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Lo straniero indesiderato e il ragazzo del Giambellino: Storie di antifascismi
Lo straniero indesiderato e il ragazzo del Giambellino: Storie di antifascismi
Lo straniero indesiderato e il ragazzo del Giambellino: Storie di antifascismi
E-book291 pagine3 ore

Lo straniero indesiderato e il ragazzo del Giambellino: Storie di antifascismi

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Info su questo ebook

Attraverso una documentazione assolutamente inedita e la testimonianza di Lamberto Caenazzo, all’epoca giovanissimo partigiano del popolare quartiere milanese del Giambellino, Luigi Borgomaneri ricostruisce la figura e le imprese – a tutt’oggi dimenticate e incredibili, se non fossero documentate, – di Carlo Travaglini, un maturo intellettuale di origine tedesca che, espulso dalla Germania negli anni Trenta dopo essere stato rinchiuso in un lager, nella Milano occupata dai nazisti si beffa per mesi di Wehrmacht e Gestapo, alternando a spericolate azioni il salvataggio dalla deportazione di centinaia tra operai, ebrei e ex prigionieri di guerra alleati, finché, scoperto, continua la sua lotta contro il nazifascismo in una formazione partigiana nel Lecchese. Una biografia, quella di Travaglini, che nella sua unicità e nel suo divenire partigiano offre a Borgomaneri materia per ritornare sul tema della “scelta” al di fuori di schemi e rimandi ideologici o di partito, ragionando al contempo sulla necessità inderogabile di sottrarre la storia della resistenza a censure, a enfatizzazioni e soprattutto "all'oleografia a tutto tondo della madre di tutti i revisionismi, quella delle ricostruzioni a posteriori di partito e ufficiali".
LinguaItaliano
Data di uscita20 feb 2014
ISBN9788866331384
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    Lo straniero indesiderato e il ragazzo del Giambellino - Luigi Borgomaneri

    Lo straniero indesiderato e il ragazzo del Giambellino

    Indice

    PrefazioneRingraziamentiPrologoLe infinite vie dell’antifascismoRibelli in erba«… ein arme ehrlicher Jude galt ihm genau so viel wie ein armer ehrlicher Christ…» «… äußerst intelligente und schlaue Person, die zu allen…»Una pratica evasaGap e revisionismiIn montagna« ... la brigata Garibaldi la più bella, la più forte, la più ardita che ci sia ... »Tra colonnelli e Moto GuzziUna trattativa ambigua e un tiro mancatoTra rischi e accuse di tradimento«saper tener duro»La fine della 89ª brigata Garibaldi PolettiDa soli sui monti A MilanoUn irriducibile rompiscatoleAppendice di documenti e fotografie Fig. 1 Fig. 2 Fig. 3 Fig. 4 Fig. 5 Fig. 6 Fig. 7 Fig. 8 Fig. 9 Fig. 10 Fig. 11 Fig. 12 Fig. 13 Fig. 14 Fig. 15 Fig. 16 Fig. 17 Fig. 20 Fig. 21 Fig. 22 Fig. 23 Fig. 24 Fig. 25 Fig. 26 Fig. 27 Fig. 28 Fig. 29 Fig. 30 Fig. 31 Fig. 32 Fig. 33

    Lo straniero indesiderato e il ragazzo del Giambellino

    Storie di antifascismi

    Luigi Borgomaneri

    Fondazione ISEC - Istituto per la Storia dell'Età Contemporanea

    2014-02-16


    Dedica

    Certi uomini sono quello che i tempi richiedono. Si battono, a volte muoiono, per cose che prima di tutto riguardano loro stessi. Compiono scelte che il senno degli altri e il senno di poi stringono nella morsa tra diffamazione ed epica di Stato. Scelte estreme, fatte a volte senza un chiaro perché, per il senso dell’ingiustizia provata sulla loro pelle, per elementare e sacrosanta volontà di riscatto. Vitaliano Ravagli Wu Ming, Asce di guerra

