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L’italia al tempo dei populismi
L’italia al tempo dei populismi
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E-book310 pagine4 ore

L’italia al tempo dei populismi

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“Parto da una considerazione: l’Italia è l’unico Paese del Continente nel quale, dal dopoguerra, non si sono realizzati governi di sola sinistra né di sola destra, ma di coalizione e di compromesso, dei quali sono stati protagonisti indiscussi i partiti, e non un partito.” 

Da questo spunto Carmelo Conte procede per ricostruire la situazione attuale della politica italiana, leggendo in controluce le contraddizioni che hanno favorito l’emergere di fronti populisti che oggi continuano a radicarsi sempre più da una parte all’altra dell’emiciclo parlamentare. Dai partiti alla partitocrazia, e da questa ai populismi e alla loro proteiforme varietà. “L’Italia al tempo dei populismi” è una precisa genealogia della cronaca politica di questo Paese, descritta al netto di narrazioni faziose e di rivendicazioni di parte. Un’onesta e preoccupata fotografia della malattia non solo istituzionale ma culturale che da un ventennio, slogan dopo slogan, ha investito l’Italia trasformandone irrimediabilmente la dialettica politica, imponendo la narrazione populista come unico linguaggio comprensibile e gradito dall’elettorato.

Carmelo Conte è nato a Piaggine e vive ad Eboli. Avvocato. Sindaco di Eboli (1973-74), Consigliere regionale, Vice Presidente della giunta regionale della Campania (1976-78), Deputato al Parlamento nazionale per quattro legislature (1979-1994), Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri (1979-1980) e Ministro delle aree urbane (1989-93). Presentatore e relatore di importanti leggi, tra le quali: L. 219/1983 (interventi per le zone colpite dal terremoto del 1980); L. 64/1986 (sviluppo del Mezzogiorno); L. 465/1990 (Mondiali di Calcio 1990); L. 396/1990 (Roma Capitale); L. 211/1992 (Interventi nel settore dei sistemi di trasporto rapido di massa (metropolitane). Relatore al convegno sulla delinquenza organizzata, tenuto alla Hofstra University di New York (5 e 6 febbraio 1989) con Rudolf Giuliani. Opinionista, ha pubblicato sei libri: L’avventura e il Seme (1993) Sasso o Coltello (1994), Dal quarto Stato al Quarto partito (2009), Dialoghi nel tempo (2010), Il Sud al tempo degli italiani, (2011) Coincidenze e poteri (2016).
LinguaItaliano
Data di uscita30 giu 2019
ISBN9788899706678
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    Anteprima del libro

    L’italia al tempo dei populismi - Carmelo Conte

    Letteraria

    Prefazione

    di Michele Mirabella

    Conoscere: è uno dei verbi più importanti di cui disponiamo nel nostro lessico, senza del quale sarebbe impossibile perfino dirci umani; un verbo con radici profonde quanto lontane che ci giunge direttamente dalla culla del pensiero occidentale, l’Antica Grecia, attraverso il consueto filtro della latinità: γιγνώσκω, conosco, che – non certo per caso – condivide la radice con γίγνομαι che vuol dire nasco.

    E non è poco.

    Muovendo dalla riflessione sulla fascinosa importanza di questo verbo nasce – appunto - una collana che tenta di soddisfare un’esigenza fondamentale da sempre della società umana: mettere in comunicazione chi dispone della conoscenza, conquistata attraverso anni di studio e un’intera vita di esperienza, e chi della conoscenza si vuole servire per migliorare la propria condizione, perché afflitto da una malattia, titolare di un diritto da far valere, per promuoversi socialmente o, semplicemente, perché beatamente curioso di un sapere.

    Ci viene proposta, dunque, una serie di opere dedicate alla diffusione della conoscenza: la novità, cruciale, è che i titolari della sua trasmissione non sono intermediari, come spesso accade, ma proprio le persone che detengono il sapere che si fa prassi socioculturale, dimensione antropologica. Sono medici, avvocati, commercialisti, architetti, imprenditori, artisti. Cittadini, insomma della Città dell’uomo.

