Come un riccio nelle mutande
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Info su questo ebook
Gianluca Gualandri è nato a Castelnuovo Monti, sull’Appennino Reggiano, il 30 settembre del 1963. Ha pubblicato due romanzi: Fagiani si nasce… Lupi si diventa e Aliti di Follia entrambi con Albatros il Filo (2011 e 2014) ed un paio di racconti su riviste specializzate. L’ultimo libro, uscito per Europa Edizioni, si intitola Storie, storiacce ed incubi da dopo sbronza.
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Anteprima del libro
Come un riccio nelle mutande - Gianluca Gualandri
Gianluca Gualandri
Come un riccio nelle mutande
EDIFICARE
UNIVERSI
© 2019 Europa Edizioni s.r.l. | Roma
www.europaedizioni.it
I edizione elettronica settembre 2019
ISBN 978-88-5508-527-4
Distributore per le librerie Messaggerie Libri
EVERYDAY DREAM
E tu dormi, dormi… Mentre i miei sogni crollano…
.
Vasco Rossi
Ultimamente faccio un sogno ricorrente.
A volte persino ad occhi aperti.
Sono in un ospedale. Non so quale, né in che città, ma deve essere in Italia perché l’infermiera che mi accompagna parla la mia lingua.
Mi trovo in una corsia con una strana luce che arriva un po’ da tutte le parti ai lati del corridoio e noi camminiamo lì in mezzo. Lentamente.
Ad un certo punto troviamo, sulla sinistra, una grande stanza chiusa solo da una di quelle vetrate che si vedono nei reparti di ostetricia, con tutti i bambini appena nati lì in esposizione.
Solo che la stanza è piena di lettini vuoti.
Tutti o quasi.
Nell’unico occupato c’è seduto un bambino.
È un letto alto, di quelli con il materasso a più di un metro da terra. Un sacco di macchinari intorno.
Lui ha le gambine penzoloni, è seduto sull’orlo e si appoggia con le mani al margine del lenzuolo.
Addosso solo il camice bianco dell’ospedale. Lo sguardo perso a fissare il vuoto lì davanti.
Ha un faccino bello e tristissimo mentre i piedi nudi dondolano avanti e indietro.
È una sensazione di pena grandissima quella che mi prende.
Sento qualcosa che difficilmente ha parentele con quanto provato finora.
Senza voltarmi chiedo all’infermiera chi è e come mai è tutto solo.
Mi risponde che è orfano, lo hanno abbandonato alla nascita e si trova lì perché è sieropositivo praticamente da sempre. Forse i genitori lo sapevano e non se la sono sentita. Forse lo avrebbero abbandonato comunque.
Deve avere intorno a cinque o sei anni.
È talmente piccolo e triste.
I bambini, di solito, alla sua età sono fuori a giocare con gli amici, non chiusi in una stanza di ospedale che sembra un acquario.
Chiedo all’infermiera se c’è qualcuno che si occupa di lui.
Mi risponde che, a parte l’Istituto a cui è affidato, gli unici esseri umani con cui ha contatti sono loro.
Sento la voglia di caricarmelo sulle spalle e portarlo al parco a correre.
Come facevano i miei amici un tempo.
Cerco una porta per entrare. Devo andare lì a parlare con lui e mi sembra che l’infermiera, che continuo a non guardare in faccia, mi fissi in modo strano.
Aspetta che annaspi un po’, alla fine mi indica un angolo della vetrata.
Cammino piano, quasi senza fare rumore. Apro.
Prima di alzare lo sguardo aspetta che io sia lì davanti.
Poi mi fulmina.
Mi basta guardare quegli occhi una volta sola. So già che non posso abbandonarlo li.
Mai più.
Gli dico un ciao
che mi suona cretino.
Risponde buongiorno signore
con una voce piccola che sembra arrivare da ogni punto della stanza.
Mi sento male ma sorrido e lo fisso.
Anche lui mi fissa, ma non sorride. Probabilmente si sta chiedendo cosa voglia da lui lo strano essere allibito che ha davanti. Se in vita sua ha visto più di un paio di telegiornali è comprensibile.
