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Parole (Untold)
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E-book238 pagine2 ore

Parole (Untold)

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Info su questo ebook

Uno scambio di battute scritte su un cartellone pubblicitario, in calce al fondoschiena di una modella di intimo, diventa la chat di Livia e Jacopo. Lei cinica, disillusa e un po' scontrosa, dopo la morte della madre, si barcamena tra lo studio e un lavoro come cameriera. Lui, più maturo, è un manager affermato e con un matrimonio ai titoli di coda. L’incontro tra Livia e Jacopo è troppo potente ed esplosivo per accontentarsi dello spazio bidimensionale di un poster pubblicitario: i due si incontrano e scontrano, si cercano e sfuggono l’uno all’altra, dando vita a un rapporto perennemente in bilico tra ciò che potrebbe essere e la paura di lasciarsi davvero andare.
LinguaItaliano
Data di uscita11 dic 2021
ISBN9788831481748
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    Anteprima del libro

    Parole (Untold) - Anita Sessa

    1

    Livia

    NESSUNA DONNA NORMALE HA UN CULO COSÌ


    Metto il tappo al pennarello nero e guardo soddisfatta il mio capolavoro di arte urbana.

    Be’, qualcuno deve pure dirla la verità e io, dopo venticinque anni passati a lasciarmi propinare bugie, ho fatto della verità un vessillo da sfoggiare con orgoglio. La verità, in questo caso, è che quella bionda con il taglio di capelli svolazzante mi stava davvero sulle palle.

    Sì, okay. È solo un cartellone pubblicitario e non dovrebbero essere affari miei. Ma è lì, in bella mostra, a lasciarsi guardare sfrontato. E la tizia col caschetto, col suo corpo perfetto fasciato da un fazzoletto blu che pretende di essere un costume da bagno, alimenta irreali stereotipi di bellezza. E sì, mi sta decisamente sulle palle da quando l’ho vista questa mattina.

    Ero seduta dall’altro lato della strada, a tamburellare con la matita che uso come segnalibro sulla copertina sgualcita di una vecchia copia di Jane Eyre, quando me ne sono resa conto. Povera Jane, probabilmente sarebbe rabbrividita nel guardare un simile obbrobrio. Alla fine, non sono più riuscita a resistere: mi sono arrampicata con grazia inesistente sul muretto sotto al poster e ho dovuto scrivere la verità a caratteri cubitali.

    L’ho fatto per te, Jane.

    Il bus arriva e mi affretto a tornare alla fermata per salire a bordo, prima che mi lasci a piedi. Dal finestrino do un’ultima occhiata alla mia opera d’arte e non mi sento minimamente in colpa. Essere sinceri non dovrebbe mai farti sentire in colpa, ma dovrebbe essere uno dei principi di base dell’esistenza dell’essere umano. Purtroppo, la sincerità è una virtù e in quanto tale è assai rara.

    Non fa comunque molta differenza. Sono abituata al marciume che galleggia sulla superficie del mondo e so che per la sincerità bisogna scavare a fondo. Solo che non ho più la forza, tantomeno la voglia.

    Prima ero diversa e ancora ricordo la sensazione di provare qualcosa di vero, un’emozione, guardare tutto con gli occhi di chi spera nel buono della vita. Alle volte mi manca essere quella ragazzina, ma mai troppo. Mai tanto da farmi desiderare di lasciarmi andare alla vaga ineluttabilità della vita.


    Entro in aula mezz’ora più tardi, domandandomi per l’ennesima volta cosa mi spinga a venire qui e a frequentare un corso che odio per cercare di immagazzinare nozioni di una materia che odio. Eppure, continuo a farlo: vengo in aula, prendo posto dove capita e apro il libro alla pagina giusta, cercando di concentrarmi sulle parole.

    Sono sempre stata affascinata dall’inchiostro scuro impresso sui fogli chiari. Sono un’impronta, le parole. Affermano qualcosa, insinuano dubbi, sottolineano certezze e lo fanno nel tempo. Per sempre, nel migliore dei casi. E sono l’unico per sempre in cui mi concedo ancora il lusso di credere. Hanno un loro significato preciso, non sono mai solo parole ma idee, pensieri, frasi, grida di gioia o urla disperate. E diventano lettere, libri, messaggi che portiamo nel cuore. Segnano inizi e addii.

    Spesso mi perdo ad accarezzare con i polpastrelli quelle linee sottili, seguendone l’andamento e cercando di assorbirle e capirle mentre vado avanti in quel niente nebuloso che è la mia vita, stando bene attenta a non mischiarmi con il niente nebuloso di qualcun altro.