    Chiunque abbia costruito, negli anni, una competenza basata sullo studio e approfondita dall’esperienza è chiamato a condividerla per formare un bagaglio comune, un alveare di sapienza al servizio dei lettori.

    La Collana è perciò anche una rassegna di buoni professionisti del Paese, donne e uomini che hanno dedicato passione e – diciamolo! – anche fatica, all’acquisizione di un patrimonio che sono disposti a condividere. Per non dimenticare la definizione della cultura data dal filosofo: il sedimento naturale dei saperi condivisi. E da condividere, aggiungerei, con il villaggio globale fatto di informazione del quale tutti, oggi, siamo abitanti.

    La Collana, infine, è un farmaco. Un genere preciso e molto particolare di farmaco: un antidoto. Va assunto senza alcuna preoccupazione di effetti indesiderati perché è l’antidoto a un veleno potente e diffuso: l’ignoranza.

    Fake news, bufale, catene di Sant’Antonio multimediali, chiacchiere di fattucchiere e bugie più o meno telematiche sono gli agenti del contagio, gli untori dell’intruglio velenoso.

    Ogni atto volto a contrastare la progressione del morbo va dunque accolto con la riconoscenza che si tributa al medico intervenuto a salvarci la vita. E a scacciare lo stregone.

    Con la certezza di rivolgervi il più fausto degli auspici, il migliore che possa capitare di ricevere, vi auguro dunque una buona lettura.

    Michele Mirabella

    Al piccolo Enrico, il milanese

    Introduzione

    di Peppino Caldarola

    Carmelo Conte, un intellettuale che lo scorrere del fiume della politica non l’ha osservato dalla riva ma bagnandosi anche in acque profonde, con questo libro ci propone una ricognizione esauriente del fenomeno del populismo e del sovranismo. Ne indaga le lontane origini, la natura teorica, la dimensione internazionale per poi applicare queste analisi al contesto italiano, non soffermandosi solo sui populismi che sono oggi sulla cresta dell’onda ma anche su quelli meno barbarici del recente passato.

    Ecco quindi un viaggio che ci porta dai primi passi di Casaleggio e Grillo agli attuali leader dei 5 Stelle, dalla Lega di Bossi fino a Salvini, fondatore della destra più aggressiva che l’Italia dal secondo dopoguerra ricordi, partendo dai fenomeni preparatori incardinati sulle figure di Berlusconi e di Renzi. Questo libro non è solo un ottimo esempio di analisi di teoria politica ma immerge anche il ragionamento nelle vicende a noi prossime, ad esempio mettendo in rilievo il prezzo che questa stagione politica fa pagare sia all’europeismo, sia, anche se il termine è antico, al meridionalismo.

    Un libro complesso, scritto in modo diretto, che consente l’approccio anche al lettore non specialistico ma soprattutto un libro di stringente attualità.

    Ovviamente fare un’indagine su un fenomeno politico di massa mentre è nel pieno del suo vigore è sentirsi come il cardiochirurgo che opera a cuore battente. Non sai che cosa tocchi, non sai come finirà. Soprattutto non sai se il paziente reggerà il peso dell’intervento. Fuor di metafora, il nostro paziente in realtà sono due pazienti sdraiati su lettini attigui: questo povero Paese e questa derelitta sinistra.

    La ricchezza delle tesi sostenute nel libro mi impedisce, in questa breve introduzione, di infilarmi in tutti i ragionamenti che Carmelo Conte ha sviluppato con scienza e talento di scrittura. Vorrei solo sottolineare i punti fondamentali della sua analisi che quasi sempre coincide con quella che anche io faccio da anni.

    Il primo è il carattere internazionale del fenomeno. Credo che siamo di fronte al ’68 della destra reazionaria. Come quello fu mondiale e liberatorio, così questo è mondiale e reazionario. Entrambi si occupano di economia, di sovrastrutture, di comportamenti di massa. Questo fenomeno mondiale si aggancia anche a una estrema tradizione reazionaria e monoculturale e mono-etnica; non a caso molti analisti dicono che Trump voglia rifondare una società di bianchi e lo definiscono il primo vero presidente bianco degli Usa.