Le sue mani sono bianchissime, piccole, fanno tenerezza.
Ti va una partita di pallone?
.
È una cosa assurda, ma è la prima che mi esce.
Non posso, signore
.
Perché no?
.
Dicono che potrei fare male a qualcun altro o ammalarmi
. Se possibile è diventato ancora più triste. Sta fissando il pavimento.
Vorrei dirgli che mi dispiace tanto, ma sarebbe cretino e poi sarà l’unica cosa che si è sempre sentito dire.
Non so che fare.
Mi si tronca il fiato.
Però… Però ho i soldatini. Possiamo giocare con quelli sul letto. Con le lenzuola ci vengono anche le montagne
.
Faccio segno di sì con la testa e respiro.
La scatola da scarpe esce dal comodino come per caso. Dentro c’è praticamente di tutto. Indiani, garibaldini, cosacchi vecchi e consunti.
Sembrano quelli che avevo da bambino… quasi.
Li tira fuori piano e mi dà i più belli. Poi giochiamo. Ma nessuno vuole uccidere quelli dell’altro. Alla fine sono tutti feriti e lui, che per la prima volta mi fa vedere qualcosa che assomiglia ad un sorriso, parla.
Dopo, però, loro guariscono, vero signore? Così ci possiamo fare delle altre battaglie
.
A bocca aperta gli dico di sì.
Sento il bisogno di abbracciarlo.
Lo faccio, ma si ritrae.
… Nessuno lo fa mai
.
C’è un gran silenzio.
Quella malattia, che a dirla forte ancora ti trema la voce, fa veramente molta paura.
Anche l’ignoranza.
Per la prima volta mi sento inutile, inadeguato.
Gli accarezzo la fronte con un dito.
È tornato a guardare nel vuoto.
Come se non fosse abituato all’affetto.
Ormai ho deciso. Lui esce da qui con me. Non mi interessa se pensano che sono pazzo.
Lo aiuto a raccogliere i soldatini e mi chiedo come fare. Nella nebbia del sogno rifletto per un attimo.
Sono scapolo e quantomai lontano dal matrimonio. Non sono ricco e lavoro per vivere. Passo per incostante in campo sentimentale e non ho neppure conoscenze importanti.
Non me lo affideranno mai.
Poi mi giro e succede qualcosa d’altro.
L’infermiera si è cambiata e, per la prima volta, vedo la sua faccia.
È bella e mi sorride appoggiata alla porta.
Un’idea ancora più pazzesca prende corpo. Ormai non ho limiti.
Più la guardo e più sono convinto che sia la cosa giusta.
Le faccio segno di avvicinarsi.
La luce la investe mentre va a mettersi dall’altra parte del bambino.
Prende la sua mano e lui la guarda quasi impaurito, però non la toglie.
Voglio portarlo a casa con me
.
Non esiste. Io non ho tutto questo coraggio… o questa incoscienza.
Lei mi guarda, poi fissa gli occhi su quella piccola testa e sorride di nuovo.
"Ho bisogno di una… di una moglie.
Anche solo per finta…
Anche solo il minimo indispensabile".
La luce intorno a loro cresce.
Basta un cenno della testa. Uno solo.
Dio mio accetta… accetta davvero.
Un attimo dopo ho il bambino in braccio e lei tiene la mia mano. Mi sento come se qualcosa dentro di me stesse sciogliendo tutto dalla testa ai piedi. Bellissimo e tremendo. Una forza mai provata, poi…
… Poi mi sveglio.
Con gli occhi pieni di lacrime ed il fiato grosso. La mano che stringe il materasso.
Mi rendo conto, poco a poco, che la realtà della mia vita mi sta aspettando.
Il lavoro, le rogne, le donne con gli artigli, qualche stronzo…
Fisso il soffitto e la sensazione, che tutte le volte mi arriva addosso, diventa sempre più nitida.
…
Non avrei dovuto svegliarmi…
Non avrei dovuto…
Mi presento perché è giusto così.
