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101 donne che hanno fatto grande Roma
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E-book429 pagine5 ore

101 donne che hanno fatto grande Roma

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Info su questo ebook

Madri, regine, artiste, eroine e altre figure indimenticabili della città eterna

La Città eterna al femminile: 101 ritratti di donne, romane di nascita, di famiglia o d’adozione, che hanno contribuito a rendere grande l’epopea dell’Urbe, a volte per scelta, altre per strani giochi del destino. Non è un semplice susseguirsi di biografie: ogni protagonista di questo libro ha un’anima e la sua storia si fonde con quella dell’epoca in cui ha vissuto, ne rappresenta una sintesi o il momento di rottura. Dalla Roma antica al secondo dopoguerra, dal Medioevo al Rinascimento, dal Risorgimento alla Roma del boom economico: incontrerete eroine della grande Storia ma anche figure rimaste fuori dalla ribalta della notorietà, impegnate nella politica o nel sociale, artiste, letterate, attrici, cortigiane. Sante o streghe. Anime malvagie, talvolta. 101 storie per una Roma tinta di rosa.

Tra le 101 donne che hanno fatto grande roma:

Cornelia: la mamma di due gioielli
La papessa Giovanna: una donna sul soglio di Pietro
Lucrezia Borgia: la duchessa figlia di papa
Artemisia Gentileschi: tutti i colori della passione
Sophie Blanchard: la prima donna nel cielo di Roma
Paolina Bonaparte: la scandalosa principessa
Maria Montessori: dalla parte dei bambini
Anna Magnani: l’attrice simbolo del neorealismo
Maria Bellonci: l’amica della domenica
Elsa Morante: la scrittrice inquieta
Giorgiana Masi: vittima della “ragion di stato”
Ilaria Alpi: la giornalista che sapeva troppo
Gabriella Ferri: la voce malinconica di Roma

Paola Staccioli
è nata e vive a Roma. Giornalista freelance, collabora con quotidiani e riviste. Appassionata della storia della sua città, ha pubblicato con la Newton Compton vari saggi e studi sulle feste, i teatri, i briganti, l’artigianato e, nel 2003, la Guida insolita dei musei di Roma e della città del Vaticano. Ha curato raccolte di racconti sulla Resistenza e sulle lotte politiche e sociali della seconda metà del Novecento. Nel 1992 ha fondato con Stefano Nespoli l’associazione culturale Lignarius, che si occupa di arti decorative, restauro, artigianato, saperi e culture del mondo.
LinguaItaliano
Data di uscita30 apr 2015
ISBN9788854182622
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    Anteprima del libro

    101 donne che hanno fatto grande Roma - Paola Staccioli

       1.

    REA SILVIA, LA MITICA MADRE (VIII SECOLO A.C.)

    Tutto inizia da lei. Senza Rea Silvia, a prendere per buona la leggenda, Roma non sarebbe nata. Il racconto è avventuroso e dei più noti. Ma anche dei più controversi. Fior di studi e di scavi non hanno portato a conclusioni certe. La fantasiosa storia è quella che si studia a scuola, da piccoli. Rinfreschiamo la memoria. Il padre di Rea Silvia, Numitore, discendente di Enea e re di Alba Longa, era stato spodestato dal fratello minore Amulio, che aveva costretto la nipote a farsi vestale. Un onore, in apparenza. In realtà, i trent’anni di castità previsti per le sacerdotesse dovevano essere un modo elegante e sicuro per liquidare la stirpe del fratello. Ma Amulio ha fatto i conti senza Marte. Il dio della guerra punta infatti gli occhi sulla ragazza e decide di possederla. Ed è lo stupro. Divino, certo, ma sempre di violenza si tratta. La giovane viene sorpresa mentre sta dormendo nel bosco sacro, dice la versione più diffusa. Dal fatale connubio nascono due gemelli d’eccezione, che decretano però la condanna della madre. Una vestale colpevole di aver violato il voto di castità non merita perdono. La leggenda prosegue percorrendo strade diverse. Rea Silvia finisce dritta in prigione, secondo alcuni. Viene sepolta viva oppure annegata nell’Aniene, dicono altri. Qualcuno afferma invece che fu salvata. Una sorte incerta, un’ambiguità simile a quella del nome. Mentre Silvia deriverebbe da Silvana, dea delle selve, nella mitologia greca Rea è una titanide, madre di Zeus, ma la parola indica anche colei che si è macchiata di una colpa. L’eterno dualismo fra positivo e negativo che accompagna le vicende delle donne più celebri. Reali o mitiche che siano.

