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La politica dell'esclusione. Deportazione e campi di concentramento
La politica dell'esclusione. Deportazione e campi di concentramento
La politica dell'esclusione. Deportazione e campi di concentramento
E-book1.687 pagine9 ore

La politica dell'esclusione. Deportazione e campi di concentramento

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Nella storia i campi di concentramento sono serviti per demolire ciò che doveva essere, per convertire le volontà, per annichilire l'essere umano nel corpo e nella personalità. Insomma, si è trattato «di costruire un'umanità riunificata e purificata, non antagonista». In questo modo, «da una logica di lotta politica si scivola presto verso una logica di esclusione, quindi verso una ideologia dell'eliminazione e [...] dello sterminio di tutti gli elementi impuri», oppure della loro rieducazione e del loro controllo. I campi per civili (di internamento, di concentramento, di sterminio) sono un prodotto della politica che si fa totalitaria, dispotica, violenta, padrona, manifestando la volontà di dominare la storia, per accelerarla, deviarla, modificarla, indirizzarla. Sono politica oscena, che cerca il trionfo anche nella carne e nel sangue. Sono il paradigma biopolitico della modernità. Infatti, è con la modernità che la violenza politica si esprime in forme sempre più degradanti dell'essere umano in quanto tale. Questo saggio affronta il tema della politica dell'esclusione dove il corpo dell'individuo, del nemico, diventa la posta in gioco delle strategie politiche
LinguaItaliano
Data di uscita19 mar 2020
ISBN9788832281194
La politica dell'esclusione. Deportazione e campi di concentramento

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    La politica dell'esclusione. Deportazione e campi di concentramento - Renzo Paternoster

    Renzo Paternoster

    LA POLITICA DELL’ESCLUSIONE

    Deportazione e campi di concentramento

    Argot edizioni

    © Tralerighe libri

    © Andrea Giannasi editore

    Lucca marzo 2020

    ISBN 9788832281194

    www.tralerighelibri.it

    A mio Padre e mia Madre,

    per avermi insegnato il coraggio di essere un figlio ribelle

    Questo è un mondo a parte che non somiglia a nessun altro, […] una casa di morte vivente, una vita come non esiste in nessun altro luogo e gente che non ha pari. È questo mondo a parte che io mi accingo a descrivere

    Fëdor M. Dostoevskij, Memorie da una casa di morti

    PROLOGO. Spiegare per conoscere

    Se vi dicono che la storia ha conosciuto fantasmi in carne e ossa voi direte che è falso. Eppure la storia non mente. Gli universi concentrazionari possono, da questo punto di vista, suggerire qualche risposta.

    I campi per civili (di internamento, di concentramento, di sterminio) sono un prodotto della politica che si fa totalitaria, dispotica, violenta, padrona, manifestando la volontà di dominare la storia, per accelerarla, deviarla, modificarla, indirizzarla. Sono politica oscena, che cerca il trionfo anche nella carne e nel sangue. Sono il paradigma biopolitico della modernità. Infatti, è con la modernità che la violenza politica si esprime in forme sempre più degradanti dell’essere umano in quanto tale.

    Attraverso la violenza si assegnano nell’ordine della politica determinati valori alla vita e alla morte, e si decide quale posto è dato alla stessa vita, alla stessa morte, ma anche al corpo umano (in particolare al corpo vivo da uccidere¹, al corpo–cada­vere², al corpo violentato³, al corpo suppliziato⁴, al corpo imprigionato⁵, al corpo scomparso⁶). La politica, così, si trasforma in biopolitica, e il corpo dell’indi­viduo diventa la posta in gioco delle strategie politiche. La biopolitica negativa non è solo morte, ma anche un lavorio sul corpo della vittima, che va ben al di là della morte stessa.

    La peculiare esperienza dei campi di concentramento e affini è direttamente connessa alla volontà di dominare la storia, anche attraverso la coincidenza tra il corpo biologico dell’indivi­duo e la sua dimensione politica.

    Nella storia, i campi di concen­tramento sono serviti per demo­lire ciò che doveva essere, per convertire le volontà, per annichilire l’essere umano nel corpo e nella personalità. Insomma, si è trattato «di costruire un’uma­nità riunificata e purificata, non antagonista»⁷. In questo modo, «da una logica di lotta politica si scivola presto verso una logica di esclusione, quindi verso una ideologia dell’eliminazione e […] dello sterminio di tutti gli ele­menti impuri»⁸, oppure della loro rieducazione e del loro controllo.

    Di fronte a questi contesti di violenza politica totale, due importanti aspetti sembrano intrecciarsi: la necessità di spiegare per conoscere, il bisogno di conoscere per capire. Naturalmente conoscere e capire non devono essere equivo­cati: non si tratta di giustificare (conoscere non vuol dire legittimare e, soprattutto, capire non è assolvere), ma di intenderli come comportamenti prettamente umani, contro la comune concezione che riconduce la violenza a inumanità, malvagità, follia, qualcosa che sta di là dalla cultura e dalla civiltà⁹. La violenza e la crudeltà politica non sono categorie residuali della civiltà e della cultura, esse appartengono a ogni epoca e continente¹⁰:

    Quando l’uomo si riunì in comunità e si diede istituzioni e leggi, divenne, a detta di Aristotele, un «animale politico» e le sintesi politiche si susseguirono, buone o cattive, prosperando o degenerando, ma diffondendo anche violenza provocata da corse al potere e spietate competizioni fra nuovi aspiranti […]. La minaccia e, come estrema risorsa, l’uso della violenza, oggi come ieri, fanno parte del «bagaglio» con cui individui o gruppi cercano di determinare il cambiamento o di salvaguardare lo status quo.¹¹

    Attraverso i campi, la violenza politica si è espressa e si esprime in forme sempre più degradanti e criminali.

    È ragionevole creare una scala di valori al negativo sui campi? No, rispondo subito, non ci può essere una gerarchia dell’or­rore, non c’è nessuna possibilità di stabilire una graduatoria del male. Ogni campo rappresenta una precisa forma di barbarie, al di là del progetto politico che può averla indotta.

    Che il razzismo nazista si esprimesse su base antropologica e quello comunista su fondamenti socio–economici, cambia i fatti, ma non i termini della questione, e nemmeno la sostanza delle moda­lità criminali. Si perdeva la dignità di esseri umani tanto ad Auschwitz quanto a Kolyma, Phnom Penh, Goli Otok, Pitesti e così via. La sola aritmetica delle perdite umane non basta a classificare un campo e un progetto politico come più criminale di un altro. Ogni campo rappresenta il trionfo del male, la celebrazione di un arbitrio che si fa norma in un determinato regime politico, rientrando nella legalità giuridica e morale di quello stesso regime. Perciò ogni classificazione crea confusione e disturba, facendo perdere l’uguale dignità alle vittime.

    Prima di procedere nel repertorio dell’arbitrio dell’uomo sull’uomo, credo sia utile fare una precisazione. In questo lavoro non mi propongo di intraprendere una ricostruzione completa della storia di tutti i campi in tutti i Paesi in cui essi sono esistiti o ancora sopravvivono. Vorrei invece esporre il senso del fenomeno concentrazionario, indagando sulla sua evoluzione, sulla non–vita al loro interno, lasciando anche spazio alle memorie dei sopravvissuti, di chi è sceso negli abissi dell’Umanità e ha avuto la fortuna di risalire.