Sono uno dei protagonisti di questa storia. O meglio, sono quello che l’ha scritta.
Qualcuno di voi, probabilmente, si chiederà perché sono arrivato a buttare su carta fatti che sono piuttosto personali e magari anche come mai ho trovato il coraggio per farlo solo ora che sono passati più di 5 anni.
È un buon quesito, ma sono preparato, anche perché, prima che a voi, il dubbio di essere un po’ suonato è venuto a me.
Riguardo alla prima domanda credo che le ragioni stiano tutte in un senso di liberazione tipico dei bambini che combinano una marachella.
Non che prima non ne abbia mai parlato. Specialmente fra noi tre (le mie due compagne di viaggio ed io) il discorso è uscito fuori spesso. Però era come rimbalzarselo addosso. Restava sempre lì. Sul gozzo.
Dirlo a qualcuno che non c’era, cercando di non gonfiare le cose e restando il più possibile fedeli ai ricordi. Guardarsi dentro ed esporsi, ti mette a nudo, ti rende vulnerabile, ma aiuta molto ad accettare meglio le cose. Soddisfa una esigenza di chiarezza verso me stesso e verso gli altri.
In definitiva sentivo il bisogno di esternare, come Cossiga.
Spieghiamoci subito. Non pretendo di avere detto l’assoluta verità. Ho solo raccontato le cose come io le ho vissute e sentite. Come mi sono rimaste nella memoria o nello stomaco, se preferite.
Ci tengo a precisare che, da parte mia, qualsiasi tipo di pretesa sta a zero. A parte un paio di persone, credo che nessuno leggerà mai questa cronaca. Però erano ormai maturi i tempi e così l’ho fatto.
Spero solo che non riapra vecchie ferite a nessuno visto che il fatto che sia giunto il momento per me, non vuol dire che sia così per tutti.
Adesso però veniamo al secondo perché di questa ingiuria volontaria alla lingua italiana.
Come mai solo ora?
Penso proprio si tratti di una questione metabolica.
Dovevo digerirla.
Era necessario che almeno buona parte di quel casino emozionale che mi era esploso dentro quella sera, fosse chiarito, filtrato, accettato.
Se poi consideriamo che io, già di mio, sono una persona dai tempi molto, ma molto, ma molto lunghi, il gioco è fatto.
Un consiglio.
Prendetelo per quello che è.
FLYING DOLPHIN
Vacanza.
Finalmente vacanza.
Sono rimasto solo questa volta. Degli amici non verrà nessuno. Resteranno tutti in posti molto più vicini a casa.
Così mi sono ritrovato con due donne. Mia cugina ed un’amica che non me l’ha mai data… E neppure promessa!
Agosto. Arrogante di caldo come al solito.
Aeroporto di Bologna. Viaggio prenotato.
Siamo in coda al banco del Tour Operator per andare a Mykonos. Una volta atterrati lì proseguiremo per Paros con un aliscafo.
Ne ho sentite parecchie sulla prima di queste due isole, non so fino a che punto siano vere. Certo il ragazzo davanti a noi non sembra molto mascolino.
Quando si sbilancia con il suo compagno di viaggio dicendo che si rifiuta di dormire nelle lenzuola ruvide dell’albergo, perché ha le sue di seta, mia cugina non regge più e scoppia a ridere.
Non è per quello che dice, è per come lo dice. Sembra una riedizione del Vizietto.
Si gira piuttosto inviperito. Se uno sguardo potesse incenerire, saremmo già solo fumo. Mia cugina si nasconde dietro di me. Meglio, ci prova. L’altra ragazza fa finta di niente.
Lui
torna nella sua posizione originale. La fila, nel frattempo, è andata avanti.
Chissà perché mi sono fatto convincere a venire in Grecia. Non è che io ci vada proprio pazzo per questa cosa qui. Era meglio se davo retta al mio fegato.
In fin dei conti, però, l’importante era muoversi. Sparire per un po’. Poi un posto valeva l’altro. Non è che si possa fare troppo i sofistici.
Barbara, mia cugina, ha una valigia che è il doppio di lei.