    I due neonati, per ordine di Amulio, finiscono nel Tevere in piena. Ma la cesta in cui i servi, forse per pietà, li adagiano, rimane arenata, non si sa come, ai piedi di un albero di fico (il ficus ruminalis), fra il Palatino e il Campidoglio. O in una grotta detta Lupercale. Li trova, richiamata dai vagiti, una lupa che ha appena perso i propri cuccioli. Inizia ad allattarli. Anche un picchio li accudisce, ma non ha la fortuna di assurgere agli onori della storia come la sua collega. Un dipinto di Pieter Paul Rubens, del 1615 circa, condensa in un’immagine la storia e i suoi personaggi. La lupa, i paffuti gemellini, Rea Silvia, Marte. E il pastore Faustolo, che entra in scena al momento giusto, portando i due piccoli nelle sue stalle sul Palatino, in una zona chiamata Germalo, per farli allevare dalla moglie Acca Larenzia. L’unica lupa di questa storia, secondo alcuni. Perché il termine in latino indicava anche le prostitute, e Acca probabilmente lo era stata. Insomma, i prodigiosi gemelli la fanno franca e, una volta adulti, vendicano la madre, uccidendo il malvagio zio usurpatore e rimettendo sul trono il nonno Numitore. Al momento di fondare la città succede però il patatrac. Le versioni sono diverse. Qualcuno parla di una lite fra Romolo e Remo in seguito all’interpretazione degli auspici, che avrebbero dovuto indicare, fra i due gemelli, il nuovo re della città nascente. Storie di avvoltoi, presagi. Quando si passa alle mani, Romolo ha la meglio. Ma la variante più nota racconta che Remo avrebbe scavalcato il pomerium, il solco sacro, irridendo il fratello che, in preda all’ira, lo avrebbe ucciso. Per poi fondare Roma, secondo la tradizione il 21 aprile del 753 a.C. Sul Palatino, nel luogo in cui è cresciuto. Divenendone il primo re.

    Sono i passi iniziali di quello che, nel giro di qualche secolo, diventerà un impero così autorevole da essere secondo solo alla potenza degli dèi, afferma Tito Livio nella sua poderosa storia della città. Origini terrene ne avrebbero sminuito il prestigio. Del resto, è comune per i popoli antichi credere a discendenze divine, a esordi sacri e autorevoli. Chi allora meglio di Marte, il venerato dio della guerra, poteva essere destinato a generare i Romani e la gens Iulia? Quella di Cesare e Augusto, per intenderci.

    Fino a poco più di un secolo fa sulle origini di Roma c’era solo questa leggenda. Densa di suggestioni e indubbiamente antica – risale infatti al IV o III secolo a.C. – ma pur sempre frutto della fantasia. Una narrazione che nel tempo ha avuto alterne fortune. Dalla condanna ipercritica allo scetticismo fino all’esaltazione fideistica, a seconda del periodo storico. In fondo, però, Rea Silvia non ha alcun bisogno di lifting per mantenere intatto il suo fascino nei secoli. Forse a colpire è la sua innocente vulnerabilità di fronte alle torbide trame del perfido Amulio. Oppure il fatto che, come in ogni favola che si rispetti, alla fine è il bene a trionfare.

    I ritrovamenti archeologici – dimostrando che il sito di Roma era frequentato già dalla metà del secondo millennio a.C. – hanno scompigliato il mito. Frammenti ceramici sono lì a testimoniarlo. Probabilmente gli insediamenti non erano ancora stabili, ma almeno dal 1000 a.C. l’area fu abitata senza interruzione. C’erano piccoli villaggi sul Palatino e forse anche su altre colline. Nell’VIII secolo a.C., è vero, la popolazione crebbe molto, ma se la data convenzionale della fondazione coincida con una qualche realtà storica è tuttora oggetto di dibattito. Recenti scoperte hanno dato nuovo sostegno ad alcuni elementi della leggenda. C’è però chi parla di semplici coincidenze cronologiche. La discussione continua. E pensare che Tito Livio, un paio di millenni fa, scriveva che le vicende del popolo romano fin dai primordi della città erano un argomento antico e già sfruttato!

    Rea Silvia

       2.

    LUCREZIA, LA MOGLIE ESEMPLARE (VI SECOLO A.C.)