    Per questo ho utilizzato il termine campo in senso simbolico, per rappresentare nel suo insieme una variegata e complessa realtà fatta non solo di campi, così come la storia ci ha fatto conoscere, ma anche di altri luoghi come prigioni e fortezze in cui l’intenzione appare identica come nei campi.

    Il saggio che il lettore ha tra le mani è frutto di lunghissimi anni di ricerca e studio. Tutto è iniziato dopo l’incontro casuale in Romania con il signor Petru, ex prigioniero del carcere di Pitesti. Non volevo credere a quello che egli mi stava raccontando, dei terribili supplizi e delle blasfeme parodie per rieducare anche l’anima del prigioniero, subite in quello che egli ha definito la prigione di concentramento del corpo e dello spirito.

    È seguita così una lunga e sofferta maturazione, perché, come ha detto Elie Wiesel ospite di Auschwitz col numero A-7713: «Chi ascolta un testimone, diventa a sua volta un testimone»¹².

    L’emozione provata durante una visita ad Auschwitz e Birkenau mi ha dato l’im­pulso definitivo.

    Ho pertanto iniziato una lunga ricerca dei sopravvissuti, non tanto dei Lager nazisti (esiste un’ampia memorialistica riferita ai campi nazisti), quanto di altri luoghi di internamento e concentramento.

    Ho così trovato chi ha vissuto l’esperienza del­l’assurdo, ma molti non hanno voluto raccontare per vergogna e per mancanza intenzionale di memoria.

    Di quelle persone che lo hanno fatto, alcuni hanno voluto restare anonimi¹³, pregandomi di non citarli, nemmeno con un nome di copertura, altre mi hanno autorizzato a farlo, sono: Miodrag Gajic (serbo, internato nel cam­po titino di Goli Otok), Stavros Touvlis (greco, deportato nel cam­po di Makronisos durante la guerra civile greca del 1946–1949), Djordjo Suvajlo (serbo–bosniaco, internato nel campo creato dai musulmani di Bosnia nel Silos di Tarčin durante la guerra nei Balcani del 1992-1995)¹⁴, il già citato signor Petru (pseu­donimo di un ex detenuto rumeno del carcere di Pitesti nel 1951)¹⁵ e il signor Xiong (pseudonimo di un ex deportato cinese).

    Non vi nascondo che ho provato imbarazzo ad ascoltare l’inim­ma­gi­nabile. Nei confronti di queste persone ho dunque contratto impagabili debiti umani e di riconoscenza. Allo stesso tempo mi scuso con loro, per avergli testardamente fatto rivivere i tormenti, interrogando le loro profonde ferite.

    In questi lunghi anni di ricerca e studio, ho anche contratto debiti affettivi e intellettuali con persone che mi hanno offerto premurosa attenzione attraverso la ricerca e il contatto con ex inter­nati, significativi suggerimenti e spunti di riflessione, mettendomi pure a disposizione le loro conoscenze e i loro materiali. Tra questi Gaetano Paolillo, Slavica Mitić, Julio Mariangel Toledo, Bosko Gajic, Mila Mihajlovic, Zoran Kukulj e Vasso Ana­­gnostou. A tutti esprimo la mia gratitudine.

    Ovviamente ringrazio gli autori dei saggi che ho preso in considerazione e che ho, con piacere e dovere, citato nelle note e nell’ampia bibliografia.

    La mia riconoscenza va pure a tutte quelle persone, sono dav­vero tante, che mi hanno aiutato a tradurre testi da lingue per me incomprensibili, beneficiando anche della loro pazienza.

    Un ulteriore prezioso supporto mi è stato offerto da Concetta Tortora, che ringrazio per la lettura della bozza alla ricerca di errori e imperfezioni. Ovviamente tutte le pecche rimaste nel testo, come ogni sconvenienza e omissione sono, naturalmente, mia esclusiva responsabilità.

    Ora prepariamoci a scendere negli abissi dell’Umanità.

    Capitolo I. I campi come categoria della violenza politica

    1.1. Prigioni, case di correzione e campi di prigionia

    Nell’antichità non esistevano edifici costruiti intenzionalmente per la detenzione. Anzi la detenzione non era neppure considerata una pena, ma un mezzo per tenere l’incolpato in custodia perché non si sottraesse alla giustizia, o un metodo coercitivo per ottenere il pagamento di debiti scaduti, oppure serviva per liberarsi arbitrariamente di avversari politici, oppure ancora per custodire i prigionieri in attesa di venderli come schiavi o scam­biarli. Insomma la detenzione era una specie di custodia cautelare in attesa dell’inflizione della sanzione, che spesso era la pena capitale o la tortura. Molti dei primi luoghi di reclusione erano vecchie cisterne o sotterranei¹⁶. Questo potrebbe spiegare l’origine etimologica del termine carcere: coercio, rinchiudo, rinserro, e carcer, sotterro, tumulo¹⁷. Anche la voce gergale di registro scher­­zoso gattabuia, sinonimo di carcere, rimanda alle ubicazioni delle prime prigioni. Il vocabolo, infatti, potrebbe essere un rifacimento del latino parlato catugiam, derivato a sua volta dal greco katagheìon, che significa sotterraneo (ghé, infatti, è la terra). Dal greco si sarebbero poi formate espressioni gergali dello stesso significato come catoia, catuia e catugia, ot­­te­­nute incrociando sotterraneo con l’aggettivo buio.

    Nel Medioevo i luoghi di detenzione erano costituiti, oltre dai tradizionali sotterranei, anche da maschi o dongioni¹⁸. Nel Medioevo, «non è tanto il carcere come istituzione ad essere igno­rato dalla realtà feudale, quanto la pena dell’internamento come privazione della libert໹⁹. Pertanto, anche nel periodo medievale si può confermare l’esistenza della detenzione preventiva e di quella per debiti, ma non si può

    affermare che la semplice privazione della libertà, protratta per un periodo determinato di tempo e non accompagnata da alcuna sofferenza ulteriore, fosse conosciuta e quindi prevista come pena autonoma ed ordinaria.²⁰

    Una posizione a parte è occupata dalla Chiesa medievale che, attraverso il diritto penale canonico, adottò la pena carceraria nella forma di reclusione. La Chiesa, infatti, «disponendo della giurisdizione criminale sui chierici e non potendo lecitamente comminare sentenze di morte, fu costretta a ricorrere al carcere e alle pene corporali»²¹.

    Ecco nascere i penitenziari — dal latino paenitentía, penitenza — che servono per il pentimento, il ravvedimento del reo che, attraverso l’espiazione della pena nel più assoluto isolamento, doveva giungere al suo miglioramento. Inizialmente furono i chierici a permanere nelle celle dei monasteri, degli eremi e delle prigioni vescovili, poi la segregazione cellulare fu estesa anche ai laici²².