    Coloro che sognano di notte nei ripostigli polverosi della loro mente, scoprono al risveglio, la vanità di quelle immagini; ma quelli che sognano di giorno sono uomini pericolosi, perché può darsi che recitino il loro sogno ad occhi aperti, per attuarlo. Thomas Edward Lawrence, I sette pilastri della saggezza

    Oggi, una storia della Resistenza, ha senso civile unicamente come corpo a corpo. Il corpo a corpo dei personaggi, impegnati a combattersi non soltanto per odio, ma per una nuova idea di umanità, di giustizia, di società. Corpo a corpo dello storico con loro. Per guardare non a santini né a mostri, ma a figure vere. E per cercare di compiere, insieme alle migliori fra queste, un nuovo passaggio di valori e di memoria. Sergio Luzzatto, Partigia 8

    Prefazione

    Santo Peli

    Lo straniero indesiderato è il frutto di un innamoramento, quello dell’autore per una storia singolare, che ha per protagonisti una strana coppia, costituita da un maturo quarantenne di origine tedesca e da un ragazzo quindicenne cresciuto nel popolare quartiere milanese del Giambellino, quello immortalato da Giorgio Gaber. Due biografie assai diverse, che trovano il loro punto di intersezione nell’estate del ’44, quando il ragazzo, Lamberto Caenazzo, con alcuni compagni, sale in cerca dei partigiani, sopra Lecco, sul versante occidentale della Grigna settentrionale. Hanno bisogno, contemporaneamente, di un rifugio e di nuove più affascinanti occasioni di combattimento, dopo essere stati protagonisti di arrischiate distribuzioni di volantini e di stampa clandestina in città. Qui Lamberto e i suoi amici si imbattono nel comandante Luca, un tipo bassino e magrolino, con un paio di occhiali dalle lenti spesse come due fondi di bottiglia, che parla con marcato accento tedesco, una persona strana ma anche piacevole, con un certo humor. Si tratta in realtà di Carlo Travaglini, italiano di madre tedesca nato e cresciuto in Germania, lo straniero indesiderato, appunto, ricercato da Gestapo e Feldgendarmerie per averne combinate di tutti i colori e per averli messi nel sacco per mesi.

    Dunque due biografie partigiane assai eccentriche, una connotata da caratteristiche di assoluta unicità, l’altra, quella del quindicenne Lamberto, assai modesta, quanto alle imprese, ma entrambe preziose, perché permettono all’autore di ragionare sulle infinite vie dell’antifascismo, sull’intreccio di circostanze e motivazioni che conducono per vie diversissime il ragazzo del Giambellino e l’intellettuale tedesco a condividere la scelta di mettere in gioco la vita. L’innamoramento per questa storia ha le sue prime motivazioni, mi pare, nell’opportunità che i documenti e le testimonianze dei protagonisti offrono per tornare ad affrontare la questione della scelta, osservandone genesi e sviluppi dentro il concreto farsi di due biografie.