    L’etnicità del movimento, ciascuno padrone a casa sua, si combina con il suo sussumere un carattere religioso estremo, quello di un cristianesimo aggressivo, una sorta di jihad cristiana nata in contrapposizione e per paura del terrorismo islamico e che interpreta il fenomeno migratorio come un’invasione tesa a sostituire con gli arabo-islamici i cristiani nativi dell’Europa. La storica Catherine Nixey ricorda la distruzione di Palmira intorno al 385 dopo Cristo quando: i distruttori venivano dal deserto e Palmira era la loro meta. Da anni bande di fanatici barbuti vestiti di nero e dediti al saccheggio, armati con poco più che pietre, sbarre di ferro stavano terrorizzando i territori orientali dell’Impero Romano […] Il trionfo del Cristianesimo era cominciato. (Nel nome della croce, Bollati Boringhieri editore). Ci stanno riprovando.

    Il populismo ha però nell’accezione attuale (perché, come scrive giustamente Conte, di populismi ce ne sono stati tanti nella storia sia a destra sia a sinistra) la particolarità di pretendere di essere la guerra di chi non ha contro chi ha e soprattutto la guerra del basso verso l’alto. Il popolo per i populisti è per sua natura virtuoso, e se un popolo è virtuoso, forti e implacabili sono i suoi dirigenti. Questa somma di individualità costituisce una massa che ha bisogno, per dirla con Ian Bremmer, del noi contro di loro. I popoli sono sempre due, quello nostro, che è il popolo buono, e quello loro, che è corrotto dal vizio.

    L’altra particolarità di questo populismo e di questo sovranismo contemporaneo è che non sono composti da sognatori, da ideatori di falansteri o di società egualitarie, ma da masse mosse dal rancore sociale verso chi ha avuto di più e dall’indifferenza verso la struttura del potere reale. Anzi dall’essere servizievole verso i nuovi potenti del mondo, fra cui soprattutto Putin.

    Questa parte dell’analisi dà un carattere speciale all’idea che dobbiamo farci del populismo. Non siamo di fronte a moti nazionali (il patriottismo risorgimentale, il mazzinianesimo erano europeisti); siamo di fronte a una sovversione che è guidata da idee geo-strategiche tese a modificare in senso ancora più filoamericano e, soprattutto, filorusso il destino del mondo.

    Carmelo Conte dei movimenti italiani ne racconta la storia. Da quel movimento populista senza leader carismatico come è diventato il Movimento 5 stelle dopo la morte di Casaleggio senior e il parziale ritiro di Grillo, lasciando il posto a un algoritmo e a bambolotti di pezza come Di Maio e l’attuale premier; al movimento leghista, che nasce eversivo nel senso della ripulsa dell’unità nazionale e sogna oggi di essere il partito di estrema destra che prende la guida del Paese cancellando l’antifascismo.

    Berlusconi e Renzi hanno portato con la personalizzazione estrema, con la distruzione dei partiti reali, con il dileggio di avversari interni ed esterni un grande contributo allo sviluppo del sovranismo populista.

    Se ne uscirà? Temo che non se ne uscirà pacificamente, anche nel nostro paese. È tale l’accumulo di odi, di speranze di promozione sociale e di vendetta contro chi sta meglio di noi, che sarà difficile guidare un rientro nella normalità di questo fiume limaccioso. La difficoltà maggiore sta nel fatto che a contrastare il fenomeno c’è una sinistra che di nuovismo in nuovismo si è lentamente tagliata tutti i ponti col passato, non ha carta di identità, ha perso il suo popolo che ormai la dileggia dall’altra parte del fiume. C’è un vuoto a sinistra e c’è un vuoto nell’area liberale. I vuoti si riempiono, non restano mai così come sono. Solo che non sarà alcuno dei protagonisti attuali a portare la prima badilata di terra per costruire il soggetto o i soggetti alternativi. È tempo di forze fresche e di vecchi generosi. Anche per questo studiare quello che sta accadendo, perché sta accadendo e dove può portarci il sovranismo-populista resta, per ora, l’unica impresa per cui valga la pena cimentarsi, come ha fatto Carmelo Conte in questo libro che darei in mano ai ragazzi che si affacciano al mondo della politica.

