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La studentessa e altri racconti
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La studentessa e altri racconti
E-book220 pagine2 ore

La studentessa e altri racconti

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Info su questo ebook

Questa raccolta di racconti brevi di Dazai Osamu affronta il periodo centrale della sua opera, che coincide grossomodo con la Seconda Guerra Mondiale: si parte con il vertiginoso flusso di coscienza di una studentessa, una ragazza in procinto di diventare donna, con tutti i dubbi, le ansie, le contraddizioni, gli sbalzi d’umore tipici di un’adolescente. Dazai quindi indugia sulla descrizione dei coraggiosi e un po’ maldestri tentativi letterari dei membri della famiglia Irie, tra spassosi sproloqui di matematica, «medaglie al valore familiare» e omaggi a Hans Christian Andersen. Seguono viaggi fantastici tra sirene spietate e samurai orgogliosi, spiriti floreali e persone comuni dal pollice verde soprannaturale, studiosi perseguitati dalla malasorte e corvi parlanti, il tutto caratterizzato da un intenso realismo e una spiccata tendenza iconoclasta, senza però rinunciare a momenti di straordinario calore emotivo e di vicinanza alle sensazioni del lettore.
LinguaItaliano
Data di uscita15 ott 2019
ISBN9788865643297
La studentessa e altri racconti

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    La studentessa e altri racconti - Dazai Osamu

    4

    DAZAI OSAMU

    LA STUDENTESSA

    E

    ALTRI RACCONTI

    DEL CIARLIERO

    ZHANG DAMIN

    Traduzione e postfazione di Alessandro Tardito

    Traduzione dal giapponese di Alessandro Tardito

    © Atmosphere libri 2019

    Via Seneca 66

    00136 Roma, Italy

    www.atmospherelibri.it

    info@atmospherelibri.it

    ISBN DIGITALE 9788865643297

    Indice

    La studentessa

    Joseito

    Alzarsi la mattina è sempre interessante, mi ricorda quando giochiamo a nascondino. Sono accucciata dentro l’armadio, è buio pesto, quand’ecco che tutto d’un tratto Deko spalanca la porta scorrevole e urla «Trovata!», mentre vengo inondata dalla luce del sole. Un bagliore accecante seguito da una pausa di disagio, poi sbuco fuori dall’armadio e mi riaggiusto il kimono sul davanti, mentre il cuore mi batte all’impazzata. All’inizio sono un po’ imbarazzata, ma in un attimo mi sento irritata, scocciata. Sì, provo qualcosa di simile, ma non proprio così. Qualcosa di ancora più insopportabile. È come se stessi aprendo una scatola, solo per trovarci all’interno un’altra scatola. Così apro quella scatola più piccola e dentro c’è un’altra scatola, e poi un’altra, e un’altra ancora; altre sette, otto scatole, sempre più piccole, e continuo ad aprirle, fino a quando ne rimane una minuscola. La apro con delicatezza e… niente. È vuota. Ecco, più o meno è questo quello che sento. E comunque è una sciocchezza quando dicono che gli occhi si svegliano di colpo. All’inizio sono annebbiati e intorpiditi, poi pian piano la cispa scende verso il basso e le palpebre iniziano a salire, infine i miei occhi si aprono stancamente. Le mattine mi sembrano una forzatura. Sono così sature di tristezza che non riesco a sopportarle. Davvero, le odio. Di mattina non sono un bello spettacolo: le mie gambe sono così stanche che già non ho voglia di combinare nulla. Mi chiedo se sia perché non dormo bene. È una palla quando dicono che la mattina ci si sente in forma. Le mattine sono grigie. Sempre. E completamente vuote. Quando sono a letto la mattina, sono sempre così pessimista. Sul serio, è terribile. Tutti i miei rimpianti vengono a galla in un colpo solo, e il mio cuore si ferma, agonizzante.

    Le mattine sono il male.

    «Papà» provo a chiamare timidamente. Mi alzo di scatto e ripiego il futon, insolitamente imbarazzata e felice. «Oooh issa!» mi ritrovo a dire tra me e me mentre lo sollevo. Non avrei mai pensato di essere quel tipo di ragazza che usa espressioni da sempliciotti come oooh issa. È qualcosa che direbbe una vecchia. Che schifo. Come diavolo ha fatto a uscirmi un’espressione del genere?! È come se, da qualche parte dentro di me, ci fosse nascosta una vecchia e sto male al solo pensiero. Mi sento davvero depressa, proprio come quella volta in cui mi ero disgustata per il modo di camminare di una zoticona e mi ero accorta che camminavo esattamente come lei.

    Di mattina non ho mai fiducia in me stessa.