    Per quanto riguarda i prigionieri di guerra, nel Medioevo raramente erano incarcerati. In generale gli unici prigionieri di guerra erano gli ufficiali o i nobili o comunque soldati di spic­­co, la ragione era chiaramente ottenere un riscatto in danaro. Esistevano quindi vari tipi di luoghi dove i prigionieri di guerra erano reclusi. Vi erano le vecchie fortezze, edifici convertiti appositamente in prigioni, campi provvisori con alloggiamenti già esistenti o appositamente costruiti.

    Tra la seconda metà del XVI secolo e l’inizio del XVII, la forma della pena ecclesiastica ispirata alla penitenza, da espiare attraverso la prigionia in cella per un periodo determi­nato, si incontrò con l’idea del rinnovamento sociale stimo­­lato dalla Riforma protestante. Così, considerando la povertà e l’ozio come fonti di disordine, si decise di rinchiudere in Ca­­­se di correzione i mendicanti, i vagabondi, gli alcoliz­zati e i disoccu­pati.

    Da Londra ad Amburgo, da Ginevra ad Amsterdam sino alle colonie inglesi del Nordamerica, per estendersi poi anche nei Paesi cattolici, le Case di correzione attraverso la disciplina e il lavoro obbligatorio diventarono opere di pu­nizione e di ordine pubblico, ma anche di moralità, carità e di soccor­so²³. La casa di correzione, tuttavia, non sostituì tutta la gamma delle punizioni vigenti (dalla multa alla pena capitale).

    La prima Casa di correzione fu creata nel 1557 a Londra, nel Royal Palace of Bridewell, l’ex residenza di re Enrico VIII, ceduta dal re Edoardo VI alla City of London. Si trat­­­tava di una istituzione fondata sul domicilio coatto e sul la­voro obbligatorio in comune, questo «allo scopo di apprendere l’abi­­tudine all’operosit໲⁴. L’istituto accolse quindi alcolizzati, pro­­­­stitute, poveri, disoccupati, vagabondi, o comunque soggetti disadattati per condizione sociale²⁵. Con un atto successi­vo del 1576, istituzioni dello stesso tipo furono erette in tutto il Regno Unito. Le bridewells (così furono chiamate le case di correzione sul modello di quella creata nel palazzo di Bridewell) divennero la più comoda soluzione per arginare la mendicità diffusa e riformare i disadattati.

    La Casa di correzione attraverso il lavoro raggiunse la sua forma più alta di sviluppo nell’Olanda della prima metà del XVIII secolo.

    Conosciute con il termine di Rasphuis, letteralmente casa del saracco o casa della raspa — in quan­to l’at­ti­vità lavo­rativa fondamentale fu quella di grattugiare con una sega a più lame un particolare tipo di legno, fino a farne una polvere finissima, da cui i tintori avrebbero ricavato il pigmento per tingere i filati — questi istituti correzionali ebbero la fun­zione di educazione alla virtù, di redenzione sociale e di salvezza spirituale. Fu questo il senso dell’iscri­zione incisa sul frontone del Rasphuis di Amsterdam: Virtutis est domare quae cuncti pavent (È cosa virtuosa domare ciò che tutti temono)²⁶. Infatti, attraverso l’este­nuan­te attività di rasping si concretizzò l’apprendi­men­to da parte dei lavoratori della disciplina capitalistica di produzione, attraverso l’impo­sizione di un rigido sistema di divieti e obblighi si realizzò la finalità correzionale, attraverso i dor­mitori comuni si instaurò la funzione sociale, attraverso la pratica religiosa (preghiera e lettura della Bibbia) si attuò la salvezza spirituale, attraverso la flessibilità delle pene (difatti la durata poteva essere modificata dall’amministrazione secondo la condotta del recluso) si invogliò una rapida rieducazione, attraverso il buon esempio si effettuò la funzione deterrente nei confronti dell’intera popolazione²⁷.

    Se l’edificazione della prigione Carceri Nuove a Roma, co­struita tra il 1652 e il 1655 da papa Innocenzo X, è il primo esempio di stabilimento carcerario moderno, il contemporaneo Spedale S. Filippo Neri di Firenze è il primo istituto con l’iso­lamento cellulare a scopo correzionale. Infatti, sorto nel 1650 per accogliere vagabondi minorenni e ragazzi abbandonati o orfani, nel 1677 l’istituto si dotò di otto celle singole dove rin­chiudere in isolamento continuo i ragazzini più indisciplinati e incorreggibili dello stesso riformatorio, perché, già «corrotti dalla strada e dall’ozio»²⁸, abbandonassero la cattiva condotta, interiorizzando la colpa, e non apparissero da modello agli altri ospiti della struttura. In queste celle finirono anche giovani di buona famiglia, affidati dai genitori all’istituto per aver manifestato problemi di disadattamento²⁹.

    Il popolino, per corruzione popolare, battezzò la struttura con il nomignolo di Quarconia, facendo derivare questo appellativo da "quare (per quale motivo) e quonam (perché), che furono sia le due parole latine con cui iniziava il decreto granducale che riconosceva la Pia Casa del Rifugio dei poveri fanciulli di Filippo Neri sia il principio dell’interrogatorio che i ricercatori dei ragazzi monelli" facevano quando li trovavano per le strade³⁰. Molti altri istituti di correzione si ispirarono poi al modello fiorentino e furono detti Quarconia (tra cui quello di Pistoia nel 1721, di Lucca nel 1724 e di Livorno nel 1757); altri presero nomi propri, pur riferendosi al modello dello Spedale S. Filippo Neri. La cella sotterranea e la segreta continuarono a coesistere, nonostante la presenza di questi istituti correzionali.

    Con la Rivoluzione francese e l’affermazione degli ideali illuministi si radica l’idea di carcere come pena, come punizione, come luogo di diritti sospesi. Da questo punto di vista nelle prigioni di Stato, oltre alla segregazione cellulare, si intensificano le pene corporali³¹.

    Se la prigione diventa il luogo dove rinchiudere gli individui più pericolosi per la società, giudicati tali da una sentenza emessa da un tribunale regolare, i campi di prigio­nia che sorgono a seguito dei grandi conflitti, diventano invece il luogo dove i prigionieri di guerra diventano detenuti extragiudiziari.

    L’evento bellico che inaugura le prime grandi concentrazio­ni di prigionieri è la lunga guerra di secessione americana (1861–1865). Durante le prime fasi della guerra civile, in man­­­canza di mezzi per affrontare un gran numero di soldati catturati, i governi dell’Unione e dei Confederati utilizzano il tradizionale sistema europeo dello scambio di prigionieri. Suc­­cessivamente questa pratica si esaurisce e iniziano ad essere allestiti luoghi per contenere l’enorme massa di prigionieri di guerra. Inizialmente sono riaperti vecchi penitenziari, poi molte fortezze o ex fabbriche sono trasformate in prigioni. Con il proseguire della guerra e l’aumentare del numero dei prigionieri è chiara l’esigenza di creare strutture apposite in desolati appezzamenti di terreno circondati da palizzate.