    Sette re dopo lo stupro divino che porta alla fondazione di Roma, la tradizione vuole che sia ancora la violenza contro una donna a cambiare il corso della storia, determinando la cacciata dei Tarquini, gli ultimi re etruschi, e la nascita della Repubblica.

    Tito Livio racconta che sotto Tarquinio il Superbo gli uomini sono spesso via, in guerra. Perché il re ha deciso di rimpinguare le casse assediando Ardea, la fiorente città dei Rutili. I nobili e i figli del sovrano ingannano il tempo libero negli accampamenti divertendosi a immaginare le occupazioni delle consorti in loro assenza. Ognuno tesse le lodi della moglie. Collatino è orgoglioso della sua giovane Lucrezia, laboriosa e fedele come nessun’altra donna al mondo. È talmente sicuro che propone agli altri di andare a verificare direttamente, nel pieno della notte, senza farsi scoprire. Detto fatto, tutti salgono a cavallo. Mentre a Roma le nuore del re se la spassano banchettando, a Collazia, circondata dalle sue ancelle, Lucrezia sta filando la lana a lume di candela. Collatino è felice per la vittoria. Ma la pagherà cara. Con la sua iniziativa ha involontariamente condannato Lucrezia.

    A Sesto Tarquinio, figlio minore del re, questa donna così bella, virtuosa e semplice provoca un terremoto emotivo. È un colpo di fulmine. Pochi giorni dopo torna in segreto a Collazia con un solo uomo di scorta. Accolto amichevolmente, viene sistemato nella stanza degli ospiti. Mentre tutti dormono, si introduce nella camera di Lucrezia. Il desiderio di possederla è bruciante, ma lei lo respinge. Lui insiste e alla fine passa alle minacce, spada alla mano: se continuerà a rifiutarlo la ucciderà nel suo letto mettendole accanto il cadavere di uno schiavo nudo, per poi sostenere di averla colta in flagrante adulterio. Piegata dalla vergogna, la donna cede per paura dell’offesa e del disonore. Appena rimane sola, invia un messaggero a Roma dal padre e uno ad Ardea dal marito chiedendo loro di correre da lei al più presto con un amico fidato. A Collatino dice che è accaduto qualcosa di grave. Nel suo letto vi sono le tracce di un altro uomo. Il corpo è stato violato, però il cuore è innocente. È decisa a dimostrarlo con la morte: «Ma voi, promettetemi che l’adulterio non resterà impunito». I quattro, che cercano di consolarla e di farla desistere dai suoi intenti, non riescono a impedirle di conficcarsi in cuore il pugnale che aveva nascosto sotto le vesti. I Romani amavano condire i principali eventi della loro storia con modelli di virtù ed eroismo, veri o leggendari. Gli autori dell’epoca fanno quindi pronunciare a Lucrezia, nel compiere il gesto conclusivo, la frase ideale per assurgere a simbolo della sposa virtuosa e rispettabile: «Perché in futuro, seguendo il mio esempio, nessuna donna viva disonorata».

    Lucio Giunio, conosciuto con il poco rassicurante soprannome di Bruto, lo Stolto, perché ha rinunciato ai suoi beni, estratto il coltello grondante di sangue dal corpo di Lucrezia giura e fa giurare vendetta al padre e al marito di lei. Poi capeggia la rivolta che abbatte la monarchia. Eccita gli animi con parole roventi, fa un appello ai giovani a prendere le armi. Tarquinio il Superbo se ne va in esilio con moglie e figli. L’autore dello stupro, ritenendosi al sicuro, si rifugia a Gabi, dove viene ucciso dai suoi vecchi nemici. Nel 510 a.C., la monarchia cade e nasce la res publica. L’autorità è divisa fra Senato, popolo e consoli.

    I primi due sono Lucio Tarquinio Collatino, marito di Lucrezia, e Lucio Giunio Bruto.

    Gli intellettuali dell’epoca, da Tito Livio a Cicerone, sono concordi. L’insurrezione popolare scoppia per vendetta. L’offesa contro una donna rappresenta un oltraggio a tutte le spose romane. Ma la storiografia recente ritiene poco realistica questa versione. È vero che i Tarquini – sotto i quali Roma ha avuto un periodo di sviluppo economico e di prestigio politico – vengono cacciati via, però lo stupro e la morte di Lucrezia sono solo un pretesto che fa esplodere la tensione. La lotta per il potere all’interno dell’aristocrazia dominante era giunta a un punto in cui il cambiamento non poteva più essere rinviato.

       3.