    Mi siedo davanti allo specchio in pigiama e mi guardo. Senza occhiali, la mia faccia appare sfocata e umidiccia. I miei occhiali sono la cosa che odio di più della mia faccia, ma hanno anche degli aspetti positivi che gli altri forse non possono capire. Mi piace togliermeli e guardare in lontananza. Tutto diventa sfocato, come in un sogno o uno zootropio. È bellissimo! Non riesco a vedere nulla di sporco. Solo cose grandi, colori vividi e luce. Mi piace anche togliermi gli occhiali per guardare la gente. Tutte le facce attorno a me sembrano belle, gentili e sorridenti. Ma soprattutto, quando sono senza occhiali non mi sogno nemmeno di mettermi a discutere con qualcuno, né sento il bisogno di fare dei commenti maliziosi. Tutto quello che faccio è starmene in silenzio, con lo sguardo assente. In quei momenti, se penso che mi vedono come una bella, giovane donna, non mi preoccupo troppo di essere al centro dell’attenzione. Me ne sto tutta tranquilla a crogiolarmi nei loro sguardi.

    Ma gli occhiali li odio comunque. Quando li indossi la tua faccia perde ogni caratteristica. Passione, grazia, furia, fragilità, candore, tristezza… le lenti impediscono a qualsiasi emozione di filtrare. Ed è curioso come diventi impossibile comunicare con i propri occhi.

    Gli occhiali sono come fantasmi. Il motivo per cui li odio così tanto è perché penso che gli occhi siano la parte più bella delle persone. Anche se non possono vedere il tuo naso, o hai la bocca nascosta, bastano gli occhi. Occhi che possano ispirare chi li guarda a vivere con più bellezza. Ma i miei occhi per gli altri sono come dei piattini, niente di più. Quando me li guardo da vicino allo specchio sono una delusione. Persino mia madre dice che ho degli occhi anonimi. Non hanno alcuna luce. Sono come dei pezzi di carbone, non so se mi spiego. È terribile. Quando li guardo allo specchio, ogni singola volta, penso a quanto vorrei avere degli occhi che brillassero lievemente. Degli occhi di un blu intenso come un lago, o che potessero riflettere il cielo infinito solcato da quelle nuvole che si vedono qua e là quando si è coricati in mezzo a un bel prato verde. Occhi in cui si potrebbe vedere persino l’ombra degli uccelli che l’attraversano. Spero di conoscere un sacco di persone con dei begli occhi.

    Oggi è maggio, mi dico, e il mio umore sembra migliorare un po’. In realtà mi sento felice. Presto sarà estate. Non appena esco in giardino noto dei fiori di fragola. Una realtà dove papà non c’è mi sembra così strana. Il fatto che sia morto, che non ci sia più, mi sembra una cosa impossibile da comprendere. Non me ne capacito. Mi manca la mia sorella maggiore, mi mancano i miei amici e le persone che non vedo da tanto. Non sopporto le mattine perché invariabilmente mi ricordano i tempi andati e chi conoscevo, e li sento tutti inspiegabilmente vicini, come l’odore dei ravanelli sottaceto che non va mai via.

    I cani Jappy e Dispy (lo chiamiamo Dispy perché è proprio un disperato) stanno arrivando di corsa. Si siedono davanti a me, ma coccolo solo Jappy. Ha un pelo bianco e brillante, Dispy invece è sporco. Mentre coccolo Jappy, sono ben conscia che Dispy è accanto a lui. Sembra che stia per mettersi a guaire. E so anche che Dispy è zoppo. Odio vedere quanto Dispy è disperato. È così patetico che non riesco a guardarlo, e per questo sono crudele con lui. Dispy ha l’aria di essere un randagio, per cui prima o poi lo acciufferanno e lo sopprimeranno. Con le zampe che si ritrova, sarebbe troppo lento per scappare. Corri, Dispy! Vai verso le montagne! Nessuno si prenderà mai cura di te, per cui puoi anche morire. Sono quel tipo di ragazza che può dire o compiere cose indicibili. E non solo nei confronti di Dispy, ma di chiunque. Posso infastidire le persone e le provoco. Sono davvero una ragazzaccia. Mentre sono seduta in veranda a carezzare la testa di Jappy, getto un occhio al verde lussureggiante delle foglie e sento un patetico bisogno di sedermi direttamente sulla terra nuda.

    Sento la voglia di forzarmi a piangere. Trattengo il respiro per un bel po’, per farmi irritare gli occhi, sicura di riuscire a spremere almeno una lacrima, ma niente… Forse sono diventata una ragazza impassibile.

