con tutte e cinque le dita, passandole piano, quasi desideroso.

    Io, sotto quel tocco, ebbi dei brividi e la nausea completò il quadro, facendomi respirare a fondo e accelerare il passo.

    Lilianne e Eleonor mi portarono fuori dalla mensa di corsa, per evitare che la situazione degenerasse, e mentre mi portavano via prendendomi per le braccia, incrociai ancora lo sguardo di Tom, che con le dita mi fece il segno a dopo. Rabbrividii.

    Non lo vidi alla conferenza e nemmeno lungo i corridoi, ore dopo. Decisi di dimenticarmelo e scossi la testa osservando la me riflessa nello specchio dei bagni vicino alla redazione del giornale scolastico per cui avevo deciso di lavorare.

    Mi avevano affidato una pagina del giornale che aveva chiuso da un po’ ma che gli studenti avevano voluto che fosse riaperta. Nessuno se l’era presa in carico tranne me che, con tanta fatica, ero riuscita a inserirla anche con un trafiletto in prima pagina. Riportavo riflessioni su un soggetto a mia scelta, più la scrittura di una storia d’amore con un so che di intrigante.

    Salutai velocemente i ragazzi della redazione, abbracciai Matt e corsi nel mio piccolo studio, illuminato dalla luce che passava attraverso le nuvole. Respirai profondamente e iniziai a tirare giù una bozza per l’articolo che sarebbe uscito circa sei giorni dopo.

    La falsità è la peggior forma di bugia. Per la società di oggi, invece, la falsità o la bugia si può coprire con la tecnologia o con qualsiasi forma di ritocco. Ma, pensateci, se scopriste che qualcuno non è realmente così com’è? Se mentisse solo per convenzione o per aumentare la sua popolarità? Che cosa fareste?

    Per queste cose ci sono persone che distruggono, altre che amano, e c’è anche chi vorrebbe solo e soltanto verità, facendo provare rimorso immenso alla persona che ha mentito.

    Personalmente, non reputo corretto che qualcuno debba distruggere una persona che magari ha mentito per difendersi. Non credo che amare e, quindi, incoraggiare quest’azione sia la cosa migliore da fare. Ma non reputo necessario neanche vendicarsi con il rimorso e la persuasione.

    Dico questo perché, nel bene o nel male, si fa tutto per un motivo, che va dalla paura all’amore. Che va dal semplice gusto di farlo al sadismo più puro. Per me, bisognerebbe indagare, capire quel motivo e iniziare un nuovo sentiero assieme per rimuovere quello sfizio.

    Come persona, con un cuore e con dei neuroni a specchio che funzionano, direi che la falsità è la migliore arma per distruggere una persona che ami, così come per poterla trovare per poi esser guariti.

    Terminato di digitare questo schizzo, strutturato in due colonne, con un carattere dodici e già corretto, stampai per me la riflessione e mandai via mail il lavoro a Ryan.

    Uscii dalla redazione e, vicino alla soglia, ci trovai appoggiato Tom, che giocava con un anello di acciaio. Gli passai di fianco, evitandolo e cercando di restargli indifferente. Cosa che mi riuscì abbastanza, cioè, riuscii a fare due passi, ma lui mi prese per un polso, stringendolo tanto da farmi socchiudere gli occhi. Poi, mi portò a sé.

    Ivy, giusto? Piantò il suo sguardo nel mio, con quell’intensità che poteva farti innamorare di lui, quasi subito. Chiusi gli occhi per un attimo e poi annuii.

    Da dove vieni, Ivy? domandò, mentre le sue mani scorrevano lungo il mio fisico.

    Dall’Italia, sussurrai, ma che cosa…

    Avrei dovuto intuirlo, il tuo accento si sente parecchio, disse sicuro di sé. E allora, che cosa ti ha portato qui? bisbigliò al mio orecchio.

    Nulla che ti riguarda, sospirai. Cosa mi stava facendo? Le cose che percepivo erano poche, poiché la mia mente era offuscata, e per quanto volessi, il suo tocco era diventato parte integrante delle necessità del momento. Cercai di farmi sentire: Ora lasciami andare.

    Sarai mia prima o poi, mi guardò negli occhi nuovamente, con una luce quasi divertita.

    Non credo proprio, terminai, andandomene via, il più lontano possibile da lui.

    Lui è pazzo Ivy, ti manderà fuori di testa se continua così, pensai distrutta, appena la mia mente si liberò dal picco di emozioni.

    2

    Si ha necessità di qualcosa quando si sente un vuoto dentro e il bisogno di colmarlo.

    Ovviamente, non tutti ci riescono. C’è chi lo tiene lì, a parte, in

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