    La verità è che sola funziono, e anche alla grande. Ho carattere, determinazione, estro nei giorni migliori. Tutto quadra, niente è fuori posto. In due, invece, diventa complicato. Il mondo si agita e si scompone, perdo me stessa e non è più quello che voglio. Così evito le complicazioni, fluttuo invisibile tra la gente che a malapena si accorge della ragazza scheletrica e con i maglioni troppo larghi o le magliette troppo da nerd per essere presa in considerazione.

    Passo le giornate tra casa e università, per poi fiondarmi al lavoro in trattoria la sera, dove mi lasciano fare la cameriera nonostante io non sia l’emblema della solarità. Scivolo tra la moltitudine di esseri umani che mi circonda, senza mai riuscire davvero a sentirmi parte di qualcosa.

    Di qualsiasi cosa.

    A fine lezione, dopo tre ore di studio in solitaria nella biblioteca dell’università, ne approfitto per bagnarmi il viso arrossato dal caldo prima di andare a prendere l’autobus. Gli occhi stanchi, una volta di un azzurro più acceso di oggi, mi guardano con indifferenza, un po’ perplessi e decisamente assonnati. Sciolgo la coda di cavallo, lasciando libere le onde rosse, e mi massaggio la nuca con le dita.

    Faccio schifo.

    Non che mi importi, ma insomma… faccio schifo sul serio. Sotto gli occhi ho dei solchi scuri, che non spariranno a breve a causa delle ore di sonno perse per lo studio.

    Perdo definitivamente la battaglia contro Morfeo nel tragitto verso casa, anche se per fortuna la mia sveglia interiore mi dà uno scossone poco prima della mia fermata. Quando metto i piedi a terra, barcollo leggermente. Mi guardo in giro per controllare che l’intontimento non mi abbia fatto sbagliare: panchina nelle vicinanze della fermata del bus, muretto di cemento poco distante e culo di bionda ipercurata in bella mostra proprio sulla mia testa. C’è anche la mia attestazione di stima, quindi sono nel posto giusto.

    Mentre il bus si mette di nuovo in moto, alle mie spalle, qualcosa però attira la mia attenzione. Mi avvicino al poster pubblicitario col naso all’insù e socchiudo gli occhi per mettere a fuoco le parole scarabocchiate più e più volte con una biro nera, affinché fossero leggibili.


    UN CULO COSÌ POTREBBE RAPPRESENTARE IL SENSO DELLA VITA


    Storco le labbra, infastidita da quell’invasione. Era il mio quadro di arte contemporanea, non quello di uno sconosciuto-barra-sconosciuta-barra-sonoquasicertasiaunuomo-qualsiasi. E di certo non sono pronta a dargliela vinta.

    Maledicendo la mia scarsissima dotazione di centimetri in verticale, mi arrampico di nuovo sul muretto, armata del mio fidato pennarello, e scarabocchio al di sotto della sua stupida frase la mia replica.


    NON HAI LA PIÙ PALLIDA IDEA DI QUALE SIA IL SENSO DELLA VITA


    Idiota, vorrei aggiungere. E riesco a trattenermi solo per intervento divino.

    2

    Jacopo

    Ho uno stramaledetto bisogno di caffè.

    Mi sono alzato all’alba per finire un progetto che, a mio parere, non avrebbe davvero senso di esistere e ora il mio corpo reclama tutto il riposo che gli ho volontariamente tolto. Un po’ d’aria mi farà sicuramente bene e decido di parcheggiare l’auto per percorrere a piedi un po’ di strada e raggiungere il bar dove faccio colazione ogni mattina. Porto con me la ventiquattrore contenente tutti i documenti che necessitano di un ultimo controllo.

    Ho un’ora buona prima di dover andare in ufficio ed è meglio che ne approfitti per scovare tutto ciò che può essere passato al setaccio da Gianluigi. Non lo fa apposta ad essere così cagacazzi, ma si impegna troppo a ricoprire il ruolo del capo e, nonostante creda di essere simpatico, in realtà è piacevole quanto una spina nel culo.

    L’aria, questa mattina, è già afosa e portatrice di pessime notizie. Farà caldo, caldissimo anzi. E quando penso che la giornata non potrà essere più merdosa di così ecco che il motore della mia Audi inizia a fare i capricci. Sbotta, borbotta un paio di volte e faccio appena in tempo a svoltare nel vicino parcheggio prima che muoia definitivamente. Cerco di mettere in moto un paio di volte, una volta ancora.