    Nascono così i campi di prigionia unionisti, tra cui quelli di Point Lookout (Maryland), Johnson’s Island (Ohio), Camp Chase a Colum­­bus (Ohio), Rock Island (sul Mississippi, nel­l’Il­linois); poi ancora Camp Morton a India­napolis (Indiana), Camp Douglas a Chicago (Illinois), Camp Butler a Spring­­field (Illinois), Elmira (a New York). I Confederati rin­­­chiu­dono gli Unionisti a Camp Sumter ad Anderson (Geor­gia), Camp Lawton a Mil­len (Georgia), Camp Ford vicino Tyler (Texas) e in altri specifici campi.

    Alcuni campi sono dotati di alloggiamenti (tra cui edifici sca­den­ti o stalle riconvertite), oltre alla solita palizzata che segna il confine (ad esempio Camp Morton o Camp Chase). In altri si utiliz­zano tende come ricovero per i prigionieri (ad esempio a Elmira o a Point Lookout). Infine vi sono quei campi che inizialmente sono dotati solamente di una palizzata per trattenere i prigionieri al suo interno (ad esempio ad Ander­son). Il sovraffollamento, le precarie condizioni igieni­che, la scarsità di cibo e acqua e la diffusio­ne di epidemie, determinano un alto tasso di mortalità tra i prigionieri³².

    Il Risorgimento italiano (XIX secolo) inaugura in Europa la deportazio­ne e l’internamento dei combattenti e degli oppositori politici in fortezze e campi attrezzati, mentre la guerra hispano–cubana (1895–1898), dà avvio ai primi affollati campi di concentramento per civili³³.

    D’ora in poi, la presenza dei campi per civili non risparmierà nessuna area geografica.

    1.2. La forma campo

    Per capire la logica dei campi e il loro proliferare nella storia, occorre individuare le funzioni che essi hanno esercitato o che ancora svolgono.

    La logica dei campi di concentramento per civili risponde a sette criteri: isolare, punire, eliminare, sfruttare, correggere, terrorizzare, economizzare.

    In pratica: isolare, anche a titolo preventivo, per controllare una parte del corpo sociale giudicata rischiosa o sospetta; punire gli oppositori politici o comunque i cittadini corrotti da ideologie errate e pericolose; eliminare fisicamente la parte di una popolazione considerata in esubero da un progetto politico; sfruttare gli internati per trarne produzione e profitto economico e militare; correggere e riformare chiunque sia portatore di ideologie e programmi considerati nefasti; terrorizzare la popolazione per controllarla meglio; economizzare, perché il sistema dei campi come metodo di reclusione è generalmente più economico di quello carcerario, sia per la tipologia delle costruzioni (baracche, tende e altri rifugi improvvisati) sia per la qualità dei reclusi che giustifica ogni tipo di precarietà³⁴.

    Sulla base di queste sette funzioni si possono individuare, a grandi linee, tre fondamentali ripartizioni: campi di internamento, campi di concentramento, campi di sterminio.

    I campi di internamento sono luoghi di segregazione con la funzione di separare e isolare individui sospetti o pericolosi. Sono compresi in questa categoria i campi allestiti durante i con­­flitti bellici, allo scopo di internare i cittadini di un Paese ne­mico: tra questi, ad esempio, i campi allestiti in Francia durante la Prima guerra mondiale per isolare i cittadini originari degli Stati belligeranti nemici, oppure i campi allestiti per i giapponesi, i tedeschi e gli italiani negli Stati Uniti durante la Seconda guer­ra mondiale.

    I campi di concentramento sono luoghi extra–nazione, dove depositare in riserva di legge i nemici e gli elementi difettati o ritenuti tali, per isolarli, correggerli, punirli e nel caso sfruttarli come forza lavoro o come elementi biologici (nel modo di cavie umane per esperimenti medici). Nello stesso tempo, i campi svolgono una funzione pedagogica nei confronti della popolazione libera, in quanto strumenti di terrore e di intimidazione per governare le masse e consolidare il potere dello Stato che li ha creati. I più conosciuti campi di concentramento sono i Gulag sovietici, i Lager nazisti e i Laogai cinesi.

    I campi di sterminio hanno caratteristiche proprie rispetto agli altri campi. Essi seguono l’esclusiva logica dello smaltimento degli elementi considerati dannosi e in esubero, attraverso l’elimi­na­­zio­ne fisica degli internati. Famosi sono i campi di sterminio istituiti a Chełmno (Polonia), Bełżec (Polonia), Sobibór (Polonia), Treblinka (Polonia), Majdanek (Polonia), Maly Trostenets (Bielorussia), Jasenovac (Croazia).

    Questa ripartizione è solo funzionale, perché nella storia si sono avuti campi misti, ossia luoghi che comprendono più funzioni che spettano a una tipologia di campo diverso. Ad esempio, si possono avere campi che sono di internamento e con­centramento, come il statunitense Camp Delta della base navale di Guantánamo, luogo di concentramento per i prigionieri combattenti catturati in Afghanistan e di internamento per civili ritenuti collegati ad attività terroristiche. Un altro esempio potrebbe essere il campo nazista di Auschwitz–Birkenau, contemporaneamente luogo di concentrazione e di sterminio.

    La struttura dei campi è determinata dalle funzioni e dalla loro evoluzione. Dai primi campi fatti di tende (o altri ripari improvvisati) e filo di ferro, si passa a quelli con baracche, torrette di guardia e filo spinato (poi anche elettrificato).

    Poiché lo scopo è quello di concentrare e internare grandi quantità di persone, i campi sono generalmente di ampie dimensioni³⁵.

    La scelta di un posto per aprire un campo deve in generale soddisfare le seguenti condizioni: isolamento, segretezza, fuga impossibile, convenienza economica.

    Così, la lontananza dai mag­giori centri abitati e la posizione isolata garantiscono la riservatezza; la particolare ubicazione in zone remote consente la sicurezza contro le fughe, assicurando al contempo anche la segretezza; la disponibilità di ricchezze del sottosuolo e del suolo, allo sfruttamento delle quali è destinato il lavoro forzato degli internati, assicura la convenienza economica. In alcuni casi è determinante anche il carattere il più possibile inospitale e insalubre della località, specie per i campi con finalità punitive. Ovviamente queste condizioni sono riferite alle finalità proprie di ogni campo.

    Due esempi: il campo italiano di Fossoli e quello portoghese di Tarrafal. Il campo italiano di Fossoli in Emilia Romagna, creato inizial­mente come campo per prigionieri di guerra, poiché ubicato vicino alla rete ferroviaria per il Brennero (che univa a Nord tutta l’Europa), divenne nel 1944 un campo nazista di polizia e transito (Polizeiund Durchgangslager) per i Lager del Terzo Reich³⁶. Il Portogallo di Salazar nel 1936 decise di istituire una colonia penale per prigionieri politici e sociali a Tarrafal, sull’isola di Capo Verde, perché il sito sembrava soddisfare efficacemente le condizioni di una politica di esilio (lon­ta­nanza dalla Patria), di discrezionalità e fuga impossi­bile (essendo su un’isola l’isolamento totale era garantito), di prigionia punitiva (per il carattere inospitale a causa del clima e per le condizioni di vita)³⁷.