    CLELIA, UNA GIOVINETTA INTREPIDA (FINE DEL VI SECOLO A.C.)

    Nel 507 a.C., raccontano gli antichi testi, l’esercito etrusco guidato da Porsenna, re di Chiusi, mette Roma sotto assedio, nel tentativo di restaurare la monarchia che è appena stata spazzata via dalla Repubblica. La resistenza è popolata da leggendarie figure ed eroiche imprese. Come quella di Muzio, che penetra nel campo nemico con l’intenzione di uccidere il re. Sbaglia persona e fa fuori il segretario. Ma passa comunque alla storia con il soprannome di Scevola, il Mancino, per uno spavaldo atto di coraggio. Finito in prigione con la minaccia di essere bruciato vivo, Muzio, sprezzante, opta per il fai da te, e si gioca la mano destra lasciandola ardere su un braciere. Senza un lamento. Intanto comunica alla mancata vittima che trecento giovani nobili sono pronti a seguire le sue orme, magari con risultati migliori. Porsenna lo libera, sorpreso dal suo valore, o forse per paura, chissà. E tratta la pace. Chiede tra l’altro la restituzione dei beni dei Tarquini e la consegna di alcuni ostaggi. Sulla prima richiesta i Romani fanno orecchie da mercante, mentre sulla seconda non ci pensano due volte. La leggenda dice che i prigionieri finiscono in accampamenti nei pressi del Tevere. Fra loro c’è la giovane patrizia Clelia. Delle sue gesta sono state tramandate diverse versioni. La più comune, riferita anche da Tito Livio, racconta che l’intrepida fanciulla riesce a fuggire portandosi dietro altre ragazze. Giunte vicino al Tevere, non trovano ponti per attraversarlo. Quindi Clelia, «elusa la sorveglianza delle sentinelle passò a nuoto il fiume sotto i dardi dei nemici, alla testa di una schiera di vergini, e le riportò tutte sane e salve a Roma». Arrivate in città, le ragazze vengono subito catturate dai Romani, che inizialmente pensano di avere di fronte dei nemici. Portate davanti ai consoli, sono poi rispedite a Porsenna per rispetto degli accordi presi. Il re chiede loro chi le abbia fatte fuggire. Clelia si fa avanti. Sono stata io, dichiara con orgoglio, senza il minimo accenno di pentimento. Il sovrano etrusco si trova ancora una volta alle prese con il valore e la fierezza dei Romani. Libera la giovinetta e le permette di scegliere altri ostaggi da portare con sé. L’audace fanciulla prende alcuni adolescenti, utili per la difesa della città. Tornata a Roma riceve un onore insolito per una donna, una statua equestre realizzata a pubbliche spese lungo la via Sacra. Del monumento si è persa ogni traccia, mentre c’è ancora una via a suo nome.

    Figura affascinante, Clelia. Chissà quanto in questa storia ci sia di vero e quanto di simbolico e leggendario! Sulla stessa guerra le notizie sono contraddittorie. Forse il conflitto non si concluse in modo indolore per i Romani, probabilmente la città oltre che assediata fu anche occupata dagli Etruschi. Alla storia conveniva far passare la variante meno veritiera ma più propagandistica.

       4.

    FLORONIA, LA VESTALE INNAMORATA (FINE DEL III SECOLO A.C.)

    Si amano da morire Floronia e Cantilio. Nel senso letterale del termine. Si amano in modo travolgente ma sacrilego.

    Il loro destino, se scoperti, è segnato. Perché lei è una vestale, vergine sacra vincolata al voto di castità. E lui, pontefice minore, certo non ignora il rischio. Però sperano di farla franca, sperano che la passione voli più alta di ogni pericolo. Invece vengono individuati. Lo scandalo scoppia nel momento peggiore. Il 216 a.C. è un anno tragico per i Romani, ferocemente sconfitti da Annibale a Canne e con il nemico cartaginese che incombe. La tensione sociale è forte, e il comportamento licenzioso di Floronia e di un’altra vestale è interpretato quale segno premonitore inviato dagli dèi. Sono accusate di incesto, definizione data a tutte le trasgressioni sessuali delle sacerdotesse.

    Bisogna correre ai ripari, punire in modo esemplare le colpevoli per evitare una catastrofe all’intera città. Una terribile responsabilità grava sulle spalle delle povere ragazze. Gli dèi sono buoni e cari, ma quando si sentono offesi sono anche vendicativi. È necessario fare pace, placarli per non rischiare pestilenze, inondazioni, sciagure varie.

