L'ossessione delle Brigate Rosse: (1968-1974) la parabola della “propaganda armata”
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"Se oggi decido di riesumare le visioni legate in modo intramontabile agli anni Settanta – i cortei, i volantini nelle piazze, i subbugli studenteschi, la radicalità degli scontri politici e sociali tesi a far saltare le cerniere di istituzioni sempre più vulnerabili – è per la lunga e collaudata realtà che i conflitti per un qualcosa di diverso non si sono mai sedati. Dall’evolversi delle BR in Lotta Continua, in Potere Operaio e nella sua stessa seconda fase di sanguinosa guerra criminale allo Stato passata sotto la famosa sigla Anni di Piombo – fino alla strage di Piazza Fontana, al sequestro Moro e oltre – nella continua erosione delle tradizionali certezze, siamo giunti alla jihad profetizzata da Oriana Fallaci, una più totale guerra dell’uomo contro l’uomo – ovvero la metafora della destabilizzazione generale che sta avendo il XXI secolo".
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Anteprima del libro
L'ossessione delle Brigate Rosse - Curzia Ferrari
(Una nota per cominciare)
La cronaca mi ha sempre interessato. Fa parte del territorio dove l’umanità combatte senza filtri, e si fanno conti immediati, forse sbagliati come i giochi politici nel tempo magari dimostreranno, ma si soffre sul campo in essa decifrando noi stessi. Il giornalismo d’opinione viene dalla cronaca. La fatica e l’astuzia di un tempo giocate su incontri privilegiati e non supportate dai fulminei mezzi tecnici d’oggi, hanno prodotto vere e proprie historiae – alcune hanno fatto epoca, altre sono rimaste nei nostri scaffali, magari sotto la forma frettolosa dell’appunto. Tale è la presente summa
che ho raccolto giorno dopo giorno, viva e forse non perfetta come quella degli specchietti in seguito redatti: mi ero appassionata, volevo scriverci un romanzo. Ne ho discusso alcune volte con il poeta e amico Franco Loi per la sua frequentazione (conflittuale) con due importanti elementi del nascente Sessantotto, la cervellotica fondazione del CIP (Centro Internazionale Politico) e la comune quanto lontana appartenenza al PCI – una sosta, per me brevissima, lampeggiante – il video di un sistema da cui molta letteratura italiana è nata (come è nata quella russa, si dice, da Il cappotto di Gogol’): incalzata da altri problemi, ho lasciato che i fogli tornassero a dormire nel mantello d’inchiostro sempre più sbiadito della mitica Lettera 22.
Il PCI non prese mai le distanze dalla lotta clandestina, anche quando assunse tratti di violenza politica. Cambiò atteggiamento solo dopo il golpe al presidente cileno Allende nel 1973 – ma questa è un’altra storia.
Se oggi decido di riesumare le visioni legate in modo intramontabile agli anni Settanta – i cortei, i volantini nelle piazze, i subbugli studenteschi, la radicalità degli scontri politici e sociali tesi a far saltare le cerniere di istituzioni sempre più vulnerabili – è per la lunga e collaudata realtà che i conflitti per un qualcosa di diverso non si sono mai sedati. Dall’evolversi delle BR in Lotta Continua, in Potere Operaio e nella sua stessa seconda fase di sanguinosa guerra criminale allo Stato passata sotto la famosa sigla Anni di Piombo – fino alla strage di Piazza Fontana, al sequestro Moro e oltre – nella continua erosione delle tradizionali certezze, siamo giunti alla jihad profetizzata da Oriana Fallaci, una più totale guerra dell’uomo contro l’uomo – ovvero la metafora della destabilizzazione generale che sta avendo il XXI secolo.
C.F.
1
Nell’aprile del 1968, un mese prima che il maggio francese
facesse esplodere la contestazione negli altri Paesi d’Europa, uscì in Italia un libretto smilzo che subito cominciò a galleggiare sulla oceanica superficie di carta che dall’epoca del boom paradossalmente ci sommergeva. Il titolo: Persiste la minaccia di un colpo di Stato in Italia! L’autore: Giangiacomo Feltrinelli.