    «Ma cazzo!»

    Sbatto i palmi aperti sul volante e il clacson suona, facendo voltare una donna poco distante. Alzo le mani in segno di scuse e lei mi fa una smorfia.

    «Cazzo!» impreco di nuovo, respirando a fondo e inserendo nuovamente la chiave nel quadro elettrico.

    Niente.

    Niente di niente.

    Okay, Jacopo. Pensa.

    Mi giro intorno per scoprire dove sono, poi apro Google Maps e cerco il modo più veloce per raggiungere Urbino entro mezzogiorno. Quando lo trovo, per poco non piango.

    Sì, perché io, Jacopo Ranieri, non prendo un bus da quando ho avuto tra le mani il foglio rosa a diciott’anni. Sconfortato, raccolgo la valigetta e i documenti accatastati sul sedile anteriore e chiudo la macchina abbandonandola al suo destino. Il mio, al momento, ha un nome preciso: 46R. E non posso perderlo.

    Arrivo in pochi minuti alla fermata del bus, dove dovrò attenderne altri venti prima di salire. L’idea di chiamare un taxi mi sfiora, ma sinceramente non mi va di svenarmi e poi, vedendo l’inizio di questa giornata del cazzo, non voglio rischiare oltre. Infilo tutti i documenti nella ventiquattrore e mi assicuro che sia chiusa, poi mi guardo intorno, in mezzo alla desolazione più assoluta. Potrei scommettere un mese di stipendio che tra qualche secondo vedrò passarmi davanti la classica salsola accompagnata dal sibilo del lieve vento del deserto. Vorrei sospirare, ma ho paura che l’eco sarebbe troppo risonante in questo vuoto cosmico che mi circonda.

    Faccio qualche passo sul marciapiede, mi siedo per un paio di minuti, poi mi rialzo irrequieto. L’attenzione si sposta sul cartellone pubblicitario alle mie spalle.

    Che.Gran.Culo.


    NESSUNA DONNA NORMALE HA UN CULO COSÌ


    Quella frase, scritta a caratteri cubitali appena sopra quel pezzo di opera d’arte, arriva quasi come una risposta saccente che mi fa storcere la bocca. Non so perché, ma sento il bisogno, la necessità fisica di rimettere a posto quella saputella. Perché sì, andiamo. Solo una donna avrebbe potuto scrivere una roba del genere. Noi uomini ci saremmo limitati al pensiero primordiale che ho avuto io pochi secondi fa.

    Riapro la ventiquattrore e frugo all’interno fino a scovare l’unica cosa in grado di permettermi di mettere in atto il mio intento: la mia fidatissima penna Bic nera, che porto sempre con me a dispetto delle stilografiche che mi hanno regalato in ufficio negli anni. Perché, oh, la stilografica è sempre il regalo giusto per il vicepresidente. Anche se sono sette anni che gliela si regala.

    Abbandono la valigetta a terra e mi arrampico sul muretto di fronte a me con una performance degna della migliore versione dello spot dell’Olio Cuore. Poi passo i restanti quindici minuti a rendere visibile la mia risposta alla saputella del cazzo.

    E, devo ammetterlo, erano mesi che non mi sentivo così elettrizzato.


    All’una e un quarto in punto esco dalla sala riunioni, salutando cordialmente l’assistente al catering. Gianluigi mi segue a ruota.

    «Li abbiamo impressionati?»

    Lo guardo sconvolto.

    «Se non sono rimasti impressionati da me, non so cosa potrebbe impressionarli onestamente.»

    «Coglione.»

    «Forse, ma sono un grande.»

    «Sì, un gran coglione.»

    «Chi ha chiuso l’affare della sua vita?»

    «Ancora nessuno. Ti aspetto più tardi per una sessione di brainstorming.»

    Lo lascio allontanarsi di qualche passo prima di controbattere.

    «Non puoi chiamarlo brainstorming se l’unico cervello che funziona è il mio.»

    Gianluigi scuote la testa e ride, senza voltarsi.

    «Coglione!»

    Rido anch’io, poi mi avvio nel mio ufficio per posare i progetti e uscire a pranzo.


    Dopo un litigio al telefono con il mio meccanico di fiducia, che mi aveva assicurato già due settimane fa che la mia auto non avrebbe avuto più problemi, raccatto le mie cose e mi avvio alla fermata del bus. Mi sento di nuovo un ragazzino, qui ad attendere in mezzo ad altri ragazzini.