    Peppino Caldarola

    Dobbiamo comprendere che essere un partito che ha a cuore i lavoratori è diverso che essere un partito laburista. Essere un partito che ha a cuore le donne è diverso che essere il partito delle donne. Il nostro può e deve essere un partito che ha a cuore le minoranze, ma senza diventare il partito delle minoranze. Prima di ogni cosa siamo cittadini.

    Senatore Edward m. Kennedy (1985)

    PREMESSA

    Torno a scrivere di politica, partendo da una considerazione: l’Italia è l’unico Paese del Continente nel quale, dal dopoguerra, non si sono realizzati governi di sola sinistra né di sola destra, ma di coalizione e di compromesso, dei quali sono stati protagonisti indiscussi i partiti, e non un partito.

    Un processo di contaminazione virtuosa che, degenerando, ha dato forma e sostanza alla cosiddetta partitocrazia. Questa, intesa come esproprio della sovranità dei cittadini, ha determinato la formazione di un blocco sociale che si è, prima, identificato nella Seconda Repubblica, una presunta Nuova Italia e, ora, nella Terza, nel segno del populismo.

    Non è stato riformato il modello istituzionale del Governo in essere né creata una sua alternativa politica.

    Oggi, Salvini e Di Maio, come ieri Berlusconi e Renzi, esprimono la fine di un ciclo, non un nuovo inizio. Animano una fase di transizione, apparentemente extra politica ma pervasiva e omnicomprensiva, finalizzata alla gestione della cosa pubblica purchessia, che vive il tempo presente e rischia di esaurirsi senza cambiamenti sostanziali.

    Sono promotori attivi e determinati della democrazia virtuale, quella animata da slogan e algoritmi, i nuovi dioscuri; mentre guardano dall’alto la democrazia reale, quella in cui vivono i cittadini con i loro problemi, che essi blandiscono con promesse e annunzi senza futuro.

    Tutto è (im)mutato in peggio: i partiti si chiamano movimenti, le masse popolo, la lottizzazione spoils system (in inglese: sistema della rovina, ossia sistema del bottino). Il fattore K è divenuto l’Europa. L’indipendenza della stampa, dei dirigenti pubblici e della magistratura ha un nuovo limite giuridico: il consenso popolare, un surrogato dello Stato etico, il mattatoio delle libertà.

    La scalata al Governo, da parte del M5S e della Lega, non è avvenuta sulla base del programma che è stato presentato e promesso agli elettori. è stato il frutto di un accordo post elettorale di stampo tradizionale, che non ha la forma e la dignità della grande coalizione alla tedesca, ma di un contratto privato, con contenuti pubblici, sottoscritto da Di Maio, capo politico e non il legale rappresentante del M5S, e da Salvini, a nome della Lega e non degli altri due rappresentanti del centro-destra, Berlusconi e Meloni, che si sono ritrovati così all’opposizione.

    Il connubio rileva non solo per la sua atipicità ma soprattutto perché è un mosaico male assortito di pezzi degli impegni elettorali assunti dai due contraenti, senza una architettura politica e un minimo comune denominatore che non siano il potere e un populismo di maniera, privo di effetti pratici.

    Preoccupa, in particolare, il ruolo consolare, assunto da Di Maio e Salvini, che non è espressione dell’ordinamento repubblicano, bensì di un accordo per sovvertirlo e destabilizzare l’Unione europea.

