Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Casa 56
Casa 56
Casa 56
E-book509 pagine7 ore

Casa 56

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Una leggenda gravava su quella casa fatta di morte, oscurità e paranormale, ma sarà solo leggenda?

Helena è una ragazza di diciannove anni costretta a trasferirsi ad Ecra, un piccolo paese di poche Anime. Inconsapevole dell’alone di mistero che arieggiava su di esso, farà conoscenza con la leggenda della casa con il numero civico 56.

Molti incontri cambieranno la sua vita ed il suo destino.

Tratto dal libro: “Non c'era anima viva nei paraggi. Solo il vento camminava per le deserte strade. Accelerai il passo, che risultò quasi una corsa e mi diressi dai Walker. Il secco calpestare sulla stradina bianca si espandeva nell’aria, diventando più sordo e cupo quando raggiunsi la veranda. M’accostai alla porta in legno sbirciando dalla finestra accanto. Le luci erano spente. Tutto taceva immerso nella quiete della notte stellata. Ogni essere, in questo paese, giaceva beato tra le braccia di Morfeo. Solo una vecchia civetta disturbava l’etereo silenzio emettendo il classico richiamo territoriale. Un grido acuto e stridulo che faceva compagnia alla pallida Luna.”
LinguaItaliano
Data di uscita18 feb 2016
ISBN9788892555211
Casa 56

Correlato a Casa 56

Ebook correlati

Narrativa cristiana per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Casa 56

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Casa 56 - Silvia Zanoni

    casuale.

    Omicidio

    Capitolo 1

    25 Gennaio 1623 ~ Ecra, Utah USA, nei pressi di Big Water.

    La via era buia e silenziosa. Le luci dei pochi lampioni di Ecra erano flebili e si andavano perdendo nella nebbia fitta e bianca, così densa, che quando respiravi, ti trafiggeva i polmoni. Un uomo passeggiava lento per quella via. Era alto e ben piazzo. I capelli argentei contornavano i suoi occhi senz'Anima. Indossava un lungo giaccone di pelle nera come la notte. I suoi passi risuonavano rauchi sul selciato ed il suo fiato era così pesante che persino da lontano si poteva udire.

    Il suo nome era Furcas.

    Si avvicinò ad una casa, ridacchiando. L'immobile era bellissimo, curato in ogni più piccolo dettaglio e guardava il fiume, come se dovesse vegliare su esso.  

    L'uomo si avvicinò all'uscio, estrasse un coltello in argento inciso da chissà quale artista, con il manico in rovere, arricchito da un grosso rubino che pareva un occhio, e ti fissava, scavandoti nell'Anima. Si procurò un taglio sulla mano sinistra e con il sangue fece una croce rovescia sulla piastrella che portava il numero civico 56.

    Era calmo, ma fremeva per liberare la bestia dentro sé. Si accostò alla porta, già sapeva che era aperta. Abbassò dolcemente la maniglia avendo cura che non emettesse il minimo cigolio.

    Ana Kailyn Scott, la donna che vi abitava, era un ormai vecchia suora, devota al suo credo sin dalla più tenera età. Veniva considerata da tutti Santa, e questo acronimo le fu dato come nome. Era gracile e minuta, ma potente nello spirito.

    A quella bestia serviva il suo sangue, per perseguire il suo lurido scopo e non aveva scrupoli, doveva ottenerlo.

    Sapeva tutto della casa, l'aveva studiata nel minimo particolare. Diresse i suoi passi nella camera da letto, era buia come la pece. A nessun fil di luce era permesso l'accesso mentre la vecchia dormiva. Solo chi conosceva la stanza palmo a palmo avrebbe potuto muoversi senza inciampare, riuscendo ad evitare la cassapanca, il secrétaire, o lo sgabello della toeletta; per non parlare delle mille cianfrusaglie che la secolare donna aveva nella stanza. Nessun'altro se non lui, quindi, poteva camminare. Il suo passo era ora più silenzioso di un gatto, sul morbido tappeto persiano. Camminava come se nella camera fosse pieno giorno. Si fermò poco prima di incontrare la colonna del letto a baldacchino, annusò l'aria e fece altri tre passi a destra. L'odore acre della stanza riusciva a far nauseare persino un essere immondo come lui. Nemmeno Dio sapeva cosa quella suora spandesse a destra e a manca per casa.

    Si fermò nuovamente.

    Era ora accanto alla donna, ne poteva sentire il fiato mentre contava quelli che sarebbero stati i suoi ultimi battiti.

    Estrasse dalla tasca una boccetta in osso nero, ne svitò il tappo e fece scivolare cinque gocce tra le labbra della vittima sussurrando «Sivque sole me muvhe xouecsiahe fem lio Ocsuxo Cibvoxe…». (Cinque, come le punte rovesciate del pentacolo del mio Oscuro Signore).