    I percorsi che portano Lamberto, e con lui un gruppetto di adolescenti del Giambellino, a rischiare la vita, con l’incoscienza dell’età, e senza nessuno che li guidi e li metta in guardia, mettono in luce quanto di esistenziale e di pre-politico vi sia alla radice delle loro scelte. Si tratta di quattordicenni e quindicenni completamente sprovvisti di cultura politica, e di tradizioni famigliari, che iniziano autonomamente a sperimentare il gusto di essere fuori dal coro, per una reazione istintiva alla pervasiva invadenza della pedagogia fascista. Partono da ingenue e provocatorie sfide, fino a farsi più direttamente coinvolgere nelle maglie, assai larghe e anche permeabilissime, delle prime avventurose forme di organizzazione della propaganda antifascista. E l’urgenza di fare qualcosa, di essere contro, scaturisce, per vie disparate, da esperienze che a volte affondano nell’infanzia, da episodi che ne colpiscono indelebilmente la sensibilità. Nel caso di Lamberto, suore e fascismo divengono tutt’uno, dopo un infelicissimo soggiorno in una colonia climatica, dove irreversibilmente si cementa, in lui ragazzino, la convinzione che l’autoritarismo delle suore, il clima da caserma, le punizioni corporali e gli inni al duce discendano dalla medesima volontà di sopprimere ogni libertà individuale, di svuotare e annichilire ogni pulsione all’autonomia individuale. Per altri coetanei, che gli saranno al fianco in questa maturazione verso una scelta resistente, magari le esperienze decisive sono altre, ma alla radice, per tutti, vi è il bisogno di affermare una propria sfera di libertà, un astio verso l’arroganza, la prepotenza, la retorica che sfacciatamente nega la realtà. Ci consideravamo comunisti perché eravamo contro. Non eravamo contro perché eravamo comunisti. Il Partito comunista, osservato attraverso le loro peripezie, si disvela decisamente meno strutturato e meno radicato di quanto a posteriori si è ritenuto e tramandato; per loro, in definitiva, la politica era le cose che facevamo. Agli esordi della Resistenza il Partito comunista è più un simbolo e una suggestione fascinosa che un partito realmente radicato, i suoi contatti, nei quartieri popolari e persino nelle fabbriche, sono assai labili, ma la sua immagine misteriosa è ammantata del fascino di un manipolo di irriducibili che come l’araba fenice è continuamente risorto a minacciare il sistema. Per questi ragazzi il comunismo non è ancora un partito, un preciso programma, un’ideologia; certo, è un nome che incarna e riassume ciò che il fascismo odia di più. Per loro, come per Carlo Travaglini, il comandante Luca, le ragioni di una scelta resistente non nascono da una cultura politica, dall’appartenenza ad un partito, né da un’ideologia strutturata, ma da qualcosa di più intimo, da ragioni che possono essere dipanate solamente fino ad un certo punto, e solamente ingaggiando un corpo a corpo, inseguendo i protagonisti anche a ritroso, nel loro processo di formazione, nel complesso costituirsi di un codice morale al quale resteranno poi fedeli per tutta la vita. In entrambi i casi, le future scelte rispondono, pare, soprattutto a una rivendicazione, costi quel che costi, di un’autonomia personale, di una indisponibilità ad obbedire, a piegare la testa; l’adesione ad un partito sarà sempre per loro un’occasione per passare all’azione, più che un investimento di fede.