    La ragione che li ha spinti a contrattualizzarsi si ispira alla teoria di Jacques Sapir, secondo il quale tutte le forze, di sinistra e di destra, che hanno capito il pericolo che rappresenta l’euro si debbano unire. Devono unirsi, afferma il grande economista francese, non in un solo partito, ma all’interno di un’alleanza in grado di attuare una politica di rottura che si basi su una sintesi dei tre tipi di sovranismo che egli ha individuato: il sovranismo sociale, che sostiene l’esigenza di un’equa distribuzione dei risultati del progresso economico; il sovranismo identitario, che pone il problema delle frontiere e dell’immigrazione; il sovranismo politico tradizionale, che postula l’autoritarismo centrale.

    Quella tra Lega e M5S non si può definire un’alleanza sovranista in senso formale perché improvvisata e approssimativa, ma non vi è dubbio che evochi alcuni suoi valori significativi.

    Intende operare una sorta di rotazione democratica apparentemente virtuosa: invertire o almeno condizionare il progressivo passaggio dal noi all’io, in atto nelle società e nelle istituzioni, in favore dei cittadini. Ma, in realtà, opera una traslazione centralista, simile a quella che dichiara di volere contrastare. Promuove, in basso, nella società, un valore sostitutivo dell’io, il popolo, che contiene e rende tutti indistinti; e insedia in alto un potere asimmetrico, il Governo consolare, che per la Lega ha le sembianze di un capo, Salvini, e per il M5S quelle di un algoritmo, gestito da Casaleggio in nome della Rete.

    Sono, l’uno e l’altro, espressione di una sorta di fondamentalismo post democratico della società della sfiducia e della diffidenza, non della democrazia politica che si occupa della convivenza e della comunanza dei diversi, nasce tra gli uomini e si afferma nell’infra ovvero nelle relazioni.¹

    Sono il residuo reattivo causato dalle politiche di contenimento della crisi economica, funzionali al risanamento del debito pubblico e, quindi, al taglio della spesa sociale per sostenere il mercato, ritenuto presupposto necessario per la ripresa e il rilancio dello sviluppo.

    Il dissenso generato da queste scelte antisociali è stato imbrigliato e contenuto dai partiti di Governo, fino a quando le politiche mercantiliste sono apparse non solo necessarie ma anche convenienti.

    Una camicia di forza dorata, come l’ha definita Thomas Friedman, famoso saggista statunitense. Camicia di forza, perché limitativa della partecipazione di massa ai processi decisionali; dorata, perché accompagnata dalla prospettiva che l’esclusione potesse essere ripagata con la prosperità che quelle scelte avrebbero generato.

    In tal modo, come è stato rilevato con efficace ironia, la politica si è progressivamente ridotta a scegliere tra la Pepsi e la Coca Cola, a occuparsi, cioè, di sfumature e aggiustamenti. Sicché quando la ricaduta in termini di benessere sociale non c’è stata o, comunque, non ha prodotto gli effetti sperati, i cittadini hanno reagito in un primo momento con l’astensione e poi con un voto di rabbia e di speranza a favore dei populisti.

    Il non voto e il voto di reazione sono stati una risposta al modo di interpretare, recepire e governare il cambiamento che, sotto la spinta dell’innovazione tecnologica, ha sì sconvolto alle radici il sistema produttivo, ma ha determinato nuovi privilegi e disuguaglianze aprendo, di riflesso, una questione sociale e istituzionale di portata epocale.

    C’è, quindi, per evitare che si arrivi allo scontro dell’uno contro l’altro e al conflitto sociale, l’esigenza di un ripensamento dei rapporti tra finanza e mercato, lavoro e capitale, cittadini e istituzioni, prendendo atto che la globalizzazione non ha mondializzato solo l’economia ma anche la società.

    Di qui alcune domande: l’antipolitica è una nuova politica o rappresenta una degenerazione di sistema destinata ad esaurirsi?

    Il populismo di Stato è in grado, in un contesto mondiale senza barriere, di assicurare partecipazione politica e scelte economiche perfettamente integrate?