    Rimase poi immobile, come statua, godendo degli ultimi aliti della sua vittima.  

    Il respiro della Santa continuò per circa un minuto, poi, un flebile suono strozzato ruppe il ritmo e il cuore ne seguì l'esempio.

    Silenzio.

    Tombale silenzio riecheggiava nella stanza.  

    L'uomo sollevò la donna odorandola a pieni polmoni ed emettendo un ringhio di piacere. Il suo fiato si era fatto più animale, le sue pupille erano tanto dilatate che l'iride svaniva. L'odore della morte lo eccitava più di qualsiasi cosa fosse a lui conosciuta. Trasportò compiaciuto il cadavere esattamente nel centro del salotto. Strappò la croce che la donna portava al collo ustionandosi, ma non perdette tempo; in fretta e furia raccolse il sangue della vecchia in una ciotola.

    Iniziò a tracciare quello che poi si rivelò un pentacolo rovescio sul pavimento impolverato, prima che il denso liquido rosso si coagulasse.

    Sistemò con cura su ogni punta una candela, poi, le accese partendo dalla punta inferiore proseguendo in senso antiorario. Completata l'opera i suoi occhi divennero completamente neri, i suoi polmoni si riempirono d'aria «Vem huo cavbe im uemevo fi Satana csoxxe, gxusia hxa me ehexeve mialle fi fomoxe, fova im huo casxo cmixiho mex migexaxe ma gechia…». (Nel tuo sangue il veleno di Satana scorre, brucia tra le eterne fiamme di dolore, dona il tuo sacro spirito per liberare la bestia).

    Una risata inumana prese possesso della sua bocca.

    Il Maligno ora era libero

    Notizia Inaspettata

    Capitolo 2

    Sabato 20 Dicembre 2014 ~ Gea Town, Utah USA, nei pressi di Salt Lake City.

    Gea Town, era una delle città più belle e visitate del mondo, densa di magia ed ispiratrice di emozioni, capace di sorprendere ed incantare con le sue luci e le numerose attrazioni. Era una città indimenticabile, che lasciava un segno indelebile in tutti coloro che la visitavano, e suscitava, in molti, il desiderio di ritornarci. Il nome era ispirato alla Dea Gea o Gaia, primigenia della Terra emerse dal Caos e generò da sola Urano (il Cielo), le Montagne, e anche il Ponto (il Flutto; personificazione dell'elemento marino).

    Ho sempre vissuto in questa grande città, non ho mai conosciuto la periferia, anche se molti amici erano provinciali, io amavo l'agiatezza della mia città. Amavo i negozi, la gente, la confusione ed il ritmo frenetico della mia vita. Amavo talmente la mia Gea, che il grigio odore di smog ed asfalto facevano parte di me, li adoravo. Tutto mi correva intorno inarrestabile e questo mi teneva occupata dai pensieri, dall'amicizia, dall'amore, dalla vita. Di ciò ero ingenuamente inconsapevole.

    La mia famiglia era ben agiata, avevamo tutto, vivevamo in centro città in un attico di lusso enorme da cui si godeva di una vista pazzesca, specialmente dalla sala da pranzo, dove amavamo mangiare e goderci lo spettacolo delle luci cittadine.

    Hugh Reed, mio padre, era un uomo affascinante. Alto brizzolato con gli occhi verdi. Fisico atletico, di bell'aspetto, molto carismatico ed un grande lavoratore. Era un notissimo e richiestissimo avvocato, con lui le cause erano praticamente sempre vinte. Aveva la passione delle belle auto e delle moto. Le sue preferite erano una Chevrolet Impala del '67 ed una moto d'epoca Honda 500 Four. La passione per quest'ultime erano anche parte di me. Mi aveva trasmesso tutto questo sin da quando posso ricordare. Ero ormai un meccanico provetto. Papà era un uomo molto concreto, preso al cento per cento dal suo lavoro e dalle sue passioni, ma, anche se, la sua carriera era sempre al primo posto, non mi aveva mai trascurata, per me c'era sempre. Che dire, un padre modello.

    Dakota Wood, era mia madre. Un vero e proprio spirito libero. Nata tra le montagne, lasciò la sua terra per amore di papà. Lei era una sognatrice. Credeva nell'amore, nell'amicizia, a volte sembrava proprio una ragazzina ingenua. Era semplicemente bellissima. Non mi meraviglio che il babbo si fosse innamorato di lei a prima vista. Era slanciata, capelli mori lunghissimi e mossi, degli occhi nocciola che parlavano. Faceva la casalinga, era cresciuta con quest’idea che la donna dovesse stare a casa e provvedere ai figli, però, aveva dentro uno spirito artistico: dipingeva, cantava, suonava la chitarra, il pianoforte e il violino egregiamente e, tutto ciò, da auto didatta. La cosa che amava di più era la fotografia. Riusciva veramente a cogliere l'attimo, quello intenso, carico di emozioni, capace di farti tornare alla memoria mille ricordi. Era un po’ sbadata e goffa in quello che faceva, al contrario di papà che era molto preciso.