    Per circa dieci secoli l’istituto delle virgines vestales ha rappresentato a Roma il cuore e la continuità della religione di Stato. Dedite a occupazioni solo in apparenza umili, le sacerdotesse avevano in affidamento riti importanti per la collettività. Dovevano in primo luogo custodire e non far spegnere – pena la frusta – il fuoco sacro, inizialmente situato nel tempio di Caco sul Palatino, poi trasferito in quello di Vesta al Foro. Le rare volte che accadeva veniva riacceso sfregando due tavolette di arborfelix, ovvero un albero fruttifero. Le vestali preparavano anche la mola salsa, farina di farro salata che dava efficacia a riti e sacrifici pubblici.

    Il rito di uccisione delle vestali è atroce: sepolte vive nel campus sceleratus. Floronia, come le altre cui era toccata questa sorte, è portata attraverso la città su un carro nero, coperto da veli neri e trainato da cavalli neri. Direzione: Porta Collina, che si apriva allora nelle Mura serviane vicino all’attuale Porta Pia. Lì viene calata in una stanzetta sotterranea. Il coperchio si chiude inesorabile sopra di lei. Per sempre. Pareggiando il terreno, della colpevole scompare ogni traccia. Un supplizio pulito, in cui lo Stato salva le apparenze, non si macchia apertamente dell’uccisione. Nella camera della morte c’è persino un giaciglio, un minimo di acqua e cibo, una lanterna e un po’ di olio per alimentarla.

    Floronia viene eliminata così, mentre il suo amante, condotto nudo nel Comizio con la corda al collo come gli schiavi, è fustigato a morte. Quindi esposto alla pubblica vergogna.

    Tito Livio racconta che Opimia, la malcapitata compagna di Floronia, sceglie il suicidio. Qualche autore inverte le due storie, ma il risultato non cambia.

    La paura fa brutti scherzi, e dopo tutto ciò i Romani non sono ancora tranquilli. Spediscono allora un inviato speciale a Delfi a consultare l’oracolo e stabiliscono che in una situazione così grave l’esecuzione delle colpevoli non è sufficiente ad allontanare le disgrazie. Riesumata un’antica profezia, secondo la quale Roma sarebbe stata invasa da Galli e Greci, si decide un gesto di prevenzione, per depistare il pronostico verso un esito il più possibile soft. Nel cuore della città, in pieno Foro Boario, sono sepolte vive due coppie prive di ogni colpa. Una di Greci e una di Galli.

    Secondo alcuni l’istituto delle vestali risale a Numa Pompilio, secondo altri preesiste alla fondazione di Roma. Le sacerdotesse, in origine due, quindi quattro, e in epoca storica sei, erano selezionate dal pontifex maximus, che esercitava su di loro la patria potestà. Si convocavano venti bambine tra i sei e i dieci anni, di famiglia patrizia, con entrambi i genitori viventi e in perfetto stato di salute. Le prescelte (Te, amata, capio) avevano un’esistenza agiata, priva di preoccupazioni materiali. Allietata da rendite ed elargizioni testamentarie anche di imperatori.

    Al servizio della dea Vesta rimanevano trent’anni, durante i quali dovevano attenersi alla castità assoluta. Anche se, come le nubende, onoravano il fascinus, l’organo genitale maschile.

    Poi potevano sposarsi. Ma certo non doveva essere semplice per una donna sulla quarantina trovare marito! Comunque poche ci provavano, ormai legate ai privilegi del loro stato. L’abbigliamento era severo: vesti lunghe, bende come le matrone, sul capo il velo e la complicata acconciatura nuziale. Ogni tanto però comparivano in strada con abiti sfarzosi, e nell’ultimo periodo dell’Impero si facevano vedere in giro circondate da schiavi.

    Tramite fra gli umani e le divinità, le vestali godevano di privilegi maschili. Potevano fare testamento, disporre dei propri beni, testimoniare in giudizio. Erano insomma mezzi uomini e mezze matrone. Onorate anche dopo la morte e sepolte all’interno delle mura della città, avevano accesso ad alcuni virilia officia e un peso nella vita pubblica. Concedevano la grazia ai condannati, trovavano posti riservati al circo, a teatro. In strada consoli e pretori lasciavano loro il passo. In cambio, dovevano sottostare a rigide norme e pesantissime pene in caso di violazione.