    Luigi Borgomaneri segue passo passo queste biografie per carpirne il segreto, pur consapevole che una zona ineffabile, dove si celano le motivazioni più profonde, resiste a qualunque spiegazione deterministica: Non potevo non farlo, e per Carlo Travaglini non c’è altro da aggiungere, per spiegare una scelta antinazista e antifascista frutto di un proprio e personalissimo codice morale, che può essere assimilato forse a quel muto bisogno di decenza di cui ha parlato Primo Levi in Se non ora quando. Da sempre il futuro comandante Luca pare aver dichiarato una guerra privata ai nazisti. I primi guai, e tanto seri da costargli un processo e poi l’espulsione dal Terzo Reich, Travaglini se li va proprio a cercare in prima persona, come continuerà poi a fare anche nella Resistenza in Italia: nella Germania del 1935 inserisce in un suo romanzo una frase che è vetriolo per la politica nazista: Un povero onesto ebreo vale esattamente tanto quanto un povero onesto cristiano. Lo fa in piena consapevolezza delle conseguenze, in obbedienza a un credo civile, a un rigore morale, apartitico più che apolitico. E’ un eroe? Certo non del tipo classico, non ne ha il phisique du rôle; soprattutto,la sua è una rivolta individuale e personale, e come tale non spendibile politicamente. Ciò spiega perché, pur avendo un curriculum partigiano di tutto rispetto, il comandante Carlo Travaglini sia rimasto sostanzialmente ignorato, tenuto ben ai margini del pantheon resistenziale. E questa è un secondo tema, che percorre e sottende, come un basso continuo, tutta la ricerca di Borgomaneri, che più volte sottolinea e rivendica la necessità di sottrarre la storia della resistenza a censure ed enfatizzazioni, e alle icone delle versioni ufficiali, declinate - chi più chi meno - secondo interessi di parte e non di rado a scapito di altri combattenti, soprattutto se senza appartenenza partitica nel dopoguerra. Carlo Travaglini è appunto uno di questi combattenti, le cui imprese sono rimaste nel cono d’ombra dei senza partito. Ripercorrerne le tappe consente all’autore di apportare importanti novità alla storia della lotta armata a Milano, vicenda di cui, dai lontani anni Ottanta, egli è certamente il maggior storico. La ricostruzione di un attentato di cui finora non si aveva alcuna notizia, portato a termine il 14 dicembre 1943 da Travaglini e da altri tre ardimentosi, collegati o direttamente operanti nel primo gappismo milanese, offre infatti a Borgomaneri la possibilità di condurre un vero e proprio assalto all’arma bianca alla consolidata storiografia sui Gap. Di questo attentato, suggerisce Borgomaneri, non si è saputo nulla perché avviene al di fuori di ogni controllo, e secondo dinamiche talmente diverse dall’immagine rigidamente centralizzata che il Partito ha tramandato del funzionamento dei Gap, da essere incompatibile con tutta una consolidata narrazione, che ha espunto volontarismo, improvvisazione, spontaneismo. Da sole, aggiunge, queste componenti non sarebbero certo bastate; ma senza di esse, la resistenza armata non sarebbe stata possibile. Le ragioni di una mitizzazione, pienamente comprensibili nel corso della lotta, hanno poi finito per cristallizzarsi in un immaginario collettivo che va drasticamente ridisegnato. Grazie ai Gap, l’immagine di sé che il Partito comunista offre, durante la Resistenza, ma poi, irreversibilmente, anche in seguito, è quella di un partito monolitico, impermeabile ad ogni opportunismo, e anche ad ogni infiltrazione: il gappista è un comunista votato al sacrificio, e né la tortura né la più totale clandestinità ne possono intaccare la ferrea determinazione. Cedimenti alle sevizie, deviazioni, debolezze individuali o di gruppo, carenze e fragilità organizzative, non possono trovare spazio in una narrazione finalizzata all’esaltazione del gappismo come la forma più alta, più pura, più difficile e quindi più eroica sia della militanza comunista che della guerra partigiana. Come raccontare difficoltà, perplessità, umane fragilità, senza incrinare un pantheon, una galleria di icone sovrumanamente eroiche, e un’immagine del partito tetragono e senza debolezze? Si tratta ancora, a settant’anni dai fatti, di misurarsi con immagini e narrazioni mitiche, popolate di gesta eroiche seguite da morti esemplari, come quella di Dante Di Nanni, (recentemente rivisitata in modo criticamente impeccabile da Nicola Adduci) e di combattenti dalle doti militari e morali straordinarie, il cui modello di riferimento è costituito da Giovanni Pesce. Già nei precedenti lavori di Borgomaneri non mancavano cenni critici alle versioni ufficiali della vicenda gappista, ma è nei capitoli centrali dello Straniero indesiderato che l’autore finalmente ingaggia un serrato confronto con un immagine del gappismo sostanzialmente scolpita, una volta per tutte, dalla prosa di Giovanni Pesce, e del suo fortunatissimo Senza tregua (1967). A partire da un archetipo incarnato dal mitico Pesce-Visone, la narrazione canonica del gappismo ha comportato l’appiattimento delle diversità, ha censurato le improvvisazioni, le forzature volontaristiche e le scollature verificatesi in alcuni casi tra combattenti e dirigenza politica, l’esistenza di più gappismi, appiattiti su un unico modello derivante direttamente dalla tradizione comunista dei Franc-tireurs et partisans. Soprattutto, ha impedito di cogliere la dimensione umana delle debolezze e degli errori dei suoi protagonisti, sia pure valorosi, molti dei quali, non dimentichiamolo, poco più che ragazzi. Recuperare la storia coraggiosa e disperata dei ragazzi e degli uomini del primo gappismo milanese è la rilevante posta storiografica, e prima ancora etica, della appassionata ricerca di Luigi Borgomaneri. Se è vero, come anch’io credo, che sia urgente sottrarre drammatiche ed avvincenti scelte di lotta alla oleografia a tutto tondo della madre di tutti i revisionismi-quella delle ricostruzioni a posteriori di partito e ufficiali, allora questo libro costituisce un passaggio innovativo e coraggioso in questa direzione. Che poi continua a essere quella via maestra tracciata tanti anni fa da Italo Calvino, quando invitava a lanciare una sfida ai detrattori della Resistenza, e nello stesso tempo ai sacerdoti di una Resistenza agiografica ed edulcorata (Italo Calvino, prefazione del 1964 a Il sentiero dei nidi di ragno).