    Da questo mix sono nata io: Helena Kai Reed. Immaginate cosa può essere venuto fuori. Il mio secondo nome lo aveva scelto mamma. Lei era appassionata di indiani d'America e Kai, in lingua Navajo, voleva dire albero del salice. Era la pianta che amava di più in assoluto. Helena, lo scelse papà e significa splendore del Sole. Io ero il suo Sole. Scelse questo nome anche perché diceva che Helena è un nome eufonico, ossia dal suono dolce ed armonioso. Io sono l'impasto dei loro caratteri, fisicamente non saprei dire da chi ho preso e caratterialmente un po’ qui un po’ là. Un po’ ribelle, un po’ impostata, un po’ sognatrice un po’ scettica, ma ero cresciuta nella famiglia migliore che potessi mai desiderare, questo mi ha fatto comprendere in fretta le priorità ed i veri valori nella vita. Detto ciò, ero ancora giovane e inesperta. Vivevo come tutti gli adolescenti la mia età facendomi mancare qualche volta il buon senso.

    Tutta la nostra routine cambiò quando, per problemi respiratori di mio padre, mia madre decise di trasferirci lontano dalla città, in un paesino fatto di poche anime. Disse: «Là, la vita scorre tranquilla, la gente è genuina, l'aria è buona e fresca........vedrai ti piacerà».

    Piacermi??? Scherziamo??? pensai tra me e me.

    «Ma se proprio non vuoi venire, cambiare scuola, amici... Lo sai che possiamo permetterci di lasciarti qui, potresti stare da zia Alisa e venirci a trovare nel weekend.... Così facendo potresti finire qui anche il secondo quadrimestre...» disse mamma con tono dolce.

    Papà s’intromise nel discorso, mi appoggiò la mano sulla spalla. «Non sei obbligata a lasciare tutto questo, se vuoi puoi restare, tanto dovremo starcene lontani dalla città solo per un anno in modo che i miei polmoni possano rigenerarsi.... Pensaci bene Helena e poi fammi sapere». Le parole del babbo mi colpirono, mi stava lasciando libera scelta. Sapeva quanto tenessi alla mia Gea.

    Io volevo il mio asfalto, il mio cemento, le mie comodità. Non volevo lasciare la mia città. Questo enorme cambiamento mi spaventava e non poco. Non sapevo cosa avrei trovato, come sarebbe stato, se sarei riuscita ad adattarmi. I miei pochi veri amici?? Li perderò, dovrò cambiare scuola.... L'idea di iniziare da metà anno in un nuovo istituto non mi allettava affatto.

    Dissi ai miei che ci avrei pensato bene, non era una scelta da fare a cuor leggero. Avevo bisogno di prendermi un po’ di tempo, quindi decisi di andare in camera mia e starmene un po’ sola. Mentre salivo le scale il cellulare continuava a squillare, erano le mie due amiche Anna e Sarah J. che mi mandavano messaggi. Ne lessi qualcuno ma non avevo voglia di rispondere quindi spensi il telefono. Ero preoccupata per la salute del babbo, mi avevano nascosto che fosse peggiorato negli ultimi tempi, oppure era peggiorato di colpo; non lo sapevo e forse non volevo nemmeno saperlo. Ero molto legata a papà e non mi piaceva vederlo star male. Cercavo comunque di vedere i lati positivi, almeno non era un tumore, era una malattia risolvibile con il tempo, l'ambiente e le cure adatte.

    Avevo bisogno di tranquillità dopo la brutta ed inaspettata notizia. Spensi le luci abbaglianti della camera, mi sdraiai sul letto, mi voltai sul mio fianco sinistro e guardai dall'enorme vetrata Gea Town. Era così bella la mia città, ma avrei dovuto lasciarla. Da una parte ci stavo male, non volevo, dall'altra, però, la cosa mi incuriosiva e mi eccitava, pensavo alle nuove esperienze, alle nuove persone e nel frattempo anche a tutto quello che ci eravamo costruiti qui.

    Le emozioni che stavo provando erano fortemente contrastanti.

    Insomma, i pensieri che vagavano nel mio cervello erano mille mila, l'ansia saliva, ma non potevo rifiutarmi di andare, sarebbe stato troppo egoistico e anche se i miei diciannove anni mi rendevano immatura, un po’ di buon senso l'avevo conservato e così decisi di seguire la mia famiglia. Sarebbe stato quello che sarebbe stato, ma restare uniti, in questo momento, era decisamente la cosa più importante. Andai a letto aspettando l’indomani.