    Le istituzioni nazionali devono cedere al sovranismo o incidere a livello sovranazionale?

    I Partiti democratici e il parlamento devono dare via libera a leadership della colonizzazione mediatica o promuovere l’intersoggettività sociale?

    Il voto degli italiani del 4 marzo 2018 ha sanzionato la sinistra e la sua ideologia o l’interpretazione che ne hanno dato, prima il Pci e il Psi e infine il Pd di Renzi?

    Sono interrogativi che vanno soddisfatti, partendo da due costatazioni.

    La prima: la cocente sconfitta della sinistra non si è consumata a vantaggio della destra liberale, secondo la logica dell’alternanza, bensì a favore di movimenti (Cinque Stelle, Lega, Forza Italia) che, in modo diverso, si ispirano a un populismo asseritamente non di destra né di sinistra ma, di fatto, di destra. La seconda: il risultato è stato determinato in larga misura dal voto meridionale che ha travolto, sia sul piano culturale sia sociale, ogni forma organizzata di sinistra senza dare la parola a una nuova classe dirigente territoriale. Lega e M5S ne hanno assunto la rappresentanza, utilizzandola per mettere in discussione l’Europa, non per dare una risposta alle nuove disuguaglianze determinate dalla crisi che, negli ultimi dieci anni, ha colpito più duramente le regioni del Sud rispetto a quelle del Nord, come risulta dai dati diffusi dalla Banca d’Italia.

    Il reddito pro capite di un cittadino italiano, nel 2017, era di 27.700 euro contro una media europea di 29.200, una distanza oggettivamente non abissale. Ma appare in tutta la sua stravolgente portata se si considera che la media delle differenze di reddito pro capite, tra le varie regioni, va dai 42.000 euro di Bolzano ai 16.000 della Calabria.

    Questi dati fotografano una gerarchia territoriale, dove la punta della piramide svetta sempre più verso il Nord, lo stesso modello che sta caratterizzando anche l’Europa, con la Germania al vertice e l’Italia in basso: un cordone storico anzi antistorico che unisce in una sola questione il Mezzogiorno e l’Europa.

    Sono i nodi principali sui quali riflette questo libro, con un obiettivo politico e culturale: leggere gli eventi, la globalizzazione, il populismo e l’Europa dal punto di vista meridionale, dei bisogni e dei diritti violati. Ben sapendo che, come insegna Marcel Proust, ogni lettore, quando legge, legge sé stesso.

    La storia dell’Italia è stata segnata, spesso per ragioni contingenti, da diadi divenute celebri: Stato-Nazione, Sinistra-Destra, Conservatori-Progressisti, Nord-Sud, Sovranisti-Mondialisti, ma la diade, o meglio, la polarità che tutte le comprende è Arretratezza-Modernità.

    Dalla proclamazione dell’Unità tutto ruota, infatti, intorno alla ricerca sul come muovere e allontanarsi dal polo negativo verso quello positivo.

    È un filo rosso lungo il quale si sono evoluti e differenziati i processi produttivi, le ideologie, la competizione sociale, e più complessivamente i tre sistemi di governo che si sono realizzati, tra il 1861 e il 1992: il Monarchico-Liberale, il Fascismo e la Repubblica democratica. Tre forme istituzionali politicamente antitetiche, nelle quali è maturata la separazione tra Paese legale e Paese Reale, tra élite e popolo.

    Una deriva che, voluta da alcuni e subita da altri, è stata alla base del crollo della Prima Repubblica, salvo a travolgere anche la Seconda.

    Va, comunque, rilevato che, nonostante tutto, l’Italia ha saputo proiettare con successo il proprio destino verso la modernità europea, anche se non ha raggiunto tutti i risultati sperati, a causa della sua storica subordinazione politica, commerciale ed economica rispetto alle grandi potenze.

    Soprattutto – questo il primo e più grave errore dell’Unità – per avere trasformato in una costante della politica economica l’opzione di Cavour: sviluppare l’industrializzazione là dove già c’è (il Nord) per cogliere al meglio la contingenza e il flusso del progresso europeo. È stata la causa prima della questione meridionale e più in generale della questione italiana.