    Ringraziamenti

    Ringrazio Adelio Bonacina, Enzo Galasi e Monica Travaglini per le testimonianze rilasciatemi, il prof. Jörg Senf per il cortese soccorso alle mie insufficienti conoscenze della lingua tedesca, e Giovanni Giudici e Andrea Via per la premurosa disponibilità manifestatami nella consultazione della biblioteca e dell’archivio dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia.

    Alla professoressa Immacolata Amodeo, ad Alfonso Airaghi, a Roberto Cenati e a Giuseppe Valota, la mia riconoscenza per avermi generosamente messo a disposizione documenti e testimonianze da loro reperiti.

    Un ringraziamento particolare va a Heiko Koch, amico di vecchia data, per la paziente e discreta insistenza con cui mi ha per lungo tempo sollecitato a scrivere la storia di Carlo Travaglini, e per l’aiuto prestatomi nel reperimento della documentazione di fonte tedesca.

    A Gabriele Fontana, stambecco e gran conoscitore di ogni sentiero dei monti lecchesi, sono debitore della disinteressata condivisione – cosa rara - dei risultati e delle riflessioni critiche da lui maturati in anni di puntigliose e appassionate ricerche sulla storia partigiana di quelle zone.

    Last but not least, la mia gratitudine a Lamberto Caenazzo, la cui testimonianza, oltre ad offrirci uno spaccato del contributo giovanile alla lotta partigiana di città non inquadrato nelle organizzazioni strutturate dei partiti, ha integrato e reso possibile un utilizzo più proficuo della documentazione versata dalle figlie di Carlo Travaglini presso la Fondazione Istituto per la storia dell’età contemporanea di Sesto San Giovanni.

    Consapevole che al lettore non importi nulla, ringrazio ugualmente mia moglie per la pazienza e per tutte le attenzioni che, una volta ancora, mi ha manifestato anche nel corso di questo lavoro.

    Imprecisioni ed errori sono da addebitarsi esclusivamente a me.

    L. B.

    Milano, ottobre 2013

    Prologo

    Il morto che parla

    Come è venuto a casa, mi ha telefonato: Vediamoci subito che ti devo parlare. E infatti vado a casa sua e mi dice: Lamberto, ho trovato il contatto con quelli delle brigate di Moscatelli, che allora per noi era il massimo di quello che era la partigianeria, andiamo su con loro […] ci aspettano, vedrai, finalmente facciamo la resistenza seriamente, con le armi in pugno. Io ero tutto entusiasta. Vado a casa, dico a mia mamma parto ancora, me ne vado. Ma quando? Fra qualche giorno, una settimana, non so se era la metà di aprile, o giù di lì, praticamente sarà stato il 20 o il 21 […]. Ripartivamo per la montagna.