    Mi arrendo e inizio a pulire casa. Mentre faccio le pulizie, mi metto a canticchiare una canzone dal film Tojin Okichi¹. Avverto la necessità di guardarmi attorno. Incredibile come io, che di solito vado matta per Mozart e Bach, senza accorgermene sia impazzita per una canzone di Tojin Okichi. D’altra parte, se continuo a dire oooh issa! quando metto via il futon o a canticchiare Tojin Okichi quando faccio le pulizie, sono senza speranza. Di questo passo, tremo al solo pensiero delle crudezze che potrei blaterare durante il sonno. Eppure c’è qualcosa di strano in tutto ciò, così mi fermo con la scopa in mano e sorrido tra me e me.

    Mi metto la biancheria che ho finito di cucire ieri. Sul corsetto ho ricamato una piccola rosa bianca. Il ricamo non si può vedere quando ho gli altri vestiti addosso. Nessuno sa che ce l’ho. Geniale!

    Mamma oggi è impegnatissima a organizzare il matrimonio di non so chi, così stamattina è uscita presto. Mamma si dedica alle altre persone sin da quando ero piccola, per cui ora ci sono abituata, ma è davvero incredibile come sia sempre perennemente in movimento da sempre. Impressionante. Papà non ha fatto altro che studiare, quindi a mamma è toccato fare anche la sua parte. Papà era ben lontano da ogni interazione sociale, mentre mamma ha sempre saputo circondarsi di belle persone. Non sembrava una coppia granché assortita, ma si sono sempre rispettati a vicenda. Chissà quante volte la gente avrà pensato Che bella coppia serena e senza aspetti sgradevoli! Oh, che sfacciata che sono!

    Mentre la zuppa di miso bolle, mi siedo all’entrata della cucina e fisso svogliatamente il bosco ceduo davanti casa. In questo momento ho la sensazione di essere stata qui a guardarlo per molto tempo e che continuerò a guardarlo così, seduta all’entrata della cucina, sempre nella stessa posizione, pensando alla stessa cosa, con gli occhi fissi sugli alberi di fronte. È come se passato, presente e futuro fossero precipitati tutti in un singolo istante. Ogni tanto mi capitano cose del genere. Sono seduta a parlare con qualcuno, e a un certo punto il mio sguardo si sposta sullo spigolo del tavolo e lì rimane, immobile. A muoversi è solo la bocca. In momenti come quelli ho sempre una strana allucinazione. Ho la certezza assoluta che, in precedenza, nelle stesse identiche condizioni, ho già vissuto la stessa conversazione mentre fissavo un angolo del tavolo, e la netta sensazione che questa stessa cosa continuerà a capitare per un tempo indefinito sempre allo stesso modo. Quando passeggio per un sentiero di campagna, non importa quanto sia distante, sento sempre di esserci già passata. Mentre cammino e strappo qualche foglia di soia che spunta sui lati del sentiero, penso sempre che su quel sentiero sono già passata e ho già strappato quelle foglie di soia, e sono convinta che continuerò a passeggiare per quel sentiero e strappare quelle foglie di soia sempre nello stesso punto, ancora e ancora. E mi capitano altre cose! A volte mi sto facendo il bagno e mi ritrovo a buttare un occhio sulle mie mani. In quei momenti mi convinco che, fra chissà quanti anni, mentre mi farò il bagno, tornerò a questo esatto momento quando un’occhiata alle mie mani si è trasformata in uno sguardo fisso, e mi ricorderò come mi ero sentita. Mi deprimo sempre quando penso a queste cose. Una volta, quando stavo mettendo del riso in una ciotola ohitsu², sono stata investita da quella che beh, forse esagero a chiamarla ispirazione, ma era qualcosa che ha acceso tutto il mio corpo, che mi ha attraversato… come posso dire… come un fulmine di filosofia. Mi sono lasciata trasportare, così la mia testa e il mio petto sono via via diventati trasparenti, come se sopra di me fosse disceso il senso stesso della mia esistenza e senza fare rumore, docile come dei tokoroten prima che diventino spaghetti, mi sono sentita alla mercé di queste onde, con la leggera, splendida sensazione che avrei potuto continuare a vivere così. In realtà non si trattava di un subbuglio filosofico, ma questa sorta di premonizione di una vita tranquilla e furtiva, come quella di un gatto cleptomane, era piuttosto spaventosa, e di sicuro non avrebbe portato a nulla di buono. A rimanere in quello stato troppo a lungo si rischierebbe di finire come posseduti. Un po’ come Gesù Cristo. Ma l’idea di un Gesù Cristo donna è terrificante.

    Eppure ultimamente, visto che sono sempre a poltrire e non ho esattamente molto di cui preoccuparmi, mi chiedo se non sia diventata insensibile alle centinaia, migliaia di cose che vedo e sento ogni giorno, e con mio stupore quelle cose finiscono per assalirmi come fantasmi, una dopo l’altra.