    Un aspetto ben colto da Giovanni Orsina in un suo recente libro, nel quale sostiene che la storia della Penisola, come quella di tutti i grandi Paesi europei, si è sviluppata alla luce della dicotomia Politica della Fede e Politica dello Scetticismo, di cui i partiti storici, il Psi, la Dc, il Pci, il Pli, il Pri, il Psdi, sono stati interpreti attenti e non divisivi.²

    Hanno praticato, per un verso, la Politica della Fede che considera i politici i servi, i leader e i salvatori della società; e, per altro verso, sono stati osservanti della Politica dello Scetticismo che ritiene l’attività del Governo né buona né cattiva ma necessaria per regolare le interazioni umane, partendo dall’assunto che politici e uomini di potere sono fatti della stessa pasta di quelli che governano.

    Nel complesso, a parte la deriva del fascismo, che peraltro a questo processo non è stato estraneo, è prevalsa la Politica della Fede che si è fatta carico anche di una funzione pedagogica e formativa, alla quale i partiti hanno concorso, in coerenza con la loro ideologia.

    In un siffatto contesto si è sviluppato un dualismo economico, territoriale e sociale, caratterizzato da due stadi in cui, con forme e tempi diversi, la modernità dell’Europa è diventata un modello da imitare per l’Italia e la modernità del Settentrione un obiettivo da raggiungere per il Mezzogiorno.

    Una rincorsa ormai fuori tempo, alla quale sono state piegate le scelte di scopo e l’esigenza di identificare e selezionare l’élite modernizzatrice, ma non le politiche generali come costante di programma.

    Questo spiega perché la storica arretratezza del Mezzogiorno, pur avendo subito, sul finire del secolo scorso, una profonda evoluzione si è riproposta in forme nuove.

    Non a caso, si è aggravata in corrispondenza con la crisi della tanto celebrata Seconda Repubblica, in cui il sistema politico, privo di un progetto che non fosse il rifiuto del passato, si è scomposto e diviso in tante nuove sigle senz’anima.

    Nel 1992, alle ultime elezioni politiche della cosiddetta Prima Repubblica, si erano presentate undici formazioni; nel 2006, con il sistema elettorale maggioritario, cosiddetto Mattarellum, sono diventate quaranta, tutte più o meno spontaneamente portatrici di qualunquismo, populismo, sovranismo, euroscetticismo: un modello critico alla mercé di leader senza storia, cantori, non protagonisti reali del cambiamento. Per mancanza di cultura di governo, presi da opportunismi e mode momentanee, non hanno colto il senso di un insegnamento storico imprescindibile: il passaggio dall’arretratezza alla modernità, essendo strutturale, non può essere avulso dall’economia reale né dalle ideologie che informano e orientano i grandi cambiamenti, anche quando non garantiscono gli esiti e ne rendono incerto lo sbocco democratico.

    Nel libro Miseria della Filosofia che Marx pubblicò a Parigi nel 1847, in polemica con Filosofia della Miseria che Proudhon aveva dato alle stampe un anno prima, si legge: L’affrancamento della classe oppressa... implica necessariamente la creazione di una società nuova. Ma a questa frase che annunzia la fine di ogni antagonismo segue la domanda: Vuol dire forse che dopo la caduta della vecchia società ci sarà una nuova dominazione di classe, che si sintetizzerà in un nuovo potere politico?. L’interrogativo contiene probabilmente il nucleo essenziale del comunismo, nel senso che proprio l’idea della fine di ogni conflitto sociale e politico si è rivelata incompatibile con la democrazia, con il principio della libertà di opposizione e quel che ne segue. Ma dopo quel punto di domanda Marx risponde semplicemente: No… senza fornire alcuna spiegazione.³

    Adesso, sappiamo che quella risposta si è dimostrata falsa, antidemocratica o reticente, sia per i regimi definiti marxisti, come quello

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