    La differenza tra i campi non riguarda unicamente la diversità degli edifici, ma anche gli aspetti relativi alle condi­zioni di vita e allo status di internati. Per questo tra i vari campi le differenze sono marcate e variano nel tempo. In generale la vita quotidiana all’interno dei campi di internamento e migliore di quelli di concentramento.

    1.3. La violenza come linguaggio dei campi

    Per Michel Foucault la biopolitica è l’area d’incontro tra potere e sfera della vita e, quindi, il corpo dell’individuo diventa la posta in gioco delle strategie politiche: il diritto di vita e di morte è subordinato alle esigenze del biopotere. Il rapporto che lega la politica e la vita è così di tipo mortifero e, in tale ottica, il campo di concentramento assume tutta la sua grande rilevanza paradigmatica³⁸.

    Nei campi di internamento la biopolitica isola la parte sospettosa per controllarla. Nei campi di concentramento (di lavoro coatto, di rieducazione e così via), la biopolitica raccoglie le parti guaste del sistema, ma ancora a essa utili e, come in un ospedale, le cura, le educa al lavoro, le rende preziose e utili per il regime. Nei campi di sterminio la biopolitica distrugge e brucia i frutti della sua dominazione.

    Se nei campi di sterminio aleggia la morte seriale, in quelli di concentramento c’è una condizione di non–vita e non–morte: nei campi di sterminio l’esistenza biologica è politica e solo mo­mentanea; nei campi di concentramento la morte, pur contrassegnando in profondità la realtà, ne costituisce un sem­plice sottoprodotto, non rappresentandone una finalità. In pratica nei campi di concentramento non sei ancora morto, ma non vivi più, mentre in quelli di sterminio la tua morte è decisa prima di entrare. In entrambi ci sono vite fuori controllo dalla vita.

    Per questo ogni campo ha il suo distillato di violenza: una brutalità che ha la funzione di annichilire completamente l’indi­viduo, assieme a una malvagità sadica che pretende la partecipazione degli stessi detenuti alla violenza dei campi (per mantenere la disciplina, per sbarazzarsi dei morti, per rieducare i propri compagni).

    L’individualità e la dignità umana sono lasciati fuori dal cam­­po, il loro ingresso nell’universo dei dannati sulla terra non è permesso. Solo in questo modo il potere può esercitarsi piena­men­te e illimitatamente e far diventare i campi strumenti permanenti di dominio totale. Un dominio dell’arbitrio più assoluto che rimette in causa il concetto di civiltà attraverso il disfacimento della ragione che, rovesciandosi nel proprio contrario, dispensa disumanità tra gli internati, trasformandoli in corpi completamente atomizzati.

    Già la deportazione e l’internamento a causa di un lignaggio, di un pensiero, di un’intelligenza, di una professione di fede, sono elementi che nella loro oggettiva attuazione bastano da soli, senza altri fattori, a provocare quel totale smarrimento della persona. Se ha questo si aggiungono le violenze gratuite, la tortura e la disumanizzazione imposta dai carcerieri, allora la devastazione del deportato si completa. Perché, lo spettacolo continuo dell’altrui morte e la continua aspettazione della propria, la disumanizza­zione, le umiliazioni con sadismo, le aggressioni verbali, la violenza fisica sistematica intesa come strumento regolativo della vita stessa, l’irrazionalità delle sperso­nalizzanti liturgie quotidiane (toilette comunitaria, appello, spogliazioni pub­­­­bliche, interminabili marce e così via), la conformità dei pri­gionieri (divisa, teste rasate, simboli identificativi e numeri al posto dei nomi), il lavoro insensato, la promiscuità fra i detenuti, il degrado fisico e morale realizzato per gradi o il piacere in sé di uccidere poco alla volta, la fame, insomma l’inumanità vissuta fino ai suoi limiti estremi, svelano il senso totalitario dei sistemi concentrazionari.

    1.4. La fame

    Proprio la fame, quella indomabile, assillante, molesta, è al centro di tutte le testimonianze dei campi, accomunando tutte le esperienze concentrazionarie:

    Tra tante pene e miserie che abbiamo subito, la fame è stata senza dubbio la peggiore, ed è stata sempre con noi, sino alla fine, riempiendo ogni nostro pensiero e mettendo costantemente alla prova la nostra dignità umana.³⁹

    Maria Camilla Pallavicino, partigiana torinese incarcerata con la sorella dapprima nel campo di transito di Fossoli, deportata successivamente a Ravensbrück e poi internata nel sottocampo di Rechlin⁴⁰, tenta una descrizione della fame che si patisce nei campi:

    La nostra era una fame che faceva dimenticare qualunque altra cosa, una fame che diventava un incubo a cui non era possibile fare l’abitudine. È possibile, vorrei quasi dire, può anche essere facile adattarsi alla sporcizia, ai pidocchi, alla promiscuità, ma se anche lo stomaco si abitua a mangiare meno, la fame rimane.⁴¹

    L’endemica necessità di placare lo spettro della fame sembra quasi divorare l’internato, assoggettandolo al suo dominio. Ricorda Goti Bauer, rinchiusa a Fossoli e poi deportata dapprima ad Auschwitz col numero A–5372, poi a Wilischtahl e poi ancora a Theresienstadt (Terezin): «ma come si fa a spiegare cos’era quella fame? Era un morso che ti divorava»⁴².

    «Era un desiderio inappagabile che cresceva nel tempo, che tormentava giorno e notte, che ci rubava il sonno, una bramosia capace di farci trangugiare ogni cosa masticabile»⁴³, ricorda il generale Egisto Fanti, che ha vissuto il tormento dei Lager, «era come una serpe che avvinghiava le viscere senza tregua; era una lima sorda che, piano piano, consumava il fisico e le forze»⁴⁴.

    Per questo, «chi non conosce la fame, per averla provata di persona, trova assai difficile capire i conflitti interni e le lotte di volontà che agitano un affamato, logorando il suo spirito»⁴⁵.

    La fame mette alla prova anche lo spazio della coscienza. Racconta Djordjo Suvajlo, un serbo della Bosnia internato per 1.335 giorni nel campo creato dai bosgnacchi (i musulmani di Bosnia) nel Silos di Tarčin⁴⁶, della municipalità di Hadzici, periferia della capitale Sarajevo: «Ero sdraiato nella mia cella, affamato, eppure la mia casa era a ottanta metri di distanza. Di tanto in tanto, grazie al coraggio di mia madre, che riusciva a corrompere le guardie del campo, ricevevo dei piccoli pacchi di cibo» con minime porzioni di pane, formaggio e pancetta. Djordjo è felice sia per il pacco sia perché capisce che sua madre è ancora viva. Ricevuto il piccolo pacco, Djordjo è però assalito da un dilemma:

    Ho pensato se dovessi condividere il mio cibo con tutti quelli che erano in cella, o solo con quelli di mia scelta, o se dovessi tenere tutto per me stesso. Profondamente consapevole della situazione e sapendo che non volevo vivere la mia vita con una coscienza sporca, decisi che avrei condiviso il mio cibo con tutti.