    Mi siedo a fare colazione da sola nel salotto. Sono i miei primi cetrioli dell’anno. È come se l’estate arrivasse con il verde dei cetrioli. Il verde dei cetrioli di maggio è triste come un cuore vuoto. Una tristezza che pizzica, che fa male. Quando mangio da sola nel salotto sento una voglia matta di viaggiare, di saltare su un treno. Apro il giornale. C’è una foto dell’attore Jūshirō Konoe. Mentre mi chiedo se sia o meno una brava persona, decido che la sua faccia non mi piace. Sarà la sua fronte. Le cose che preferisco nei giornali sono le pubblicità di libri. Un carattere per riga, al costo di cento o duecento yen l’uno. Chi le scrive deve fare del suo meglio. Ogni singolo carattere, ogni singola frase deve avere il maggior impatto possibile, per cui tutte queste frasi finemente cesellate scoppiano di dolore. Parole così care devono essere piuttosto rare al mondo, e in qualche modo mi piace. È elettrizzante.

    Finisco di mangiare, chiudo la porta a chiave e vado a scuola. Mi dico D’accordo, non piove, però voglio passeggiare con quel bell’ombrello che mamma mi ha dato ieri!, così lo porto con me. Mamma usava questo parasole tanto tempo fa, quando si era sposata. Sono orgogliosa di averlo trovato. Quando ce l’ho con me mi sento come se stessi passeggiando per le strade di Parigi. Ho pensato che un parasole antico e onirico come questo diventerà di moda quando finirà la guerra. Starebbe benissimo abbinato a un cappello a cuffietta. Sì, un kimono orlato di rosa e a collo largo, un paio di guanti dal laccio nero e una bella viola infilata nella tesa larga del cappello. E quando fuori sarebbe tutto fiorito, me ne andrei a mangiare in un ristorante parigino, e me ne starei a osservare i passanti con la mia guancia morbidamente appoggiata su una mano, fino a quando qualcuno mi toccherebbe delicatamente la spalla. E sarebbe subito musica, un valzer di rose. Oh, che meraviglia!

    In realtà era solo un vecchio ombrello lacero con un manico scheletrico. Che sciocca che sono! Proprio come la piccola fiammiferaia. Decido di strappare solo qualche erbaccia e andarmene.

    Dunque mentre passo, dopo aver superato la porta di casa, ne tiro via un po’ davanti all’entrata come gesto di volontariato per mamma. Chissà, magari oggi succederà qualcosa di bello. Le erbacce saranno pure tutte uguali, ma alcune sembrano davvero implorarti di essere strappate, mentre altre vorrebbero essere lasciate stare in pace. Le erbacce carine e quelle meno carine sembrano esattamente identiche, ma in qualche modo sono nettamente divise tra quelle che hanno l’aria innocua e quelle che hanno un aspetto orribile. È una cosa senza senso. Ho come l’impressione che le ragazze amino e odino in modo del tutto arbitrario. Dopo una decina di minuti di erbacce strappate corro in magazzino. Quando vado a spasso per le strade in mezzo ai campi mi sento come se dipingessi un quadro. Sul tragitto, imbocco il sentiero in mezzo al bosco del santuario. È una scorciatoia che ho scoperto io. Passeggiando, guardo al di sotto del sentiero e qua e là intravedo macchie di terreno con piccole piante di orzo. Mi basta vedere quest’orzo così verde per capire che i soldati erano qui anche quest’anno. Proprio come l’anno scorso che in questi boschi nei dintorni del santuario si erano fermati molti soldati, e dopo un po’ di tempo ero venuta da queste parti e avevo trovato l’orzo che cresceva, esattamente come oggi. Ma le piantine non erano cresciute di più. E quest’anno è lo stesso: i semi sono usciti dalle spighe a causa dei cavalli dei soldati e hanno iniziato a germogliare, ma in questa radura non c’è troppo sole, così i gambi sottili non possono crescere più di tanto e probabilmente appassiscono.

    Esco dal sentiero e vicino alla stazione mi ritrovo sulla strada insieme a quattro o cinque operai. Come al solito, dicono su di me delle frasi che è meglio non ripetere. Esito per un attimo, indecisa su cosa fare. Vorrei superarli, ma per farlo dovrei passare in mezzo a loro, e avrei paura. D’altra parte, a starmene lì senza dire niente, ad aspettare per un bel po’ che si siano allontanati abbastanza, ci vorrebbe ancora più fegato. Sarebbe maleducato, e magari si arrabbierebbero. Il mio corpo inizia a scaldarsi e sento che sto per mettermi a piangere. Provo vergogna a sentirmi sul punto di scoppiare in lacrime, così mi volto e comincio a ridere in direzione degli operai, poi piano piano inizio a camminare dietro di loro. Potrebbe finire lì, ma anche dopo essere salita sul treno il mio senso di umiliazione non se ne va. Come vorrei crescere in fretta, diventare più

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