    Già preparato tutto quanto, quando, un paio di giorni prima Travaglini mi telefona: Lamberto, ferma tutto, vieni qua che parliamo. Vado e mi dice "è stato deciso che ci sarà l’insurrezione tra qualche giorno, quindi adesso noi restiamo qua, aspettiamo questi tre o quattro giorni poi facciamo qua quello che dobbiamo fare. […] E lì grande entusiasmo tra di noi e poi si è cominciato a pensare a quello che poteva essere il futuro, quando ci siamo accorti di quello che stava succedendo. In quei momenti lì sembrava che tutta Milano fosse diventata comunista. Bandiere rosse dappertutto, grande entusiasmo e tutto il resto. Ci hanno assegnato alla Decima Matteotti, che non so perché dovevamo diventare della Decima Divisione Matteotti anche noi, questa Divisione fantomatica, fantasma, creata solo raccogliendo pezzi a destra e a sinistra […] e noi ci siamo trovati improvvisamente con le tessere del Corpo volontari della libertà con scritto Decima Divisione Matteotti [1]. Allora manco pensavamo al motivo politico, più o meno, che poteva essere sotto questa nuova denominazione della nostra brigata ... e vabbé.

    Il mio compito era quello di andare con un gruppo di ragazzi, quasi tutti di quelli che erano con me in Giambellino[2], quattro o cinque che erano…, ci hanno assegnato un auto con un autista e, sulla base delle segnalazioni che arrivavano al nostro Comando all’albergo Monforte in corso Indipendenza, ci mandavano in giro, tre o quattro squadre, a controllare, a verificare queste segnalazioni. A volte si trovava qualche fascista in casa – normalmente non si trovava mai nessuno – si portava lì al comando oppure direttamente a San Vittore[3] o al Palazzo di Giustizia, secondo i casi. Una volta, una mattina, capita questo Teodoro, uno che si era aggregato a noi. La maggior parte era gente del posto, che abitava lì attorno a corso Monforte e che quando ha saputo che lì c’era una base partigiana sono venuti lì subito a iscriversi, vogliamo collaborare con voi, non so se per interessi personali o veramente con degli ideali. E comunque Teodoro è venuto a dire "guardate che lì, in piazza Maria Adelaide[4] al 7 c’è un grosso gerarca, uno importante […]. Abbiamo preso la macchina e lì siamo saliti, non ricordo se al terzo o quarto piano. C’era questa porta […], abbiamo suonato il campanello e viene questa persona ad aprire, un omone alto, con in mano un rasoio, ché si stava facendo la barba, mezza faccia ancora insaponata:

    Cosa volete?

    Lei chi è?

    Io sono – e dice un nome – del Corpo volontari della libertà, mi hanno assegnato questo appartamento…

    Ma lei non è il tale gerarca…?

    No, io non sono quello, questo è un appartamento che era rimasto libero e siccome io sono arrivato da Roma insieme a questi del Corpo volontari della libertà, mi hanno assegnato questo appartamento.

    Vabbé, mi faccia vedere i documenti

    Documenti qui non li ho perché me li hanno tenuti quelli del Cln…

    In quel momento suona il telefono. Prendo la cornetta, dico pronto pronto, non risponde nessuno. Metto giù la cornetta. Faccio per riprendere il discorso: guardi, se non ha i documenti deve venire con me … e suona ancora il telefono. Risponda lei, gli ho detto. Quello risponde: ah, sì, sì avvocato … guardi ci sono qua i partigiani che chiedono i miei documenti … vuole parlargliene lei? Perché sa, i documenti li ha lei, io qui non posso… e mi passa la cornetta.

    "Io sono l’avvocato ……, lei chi è?"

    Sono un partigiano delle brigate Garibaldi. Questa persona non ha documenti, non sappiamo chi sia, ci risulta che qui abitava un gerarca, invece dice di non essere lui…

    Ah, ma no! Guardi che è una persona che è sotto la nostra protezione, gli abbiamo assegnato noi quell’appartamento ….

    Dico "Va bé, lei per telefono può dire di essere anche il padreterno. Adesso questa persona io la prendo, la porto al mio comando, lei viene

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