    Non solo, Djordjo offre una porzione maggiore a un suo compagno di cella, Dejo Golub, visibilmente più deperito degli altri a causa sia della fame sia dei continui «pestaggi irragionevoli» da parte delle guardie. Tuttavia, siccome «la maggior parte delle volte, almeno fino alla fine di ottobre 1992, avevamo solo un pasto al giorno», la fame si fa sentire prepotente così «la mia precedente decisione di condividere tutto con gli altri si è un po’ indebolita» Poiché «la mia fame mi ha sopraffatto, ho voluto tenere più cibo per me stesso, dando loro metà del cibo e lasciando l’altra metà per placare la mia fame». Tuttavia, mentre si accinge a mangiare, Djordjo si accorge che i suoi compagni di cella lo guardano muti, assomigliando «a statue sedute», rassegnate. Così Djordjo decide di ritornare a dividere il cibo con gli altri. Anche se «è stato difficile per me, ma quando ho visto la loro contentezza mi sono sentito colmo da sentimenti di giustizia e calore umano»⁴⁷.

    La fame si inizia a patire già nel terribile lungo viaggio che porta ai campi:

    Dopo un interminabile calvario, la sete e la fame erano diventate le nostre padrone: alcuni anziani, distesi su un pagliericcio, non davano ormai alcun segno di vita. Noi più giovani eravamo sempre all’erta, attenti a ogni scossone del treno, a ogni rumore «diverso» proveniente dall’esterno, come le bestie chiuse in un recinto che rizzano le orecchie, quando avvertono segnali di pericolo attorno a loro.⁴⁸

    La fame è un aspetto sempre presente nelle memorie dei testimoni, poiché è una condizione ordinaria nella quale gli internati vivono.

    Il cibo negato diventa sia una condanna sia una speranza al quale aggrapparsi per continuare a vivere. Resoconta Elie Wiesel, ospite ad Auschwitz col numero A–7713:

    Non avevo alcun genere di interesse se non quello per la mia zuppa quotidiana e per un pezzo di pane raffermo. Pane, zuppa, questa era tutta la mia vita. Io ero corpo, forse ancor meno: io ero un corpo macilento.⁴⁹

    Affamati, infelici ed esausti, scattavamo ogni volta che la porta della cella scricchiolava pensando che potesse essere cibo in arrivo.⁵⁰

    Il supplizio della mancanza di cibo è il modo più semplice per degradare completamente il deportato e distruggerlo fisicamente e psicologicamente. Scrive Sergio Borme, deportato nel terribile campo titino di Goli Otok:

    Uno dei ricordi più paurosi che un ex deportato a Goli Otok si porta impresso nella memoria è senz’altro quello della fame patita. Una fame terribile, che non dava tregua. E imbestialiva l’individuo, facendogli perdere la coscienza di tutto il resto, dalle sevizie alle umiliazioni, dall’invasione delle cimici a quella dei pidocchi. Probabilmente era la fame lo strumento principale utilizzato nel lager per ottenere la degradazione umana dei deportati. Si preferiva mantenerli in vita, sottoponendoli al supplizio continuo della mancanza di cibo.⁵¹

    Conferma questo nel suo diario di prigionia anche Sebastiano Leonardi, un internato trentino nel campo di Kiev durante la Prima Guerra Mondiale:

    È da piangere il pensare in qual condizione eravamo giunti! Uomini sani e robusti, sul fior della vita, tutti onesti assidui lavoratori, fra i quali anche persone studiate che in patria non conobbero miseria e neppure povertà, correre davanti ad una porta, con il berretto in mano domandare per carità un pezzo di pane […]. La fame fa perdere all’uomo i sensi, l’educazione, la civiltà! Non conosce più né prossimo né amici né concittadini! Come bestia selvaggia, si spinge, si slancia sulla preda che gli sta davanti e la divora. Non paventa pericolo, non accetta consigli, non intende più parola. In qualunque maniera, lecita od illecita basta poter arrivare ad agguantare un pezzo di pane, per non restar vittima di essa.⁵²

    La scarsità del cibo rende a volte l’internato insensibile persino di fronte alla morte. Chol–Hwan Kang, dall’inferno di Yodok, il centro di rieducazione nordcoreano n. 15, testimonia la quasi impassibilità per chi è privato di cibo nell’assistere alle esecuzioni capitali, perché le «persone che soffrono la fame non hanno il cuore a pensare agli altri»⁵³.

    Il tozzo di pane raffermo o la brodaglia giornaliera, distribuiti al di sotto del livello dell’inedia, diventano quindi la porzione di salvezza, che aiuta però solo a fingere di mangiare sen­za riuscire a nutrire. La razione quotidiana è così misera, che «lo stomaco, compreso l’inganno, riprenderà a spasimare più dolorosamente», anzi, già prima di mangiare si percepiva «la fame del dopo»⁵⁴.

    Le porzioni sono così ridotte che negli internati sorge finanche il dilemma se mangiare la misera quota di cibo tutta in una volta, così da avere lo stomaco più o meno pieno e riuscire a dormire, o frazionarla, per poter calmare la fame a più riprese sino alla prossima razione⁵⁵.

    Nei campi, «la fame è una prova insormontabile», assicura il dissidente russo Anatolij Martchenko, internato nei Gulag, e «l’uomo giunto all’ultimo gradino dell’abbruttimento è di solito pronto a tutto»⁵⁶, poiché, conferma il polacco Gustaw Herling–Grudziński, che ha conosciuto i Gulag:

    La fame... la fame è una sensazione orribile, che si trasforma in un’astrazione, in incubi alimentati da una continua febbre mentale […] Gli effetti fisici della fame non hanno un limite al di là del quale la vacillante dignità umana possa ancora serbare il suo incerto ma indipendente equilibrio.⁵⁷

    Così, quando lo stomaco prende prepotentemente il posto del cervello, qualsiasi cosa di commestibile, anche se lontanamente, come erba, avanzi, ratti, serpenti e non solo, diventa alimento per sopravvivere.

    Il prigioniero Niu, un distinto e istruito lavoratore di un Laojiao, il Jiabiangou Labor Camp, situato nel Nord–Est della Cina, è ritrovato a nutrirsi di escrementi ed emesi:

    Salii in cima a quella scala improvvisata e mi guardai intorno. A qualche metro di distanza, vidi qualcuno steso sulla pancia che mi dava le spalle. Anche se non riuscivo a vederlo in faccia, sapevo che era Niu. Ne fui sorpreso: era un uomo anziano e dal fisico debole, perché mai si era arrampicato fin lassù? Che cosa stava facendo? Lo trovavo alquanto singolare.