    Il collegio delle sacerdotesse di Vesta, a differenza di altri ordini, ha resistito fino agli ultimi fuochi dell’antico paganesimo, al termine del IV secolo. Con l’affermarsi del cristianesimo, mentre all’Aventino e altrove si sviluppavano i focolai della nuova religione, alimentati spesso da donne, furono emanati i primi decreti imperiali contro le vestali. In genere disattesi, perché senatori e personaggi illustri le proteggevano. La venerazione del focus publicus era a Roma tanto radicata da non poter essere in quattro e quattr’otto spazzata via da altri culti.

       5.

    CORNELIA, LA MAMMA DI DUE GIOIELLI (189-110 A.C. CIRCA)

    Una battuta puntuale e tagliente, tra le più celebri della storia, ha reso Cornelia l’icona della madre, il modello ideale di donna della Roma antica. Simbolo di quei valori tradizionali che rendevano la famiglia struttura portante dell’organizzazione sociale.

    L’occasione è la visita in casa di una vanitosa matrona campana. Con relativo sfoggio di monili preziosi, testimonianza di uno status economico e sociale. Il potere in versione femminile, insomma. Cornelia ammira, per cortesia, poi quando i figli tornano dalla scuola, indicandoli pronuncia la frase che la consegna alla storia: «Questi sono i miei gioielli». Parole tramandate da Valerio Massimo, che mantengono la loro forza a distanza di millenni.

    Se l’autenticità della frase non è certa, è invece sicuro che in una situazione in cui dilagano il lusso e la corruzione, Cornelia è un esempio di sobrietà, capacità dialettiche e raffinatezza intellettuale. Appartenente alla gens patrizia dei Corneli Scipioni, è cresciuta in un ambiente così colto che persino Carneade non disdegna di partecipare a dispute filosofiche davanti a lei. Ma questo alla storia interessa poco. A renderla celebre è infatti l’adattamento alle esigenze familiari e coniugali, il suo ruolo di figlia ubbidiente, moglie prolifica e fedele, madre esemplare.

    Appena raggiunge l’età da marito – dai dodici ai quattordici anni, per una donna – Cornelia viene data in sposa per alleanze familiari, come spesso accade. Così si ritrova moglie di Tiberio Sempronio Gracco, che fu pretore, console, censore, ed ebbe anche l’onore del trionfo. Lui è più vecchio di una trentina d’anni, ma i due si danno da fare. Dal matrimonio nascono dodici figli, anche se solo tre raggiungono l’età adulta. Tiberio e Gaio, ai quali Cornelia deve la sua gloria, oltre alla dimenticata Sempronia. Un giorno – racconta tra gli altri Plutarco – il marito trova nel letto due serpenti. L’aruspice gli dice che liberando il maschio entro breve sarebbe morta la moglie. Salvando la femmina avrebbe invece decretato la sua fine. Senza alcuna esitazione lui fa uccidere il maschio.

    E dopo un po’ muore. Cornelia rimane vedova a circa trentacinque anni. I pretendenti non le mancano. Anche importanti, sembra. Forse persino il sovrano d’Egitto Tolemeo VIII. Certo è che per quanto re, un uomo soprannominato Fiscone, ovvero il Pancione, tanto affascinante non deve essere. Comunque lei rifiuta tutti e non si risposa. Decide di rimanere univira, cioè con un unico marito. Un caso raro fra le ricche matrone. Cornelia conduce una vita sobria, non certo per difetto di mezzi. L’amore è tutto rivolto verso i due figli maschi, che educa a suon di filosofia e letteratura greca. Nel rispetto del mos maiorum, quel costume degli antenati che i Romani del suo tempo considerano fondamento della loro cultura e civiltà.

    Sono sempre gli uomini di famiglia a coinvolgere Cornelia negli eventi politici. Il padre e i figli, in particolare. Che si trovano però su sponde opposte. Suo padre, Scipione l’Africano, protagonista della seconda guerra punica, vincitore di Zama, è tra gli artefici della politica imperialistica della Repubblica. Tiberio e Gaio sono invece tribuni della plebe, travolgenti oratori schierati dalla parte del popolo, contro lo strapotere oligarchico. Un po’ troppo rivoluzionari, forse, per i gusti di una madre. Ma lo squilibrio via via crescente nella società romana indigna anche Cornelia. Non ci sono più lavoratori liberi, piccole proprietà, i latifondisti ormai affidano le terre ai loro schiavi. A un certo punto le sembra però che Gaio esageri. A stare appresso a lui è la stessa stabilità della Repubblica a rischiare. Forse gli scrive, ma non si sa se le lettere di cui è rimasta traccia siano autentiche. I fratelli pagano con la vita il loro impegno politico e sociale. Tutti e due, a distanza di dodici anni l’uno dall’altro. Cornelia sopporta il dolore con animo così fermo che qualcuno pensa sia addirittura uscita di senno.