In quelle poche pagine l’editore-guerrigliero reduce da Cuba, guardato con sospetto dal SID italiano e da altre polizie segrete latino-americane, sosteneva con grezzo stile la necessità di abbattere a qualunque prezzo le strutture dello Stato capitalista.
«Sarà una lunga lotta del Davide contro Golia», concludeva ricorrendo a uno di quei biblici raffronti che così poco piacciono ai giovani (tra l’altro ai giovani dei suoi happening politici, che a sentirgli enunciare certe idee del tutto carenti sul piano teorico e pratico, lo avevano fischiato durante le manifestazioni di piazza e avevano colpito la sua parsimonia – o avarizia – con lo staffilante grido: «Meno parole, più milioni!»
Feltrinelli comunque, la cui vita, come tutti sanno, si sgretolerà in un molle prato lombardo affondato nella notte, perse la lotta contro Golia non dal momento in cui morì. L’aveva già persa per il suo scarso grado di responsabilità e di tempismo (occorre il momento giusto per essere irresponsabili), quando insegnava dalle colonne di «Tricontinental» come fabbricare bottiglie incendiarie, preparare mine, trasformare un fucile da caccia in un bazooka, dipingere di giallo un poliziotto. Quando, tra posters e simboli yé-yé, esponeva nelle vetrine delle sue librerie pubblicazioni come quella di cui si è detto.
Lo Stato, Golia, non era abbastanza consunto per imprese del genere: i suoi anticorpi combattevano ancora troppo vigorosamente, e persino i più accesi tra gli estremisti sentivano che il delirio dei mitra era prematuro.
Ancora molto restava da fare all’avanguardia attiva del proletariato: la lotta di classe cercava infiltrazioni tentacolari, nelle fabbriche e nelle scuole si rilanciava il dissenso verso la politica del PCI colpevole di aver mantenuto troppo a lungo un atteggiamento benevolo verso i governi di centro-sinistra, nascevano i primi Comitati Unitari di Base (CUB).
Combattuti senza riserve dal sindacalismo ufficiale, i CUB si rivelarono ben presto come formazioni assai dinamiche e, in un certo senso, razionali: il loro ruolo era chiaramente giocato all’interno della sinistra rivoluzionaria e rappresentava «lo sbocco più significativo della tendenza di un settore delle avanguardie della classe operaia a darsi nuove forme di organizzazione su nuovi contenuti». Le zone maggiormente toccate dal fenomeno furono quelle che presentavano le più larghe concentrazioni operaie, vale a dire l’Italia del Nord: Milano, Torino, Trento, Porto Marghera, Bologna. Ma lasciamo la parola ad «Avanguardia Operaia» che in uno dei suoi quaderni fa la genesi dei CUB.
In genere si fa risalire l’origine dei Comitati Unitari di Base al 1968, ma la storia del movimento operaio italiano dal dopoguerra ad oggi riporta altri esempi di questo genere (e più ne riporta la storia passata e recente di numerosi paesi capitalistici). Nei momenti caldi di certe lotte, quando la combattività operaia cozzava contro le iniziative frenanti dei sindacati, coerenti con la linea di collaborazione di classe dell’intero movimento operaio italiano, in vari casi i lavoratori si sono aggregati spontaneamente in gruppi di base (con nomi diversi: Comitati di Lotta, Comitati Operai, Gruppi di Studio, ecc.), cercando in loro stessi la forza di portare avanti quegli obiettivi e quelle forme di lotta che i sindacati miravano ad affossare (per esempio durante le lotte contrattuali del 1962 e del 1966). Le basi puramente sindacali su cui si formavano tali organismi, la mancanza di una organizzazione politica al loro interno e quindi la carenza di chiarezza politica, sono state le cause della breve vita dei primi Comitati Unitari di Base, che erano legati alla lotta e che con essa scomparivano.
Tuttavia, è proprio nel 1968 che la formazione dei CUB ha assunto dimensioni più rilevanti.
Qual è il contesto politico in cui si sono formati e quali sono le cause che hanno favorito questo fiorire dei CUB?