    Mi arrampicai silenziosamente sul tetto e mi avvicinai a lui strisciando. Mi fermai dietro di lui e sbirciai alle sue spalle. Per terra c’era un involucro quadrato di stoffa azzurra. Lo riconobbi: il vecchio avvolgeva sempre la camicia e i pantaloni in quel pezzo di stoffa azzurra con un disegno a fiori bianchi e lo usava come cuscino. Notai un sottile strato di materia appiccicosa di color marrone giallastro sparsa uniformemente sulla stoffa. Sembrava che fosse rimasta al sole per un po’ e si fosse parzialmente seccata. Riconobbi pezzi di patate bianche e giallognole, ed ebbi una stretta al cuore. Bontà divina! Niu aveva raccolto il mio vomito e i miei escrementi della notte passata, li aveva sparsi sul suo involucro di stoffa e li aveva messi ad asciugare al sole. E adesso stava accuratamente selezionando i pezzi di patate non digeriti, grossi come polpastrelli, per ficcarseli in bocca.⁵⁸

    L’inadeguatezza della razione quotidiana di cibo fa parte della logica di un campo. Infatti la «dieta da fame»⁵⁹ si basa su binomi elementari: cibo–lavoro, cibo–buona condotta. Il buon comportamento, il rispetto delle regole permette all’internato di non perdere per punizione il già misero rancio quotidiano. Anche il lavoro è strettamente collegato alla razione quotidiana: a una quota di lavoro corrisponde infatti una razione di cibo, chi lavora di meno mangia di meno. Inoltre, un prigioniero debilitato dal digiuno ha meno possibilità di fuggire.

    Scrive Herta Müller, Nobel per la letteratura nel 2009, della terribile esperienza di alcuni deportati in un Lager ucraino:

    La fame c’è sempre. Siccome c’è, arriva quando e come vuole. Il principio di causalità è la miserabile opera dell’angelo della fame. Quando arriva, arriva potente. La chiarezza è grande; 1 colpo di pala = un grammo di pane.

    Io non avrei bisogno della pala a cuore. Ma la mia fame dipende da lei. Vorrei che la pala a cuore fosse il mio strumento. Invece è la mia padrona. Lo strumento sono io. Lei domina, e io mi sottometto. Eppure è la mia pala preferita. Mi sono forzato ad apprezzarla. Sono servile perché lei è con me una padrona migliore quando sono docile e non la odio. Devo ringraziarla, perché quando spalo per il pane sono distratto dalla fame. Siccome la fame non passa, lei fa in modo che lo spalare si anteponga alla fame. Spalare è al primo posto quando spali, altrimenti il corpo non attacca il lavoro.⁶⁰

    L’insufficiente nutrimento e la conseguente ossessione per la scarsità di cibo, sono dunque gli elementi dominanti della vita di un internato, che lo trasformano in un corpo atomizzato, perché, con la denutrizione i corpi dei prigionieri diventano sempre più smunti, riducendoli a resti di esseri umani, a raccapriccianti sche­letri ricoperti di pelle, figure così macilente da assomigliare a radio­grafie viventi⁶¹.

    Capitolo II. L’Umanità de–umanizzata

    2.1. L’appartenenza come prescrizione politico–culturale

    Elemento di novità che caratterizza l’universo concentrazionario è l’appartenenza, un fattore assunto come discriminante poiché, attraverso l’estremizzazione dei meccanismi di inclusione/esclusione, è capace di plasmare la geografia umana. I campi, in tutte le loro varianti e variabili, si inseriscono all’in­ter­no di questa prescrizione politico–culturale. L’ap­­par­­te­nen­za, quindi, determinerà le forme di esclusione per chi è ritenuto in eccesso, rispetto alla geografia politica e sociale prospettata. Per gli Stati liberali, l’appartenenza assumerà il criterio su cui basarsi per porre fuori dalle garanzie previste dalle Costituzioni e dalle leggi chi non risponde di requisiti sempre più selettivi; per gli Stati totalitari sarà il parametro per azzerare un gruppo etnico, sociale o politico, eliminandolo definitivamente, oppure rieducandolo. In entrambi i casi, l’individuo o il gruppo sono sospesi dall’ordine politico e sociale.

    Il meccanismo di inclusione dell’escluso in un sistema concentrazionario, sancisce di fatto l’esclusione da un ordine. I campi, con la loro rigida e netta assegnazione delle parti, da un lato le vittime e dall’altro i carnefici, entrano a far parte di un disposto politico–culturale che porta a un’esclusione tangibile dalla fruizione effettiva di quei diritti in nome dei quali sono stati edificati. Gli esclusi sono di fatto inclusi in un altro ordine, poiché l’appartenenza, attraverso i campi, genera due mondi, due distinti sistemi giuridico–morali: il primo spetta unicamente a chi appartiene ed è titolare di tutti i diritti, compreso quello di escludere chi non appartiene; il secondo è formato sia dagli esclusi sia da chi è incluso al primo ordine. In quest’ultimo sistema giuridico–morale gli inclusi, ossia gli esclusi del primo ordine, sono giudicati secondo gli ordinamenti politici di chi li ha eliminati: per i regimi nazi–fascisti sono oggetti a perdere, per i regimi comunisti soggetti da rimodellare, per le democrazie liberali soggetti da tenere sotto controllo⁶². Questo fa emergere la differenza tra il far morire dei campi di sterminio nazisti, il far rinascere dei campi di concentramento comunisti, il vigilare dei campi d’internamento liberali.

    L’appartenenza determina un circolo vizioso che porta alla clas­sificazione (delle persone, di un gruppo etnico, sociale, poli­tico o religioso), poi alla stigmatizzazione di quelle persone o di quel gruppo de­si­gnato come nemico sul piano politico, sociale, religioso o razziale, infine deportazione, concentramento e in alcuni casi ster­minio.

    Estremizzando la stigmatizzazione — ossia stabilendo un con­­­­­fine netto fra chi appartiene a un ordine, a uno specifico spazio politico–sociale condiviso, e chi vi è escluso — si nega l’Altro de–uma­nizzandolo, attivando un perverso processo che determina la classificazione di un gruppo umano in categorie sociali estreme negative, delegittimate dalle norme e dai valori morali che regolano la società umana, e per questo soggette a subire comportamenti crudeli sino ad azioni genocidarie⁶³.

    La de–umanizzazione, quindi, estremizzando in negativo i sentimenti, nega «l’umanità all’altro — individuo o gruppo — introducendo un’asimmetria tra chi gode delle qualità prototipiche dell’umano e chi ne è considerato privo o carente»⁶⁴. In altre parole, comporta la negazione dell’identità dell’Altro, che non è più riconosciuto come individuo autonomo, capace quindi di compiere scelte autonome e di avere diritti. Per questo chi è de–umanizzato è espulso dall’ordine non solo della società, ma anche della specie umana.

    Per lo psicologo sociale Daniel Bar–Tal, quattro sono le funzioni della de–umanizzazione⁶⁵:

    Giustificazione cognitiva: de–umanizzare un gruppo può giustificare comportamenti tragicamente negativi (si pensi ai genocidi e ai campi di concentramento);

    Compito razionale: de–umanizzare un gruppo può giustificare il suo sfruttamento, poiché si considera tale gruppo inferiore, ossia appartenente a uno stadio evolutivo più basso;

    Differenziazione intergruppi: de–umanizzare contribuisce ad accentuare le differenze intergruppi, rendendo i confini di appartenenza i più definiti possibili;

    Mantenimento della propria superiorità: la de–umaniz­za­zione fornisce la base per instaurare una superiorità legittima e stabile sull’Altro.

    Attraverso la de–umanizzazione si giustifica l’apertura dei campi di concentramento e di sterminio, privando completamen­te l’internato delle pre­rogative giuridiche, di ogni statuto po­litico, dell’umanità e del­la propria unicità individuale.