    E forse è davvero un po’ così.

    E forse vale la pena accettarmi per quello che sono.

    Salgo sul pullman e mi siedo nel mezzo. Una banda di ragazzetti si fionda agli ultimi posti e inizia con gli schiamazzi. Poco distante da me una donna, straniera, culla il suo bambino che rischia di svegliarsi per il fracasso. L’autobus parte e io mi perdo a guardare quella Madonna con il Bambino, che di diverso dai quadri ha solo la carnagione e un velo che le copre gran parte del viso. I suoi occhi, però, sono gemme scure. E sono fissi su quel piccolo fagotto che ogni tanto aggrotta la fronte e fa smorfie.

    Chiara avrebbe dovuto resistere, mi ritrovo a pensare. Ma non l’ha fatto, non ce l’ha fatta. Non ha voluto farcela, direi. E io sono ancora qui a farmi divorare l’anima dal suo ricordo. Tiro fuori dalla tasca il cellulare e lo sblocco, facendo scorrere la lista dei contatti fino a trovare il suo nome.

    Chiara.

    Solo Chiara.

    Perché aggiungere che fosse mia mi è sempre sembrato superfluo.

    E invece…

    Con uno sforzo sovrumano, scaccio via i pensieri e infilo le cuffiette. Spotify mi riporta un po’ indietro, in tempi e luoghi dove sono stato felice. Poi non più. E va bene, non dico di no. Va bene perché non puoi forzare ciò che non vuole essere. Ma fa male comunque.

    Quando scendo dall’autobus, quasi un’ora dopo, il collo mi fa un male cane e mi riprometto di non imprecare più contro la mia auto. Il cartellone pubblicitario attira di nuovo la mia attenzione e, sotto il mio quasi triviale UN CULO COSÌ POTREBBE RAPPRESENTARE IL SENSO DELLA VITA, la saputella ha avuto la faccia tosta di replicare.


    NON HAI LA PIÙ PALLIDA IDEA DI QUALE SIA IL SENSO DELLA VITA


    «Stronzetta» borbotto.

    Ma sono venuto preparato dall’ufficio. Non so neppure io perché l’ho fatto. Stavo uscendo e ho visto il pennarello sulla scrivania di Francesca, la receptionist. Mi arrampico con rinnovata energia sul muretto e stappo il pennarello. Posso perdere tante occasioni nella vita, tranne quella di avere l’ultima parola con una citazione da Guida Galattica per gli Autostoppisti.

    Quella magnifica opera d’arte che era una volta il culo di questa modella si arricchisce di nuovi segni indelebili. Quando salto giù, un bellissimo e sfacciato 42 occupa gran parte dello spazio a disposizione.

    Beccati questo, saputella.

    3

    Jacopo

    Meccanico stronzo.

    E auto stronza uguale, ma non posso insultarla dopo l’orrore del viaggio di ieri. Che mi tocca anche rifare oggi, andata e ritorno prima di poter tornare nella civiltà. Solo che alla fermata dell’autobus, questa mattina, ci vado con uno spirito differente e aspettandomi qualcosa che, però, non trovo.

    Nessuna replica saccente, nessuna battuta.

    E avere l’ultima parola, in questo particolare caso, mi infastidisce. Mi infastidisce a tal punto che, per tutto il giorno in ufficio, non faccio altro che rimuginare sulla cosa.

    Un po’ me la immagino, la saputella.

    Altezzosa, con il broncio, perennemente incazzata con la vita. Magari un’attivista, politicamente impegnata. Senza neanche rendermene conto, traccio uno schizzo su un foglio, un profilo con un nasino alla francese e un po’ di efelidi. Sarebbe perfetta per la pretenziosa pubblicità di un tè inglese. O forse no. Le aggiungo una sciarpa voluminosa, un paio di occhiali spessi e la trasformo in quello che è davvero: una piccola saputella. Magari anche fan di Doctor Who. Così, per dire.

    Quel pensiero diventa un’ossessione, che mi accompagna per tutte le ore che mi intrappolano in questo edificio di Pesaro, tra l’aria del condizionatore e l’afa che entra da fuori. E, quando a metà pomeriggio riesco a uscire e riprendere la macchina infernale, stavolta più affollata delle volte precedenti, una piccola idea mi si forma nella testa.

    Non so se sia anche una buona idea.

    O meglio, non lo so fino a quando non vedo un piccolo elfo dai capelli rossi scendere dal bus che si sfolla esattamente quaranta minuti dopo il mio e guardare l’enorme

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