Si possono individuare alcuni fattori, sia di carattere internazionale (l’acuirsi delle tensioni di classe nei vari paesi; la nascita di un movimento studentesco di grosse dimensioni e su basi anticapitalistiche in tutti i principali paesi capitalistici; lo scoppio del maggio francese; l’inasprimento dell’aggressione imperialista nel Sud-Est asiatico e la lotta eroica del popolo vietnamita; la rivoluzione culturale cinese) che di carattere nazionale. In particolare l’intensificazione bestiale dello sfruttamento in fabbrica, che pesava gravemente sui lavoratori; la volontà della classe operaia di opporsi al peggioramento delle condizioni di lavoro che non trovava riscontro in un’azione adeguata delle organizzazioni sindacali; l’evidenziarsi del collaborazionismo sindacale che risultava evidente ormai in troppe occasioni perché le avanguardie operaie, e in qualche modo anche le masse dei lavoratori, non se ne rendessero conto; la crisi di credibilità che ha investito non soltanto il sindacato ma anche il PCI; il fatto che, dopo varie lotte all’interno del PCI nell’illusione di portarlo su posizioni corrette, molte avanguardie uscivano dal PCI dando luogo ad una serie di gruppi; la nascita anche in Italia di un movimento studentesco di massa su basi anticapitalistiche che ha spazzato via le vecchie organizzazioni studentesche (legate ai vari partiti e basate su ristrette rappresentanze incapaci di qualsiasi azione di politicizzazione delle masse studentesche) e che ha saputo ricuperare forme di lotta e di politicizzazione a livello di massa le quali, pur essendo già da tempo patrimonio di tutto il movimento operaio, erano state ormai messe in soffitta dal cretinismo parlamentare
del PCI e dal senso di responsabilità
delle direzioni sindacali collaborazioniste.
In sostanza la formazione dei CUB è avvenuta di pari passo con la maturazione di una coscienza antirevisionista oltre che anticapitalistica in alcuni strati di lavoratori di avanguardia.
Ora, se è vero che Feltrinelli fu un compagno scomodo poiché negato all’organizzazione, è anche vero che nella strategia capillare dei CUB, sostenuti da formazioni leniniste come Avanguardia Operaia appunto e dalle Assemblee Autonome, germogliava lo stesso motivo di fondo della follia eroica del morto di Segrate: l’abbattimento dello Stato e la rifondazione del partito rivoluzionario del proletariato. C’era un denominatore comune, insomma: il convincimento che solo con l’eliminazione del capitalismo finisse la drammatica e secolare sagra dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Questa sagra sembrò definitivamente esaurita più di una volta nel corso dei secoli: e soprattutto ciò parve vero dopo l’epopea dell’Ottobre Rosso quando Lenin, a conclusione delle storiche sedute nello Smolny, intonava con i delegati dei Soviet la Marcia Funebre Russa, un canto malinconico e trionfale che, esaltando le vittime dello schiavismo, giurava sulla loro memoria di combattere e lavorare in futuro soltanto per la felicità del popolo.
Voi cadeste nella fatale battaglia
Per la libertà del popolo, per l’onore del popolo.
Avete dato la vita ad ogni cosa cara.
Avete sofferto nelle orribili prigioni.
Andate incatenati in esilio…
Senza una parola avete portato le vostre catene
Perché non potevate dimenticare i vostri dolenti fratelli.
Perché avete creduto che la giustizia è più forte della spada.
Verrà il tempo in cui si terrà conto della vita che avete donato.
Questo tempo è vicino: allora, caduta la tirannia,
il popolo si leverà grande e libero.
Sulla vostra tomba giuriamo di combattere e di lavorare
Per la libertà e la felicità del popolo.
Non ci sono voluti duemila anni ma, in questo caso, un quarto di secolo per capire come tutto ciò che era stato esasperato e calpestato nella presente carneficina, l’orgoglio borghese e la divisione delle classi, fosse destinato a risorgere sotto altra veste, scatenando nel mondo nuovi araldi delle inquietudini in progresso. L’economia borghese, i rapporti materiali di produzione, l’arte, la religione, la filosofia, tutte quelle cose che formano la struttura spirituale, politica e giuridica della società, dovevano essere di nuovo rovesciate sul piano pratico. Per Lenin l’avanguardia del proletariato altro non era che la parte più avanzata del proletariato stesso, ma senza rigurgiti spontanei, senza alcunché di inventato
. Questo spiega la simpatia