    Attraverso la de–umanizzazione si manipola anche il senso morale dei carcerieri. Infatti, la percezione dell’Altro come essere umano scatena reazioni emotive empatiche, che stimolano sentimenti positivi comuni (amicizia, rispetto, comprensione, solidarietà, fratellanza umana). Al contrario le persone disinvestite dell’umanità perdono la capacità di suscitare buone emozioni, aprendo uno spazio a comportamenti negativi carichi di irrazionalità distruttiva immuni del senso di colpa. Infatti, la estro­missione dalla specie umana di una persona o di un gruppo umano, attiva il processo di esclusione morale delle vittime da parte dei carnefici, conducendo a un disimpegno morale da parte di questi ultimi: relegare una persona o un gruppo umano all’interno di una categoria subumana permette a chiunque di affrancare la propria coscienza⁶⁶.

    Precisamente, a una persona ritenuta non più umana o a un gruppo de–umanizzato non spettano più i principi e le regole morali che normalmente fanno capo a tutti gli esseri umani (esclusione morale)⁶⁷ e chi accoglie questa visione si autoscagiona per i comportamenti che adotta, condotte che in altri momenti sarebbero considerati immorali (disimpegno morale)⁶⁸. Quindi, il persecutore si autogiustifica, incolpando le vittime di quanto subito⁶⁹.

    Con la sua de–umanizzazione, dunque, l’internato è ridotto interamen­te a vita vegetativa, rappresentando l’indistinzione tra persona e non–persona:

    [Nei campi] gli uomini muoiono, sono già tutti morti; anche se il corpo è ancora vivo, il cuore è spento; o per lo meno, in agonia. […] Il piazzale è tutto un brulichìo di spettri, risuona di uno strano rumore sordastro. Ti sembra di essere in preda ad un ossessionante allucinazione. Eppure sono uomini, uomini... No, veramente erano uomini. Adesso non lo sono più, sono morti; anche se respirano ancora, uomini non sono più. E non sono nemmeno bestie, perché altrimenti sarebbero tenuti da conto. Chi potrebbe dire che cosa sono?⁷⁰

    Eravamo tutti dannati e tutti innocenti [perché] oltre certi limiti di sofferenza non si può continuare a essere uomini.⁷¹

    Non funzionavo più come un essere umano: sapevo dentro di me che il mio spirito stava per morire.⁷²

    Noi giacevamo in un mondo di morti e di larve. L’ultima traccia di civiltà era sparita intorno a noi e dentro di noi.⁷³

    La de–umanizzazione, dunque, diventa sia il crudele mezzo per emar­ginare le vittime e giustificare le violenze sia il procedimento per alleviare la coscienza degli aguzzini.

    2.2. Le figure della de–umanizzazione

    La de–umanizzazione dell’Altro è sempre esistita nella storia umana, dai rapporti fra le tribù primitive allo schiavismo del mondo classico, dall’odio religioso al colonialismo europeo, sino alla giustificazione della violenza dei campi di concentramento e poi di quelli di sterminio. Le figure della de–umaniz­za­zio­ne che legittimano la violenza sono quindi molteplici: nei secoli si sono succedute metafore animalistiche, diaboliche, biologiche, oggettuali e meccaniche. Nei campi, in qualsiasi tipologia di campo, ritroviamo tutte le figure della de–umaniz­za­zione: «Le condizioni del lager non permettono agli uomini di restare uomini, i lager non sono stati creati per questo»⁷⁴.

    La metafora animalistica è l’espressione figurata più frequen­temente impiegata nella storia. L’animale è sempre stato un punto di riferimento importante nella definizione del­l’iden­tità umana⁷⁵. Gli individui o i gruppi sociali esclusi dalla pienezza dell’umano e rappresentati con tratti zoomorfi, subiscono un trattamento che varia secondo il valore assegnato. Infatti, le me­ta­fore dell’animalità possono avere valore positivo, riferiti a forza, fierezza, potere, coraggio, bellezza (toro, aquila, leone, cigno e così via); oppure negativo, se riferiti a fiere e animali che fanno ribrezzo (topi, serpenti, scarafaggi e così via). Nella semantica dei rapporti di dominio il ricorso alla metafora negativa dell’animalità è usuale per porre gli altri in stato di subordinazione⁷⁶, quindi per sottomettere, oltraggiare sino a uccidere:

    Schiacciando l’insetto o qualcuno come un insetto, ci si distanzia da lui, ci si distingue e ci si differenzia dalla sua morte che ha lo stesso non­–senso della sua vita […]. Noi che lo uccidiamo con disprezzo non possiamo essere uguali a lui, non possiamo aver qualcosa in comune con lui. Noi non siamo lui, che peraltro non–è.⁷⁷

    È chiaro, dunque, che la vita di individui percepiti come insignificanti animali ha meno valore, e la loro morte assume un contenuto diverso.

    L’utilizzazione di metafore animali nelle parole dei sopravvissuti, fa comprendere come il processo di animalizzazione può arrivare a impregnare la stessa auto percezione degli internati, costretti così a far propri i modelli de–umanizzanti imposti dai carcerieri: «Le SS ci incolonnarono a colpi di frusta come le bestie al circo»⁷⁸, ricorda nelle sue memorie Elisa Springer, ebrea viennese di origini ungheresi, sopravvissuta a Birkenau e altri lager nazisti come Berger Belsen e Therezin; «Nel campo, non vi era alcuna differenza tra l’uomo e la bestia, tranne forse che un uomo molto affamato era capace di rubare il cibo dai suoi piccoli, mentre un animale, forse, non lo era»⁷⁹, rievoca Chol–Hwan Kang, ospite nell’inferno del centro di rieducazione nordcoreano di Yodok; «A Bukchang la vita delle mosche ha più valore di quella degli uomini», spiega Kim Hye Sook, scappata nel 2009 al Kwan–li–so n. 18, terribile campo nordcoreano⁸⁰. Janusz Bardach, ebreo polacco condannato ai lavori forzati durante la Seconda guerra mondiale nelle miniere di Kolyma, precisa:

    La Kolyma mi aveva insegnato che la degradazione non era semplicemente un sottoprodotto delle condizioni in cui eravamo costretti a vivere: essa faceva infatti parte del piano. L’in­tento non era solo quello di ricavare la maggior quantità di forza–lavoro, ma anche di trasformare i prigionieri in bestie.⁸¹

    Il passaggio alla animalizzazione dei prigionieri inizia ancor prima dell’ingresso nei campi, durante i tragici viaggi. Ricorda ancora Elisa Springer:

    Eravamo bestie impaurite e tremavamo ad ogni rumore sospetto. Il primo atto di spersonalizzazione, la prima manifestazione del decadimento della nostra condizione di esseri umani, stava tragicamente iniziando!⁸²

    Terenzio Magliano, paracadutista della Folgore entrato nella Resistenza, ricorda il suo viaggio verso il campo di concentramento di Mauthausen–Gusen, dove è imprigionato come detenuto politico: «tutto cominciò con un viaggio terribile, ammassati come bestie, come maiali

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