    Chiude la sua lunga vita a Capo Miseno, in ritiro. Muore a quasi ottant’anni. Una matusalemme, per l’epoca. A ricordarla viene eretta una statua. Onore raro per una donna. La scritta, per suo volere, la commemora semplicemente come Cornelia madre dei Gracchi.

    Cornelia

       6.

    SERVILIA, L’INOSSIDABILE AMANTE DI CESARE (I SECOLO A.C.)

    Tra la fine del 63 a.C. e l’inizio dell’anno successivo, sulla scena politica romana tira vento di tempesta. I senatori non fanno che discutere della congiura di Catilina e della sorte dei cospiratori. Lo scontro è duro. Gaio Giulio Cesare non ha dubbi. Nessuna condanna senza processo e senza il voto del popolo sovrano. Marco Porcio Catone, detto l’Uticense, pronipote dell’omonimo Censore, lo accusa di essere in combutta con i nemici della Repubblica. Nel bel mezzo della discussione, secondo Plutarco, arriva un messaggio per Cesare. Catone gongola. È sicuro di avere nelle mani la prova decisiva. Va giù pesante. Altri gli fanno eco. Cesare, impassibile, gli dà la missiva. Catone cambia espressione. Sul suo volto cade il gelo. Parole d’amore. Rivolte all’avversario da Servilia, la sua cara sorellastra. Sposata. L’Uticense ha un gesto di stizza, il suo odio per Cesare è implacabile. Ma deve incassare il colpo. In fondo però tanta meraviglia è strana. I due amoreggiano da tempo e poco fanno per proteggersi dalla grandine dei pettegolezzi. Anzi. Sembra quasi che vogliano ostentare il loro amore inossidabile alle intemperie.

    Amanti perpetui. Per scelta, forse, più che per necessità. A lungo, è vero, le loro vite seguono ritmi diversi. A un certo punto però sono entrambi liberi.

    Nel 61 a.C. Cesare ripudia l’adultera Pompea, mentre Servilia, rimasta vedova, non ha altri legami. Finito il periodo di lutto potrebbero sposarsi. Nulla. Probabilmente Cesare vuole realizzare il suo grande desiderio: un figlio maschio legittimo. Servilia, prossima ai quaranta, non è la donna adatta e gli lascia campo libero. Tutto sommato il loro rapporto è andato sempre bene così. Più stabile di un vero matrimonio, non c’è ragione di cambiare. Nel 59 a.C., Cesare sposa la diciottenne Calpurnia. L’erede non arriva.

    A Servilia i mariti non sono mai mancati. Il primo a quattordici anni. Il maturo Marco Giunio Bruto. Uno sposo fantasma, alle prese con la guerra civile fra Mario e Silla. Mentre il consorte è via, rimane intrappolata dal fascino di Cesare. Alto, spigliato, sguardo magnetico. Nel frattempo ha giusto il tempo di sfornare due figlie e un maschio, omonimo del padre, prima che suo marito, schierato contro l’oligarchia senatoriale, venga ucciso, nel 78 a.C., su ordine di Pompeo. Ne trova subito un altro: Decimo Giulio Silano. Il suo amante non è da meno. Morta la moglie Cornelia si sposa con Pompea.

    Fra una vittoria e l’altra, Cesare torna da Servilia. Senza però trascurare le mogli (quattro in tutto) e le altre (o altri) amanti. L’imbattibile generale, il colto e brillante oratore ha stuoli di donne ai suoi piedi, e non se le lascia scappare. Regine, mogli di amici, nemici, parenti. Avventure passeggere. Tranne Servilia. Che riempie di regali preziosi. Tutta Roma sa della perla da seimila sesterzi. Una fortuna. Ma anche di altri doni sontuosi. Ottenuti però senza sborsare denaro. Con un’asta truccata Servilia si aggiudica per due soldi alcuni splendidi possedimenti rimasti liberi in seguito alla guerra civile. Come la magnifica villa napoletana di Ponzio. Cicerone lancia strali. E doppi sensi. Un ottimo affare, dice, anche perché dalla somma è stata dedotta la Terza. Ufficialmente parla di soldi ma – guarda caso – Terza è anche la figlia di Servilia. Braccata dal passo veloce degli anni, pur di non perdere l’amante la madre gliel’avrebbe ceduta. Sono solo pettegolezzi, probabilmente. Intanto Cesare vince in Asia, vince in Africa. Vince ovunque. Fomentando invidie e inimicizie. Soprattutto dopo l’arrivo a Roma di Cleopatra, che lo ha ammaliato in Egitto. Ha trent’anni meno di lui e un figlioletto con sé. Avuto da Cesare, dice. Fiumi di ipocriti adulatori vanno a rendere omaggio al vincitore e alla regina nella villa del Gianicolo. Compresi Bruto e Cassio, che già tramano per farlo fuori. Il primo ha sposato Porcia, figlia dell’Uticense, che dal padre ha ereditato l’odio per Cesare. Il secondo la famosa Terza.

    Servilia fiuta ciò che sta accadendo. Il grande stratega no. Senza avvisarlo, parte per la villa napoletana. Torna appena le giunge notizia dell’uccisione dell’amante.

    I congiurati sono asserragliati in Campidoglio, i veterani affluiscono a Roma. Onorano il loro capo e bruciano le case dei nemici. Servilia non vuole vedere Terza. Il suo tradimento le è troppo bruciante. Incontra invece Bruto, capo della congiura. Figlio di Cesare, secondo alcuni. Di certo, figlio di Servilia, la donna che ha amato per oltre trent’anni. È normale quindi che abbia tirato via il ragazzo dai pasticci e lo abbia risparmiato in guerra. Non è elegante fare fuori il figlio della propria amante. Poi però gli ha conferito incarichi importanti e una fiducia incondizionata. Come un padre. Eppure sempre più storici mettono in dubbio la veridicità del celebre Tu quoque... attribuito a Cesare morente. Anche i pilastri più solidi a volte si incrinano.

       7.

    CLAUDIA O CLODIA, LA RIBELLE AMATA DA CATULLO (NATA A ROMA NEL 94 A.C.)

    «Dammi baci cento baci mille baci», il giovane poeta veronese Catullo così canta il suo travolgente e tormentato amore. «E ancora baci cento baci mille baci». Versi fra i più celebri della letteratura latina. La destinataria, l’adorata Lesbia – nome scelto in onore di Saffo, poetessa dell’isola di Lesbo – in realtà si chiama Claudia. Alta, bruna, grandi occhi neri, è la bellissima sorella di Publio Clodio Pulcro, che ha trasformato il suo nome dalla forma nobile Claudio a quella popolare di Clodio, cambiando lo status sociale da patrizio a plebeo per essere eletto tribuno della plebe. Proveniente da una delle famiglie più antiche ma ormai squattrinate dell’oligarchia senatoriale, Claudia è intelligente, disinvolta, spregiudicata. Al momento del fatale incontro ha qualcosa più di trent’anni (lui una decina in meno), ed è sposata con Quinto Cecilio Metello Celere, noto uomo politico morto improvvisamente poco dopo essere stato nominato console nel 60 a.C. Infarto, ictus, oppure... veleno muliebre, insinua perfido Cicerone. Per Catullo, genio della poesia ma anche ingenuo provinciale, questo altalenante amore non è tutto rose e baci. È una storia struggente di passione disperazione abbandoni riavvicinamenti. A volte, accecato dalla gelosia, arriva agli insulti. La descrive come una donna assatanata, lussuriosa e affamata di piacere che «masturba tutta la discendenza del grande padre Remo». Duro e tagliente, la invita a «godersi a lungo i suoi trecento amanti». Poi torna l’idillio, e sono di nuovo baci. Lei lo ama, a quanto pare, ma non come lui desidererebbe. La storia non dura molto. Una donna ambiziosa è poco attratta da un poeta senza potere. Meglio uomini importanti. Come Cesare, che probabilmente non si è lasciata sfuggire, se non altro per una scappatella.

    Sulle orme delle scelte populiste del fratello, anche lei muta il suo nome in Clodia, adeguandolo alla pronuncia popolare. È una dichiarazione politica. Contro il tradizionale odio della sua famiglia nei confronti dei ceti più umili.

    Claudia è una docta puella, dice Catullo. In effetti a lei non interessano le avventure con gli schiavi. Cerca rapporti che la incuriosiscano intellettualmente, che la facciano entrare nel giro dei potenti. Per influire sulla politica una donna deve passare attraverso un uomo. Un parente. O un amante, a cui offrire in cambio performance

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