    Dopo una pesantissima nottata passata tra pensieri e incertezze, fedele come sempre suonò la sveglia. Ero ancora un po’ sconvolta dalla notizia, ma mi feci forza, mi stiracchiai e mi alzai. Entrata in bagno non potei far a meno di notare il terribile spettacolo che rifletteva lo specchio. "Si vede che è stata una notte insonne„ pensai esaminando in ogni dettaglio la mia faccia da zombie. Avevo delle borse sotto agli occhi con cui avrei potuto benissimo fare la spesa.

    Invece di scendere subito, come d'abitudine, a fare colazione, decisi di prendermi un momento di totale relax solo per me. Optai per una doccia calda. Aprii l'acqua. Il vapore invase dopo poco tutto il bagno e iniziai a sentire sulla pelle il suo dolce tepore. Mi spogliai facendo scivolare la vestaglia sulla mia pelle un po’ olivastra ed entrai nella doccia. Chiusi gli occhi, m'immersi sotto l'acqua bollente e feci un respiro profondo lasciando che lavasse via anche i miei pensieri. Dopo qualche minuto già mi sentivo molto meglio, quasi come se la notte avessi dormito.

    Con nuove energie in corpo m'asciugai e mi vestii velocemente. Misi un tocco di mascara e un filo di eyeliner sugli occhi nocciola, raccolsi in uno chignon morbido i lunghi capelli mori ancora umidi, e scesi a mangiare qualcosa.

    Mio padre era seduto sulla poltrona e come sempre leggeva il giornale prima del lavoro, mentre mia madre era affaccendata in cucina. La raggiunsi, feci per prendere una scodella, ma la sua dolce voce mi fermò, «Helena, ho preparato la tua colazione preferita è già sul tavolo».

    «Ah, grazie!» risposi. Quanto adoravo mangiare frutta fresca alla mattina con un po’ di zucchero seguita da una tazza di buon caffè, non lo sapevo nemmeno io.

    Finito il pasto più importante della giornata, raccolsi al volo la mia borsa, diedi un bacio a papà, salutai mamma e andai a lezione, alla mia ultima lezione, o meglio, al mio ultimo giorno in quella scuola.

    Davanti al cancello dell'Istituto, come sempre, mi aspettavano le mie due amiche Sarah e Anna.

    Sarah J. Stevensla conoscevo da una vita, eravamo cresciute insieme affrontando tante difficoltà in questa grande città. Ci consideravano come sorelle e le nostre famiglie erano molto legate. Era una ragazza dal carattere pigro e svogliato, amava la moda, sfoggiava sempre vestiti bellissimi. Anche se poteva sembrare una ragazza molto sicura di se in realtà è sempre stata molto fragile, sensibile e laconica; il tipico esempio dell'abito non fa il monaco. Su questo compensavamo io e Anna. Noi eravamo molto loquaci, forse troppo.

    Anna Quinti, invece la conoscemmo a scuola. Si era trasferita qui appositamente per fare Phylock High School. Era la scuola più prestigiosa dello stato e una delle più conosciute e rinomate in tutto il mondo. Anna era una studentessa modello: bravissima, educata e un po’ impostata. Era una ragazza dolcissima, sempre disponibile, ma, la qualità che ammiravo maggiormente in lei era l'umiltà.

    Insomma, erano due ragazze adorabili, che mi conoscevano bene. Volevo molto bene ad entrambe ed erano per me una seconda famiglia. Mi avvicinai, le abbracciai e sospirai. Loro, anche se il tempo che passavamo insieme era molto poco, capivano subito se c'era qualcosa che non andava, infatti Anna mi chiese subito «Che succede?». La guardai un po’ sconsolata. «Dai, lo sai che a noi puoi dire tutto!» borbottò prontamente notando la mia titubanza.

    Sputai il rospo senza troppi problemi, sapevo che potevo contare sul loro sostegno. Raccontai la situazione clinica di mio padre e che, a causa di questo problema, avrei dovuto trasferirmi.

    «L'hai saputo ieri sera? Ecco perché ieri sera non rispondervi ai messaggi!» esclamò Sarah J. con arguta intuizione.

    «Già, è successo tutto da un momento all'altro, anche se questa situazione si trascina da tempo... Mia madre ha già trovato una casa dove trasferirci, prima andiamo meglio è per papà... Approfittiamo delle imminenti vacanze estive per fare il trasloco... Quindi oggi devo iniziare a fare i bagagli, partiamo il venticinque... Ma anche se vado via ci terremo in contatto ragazze, sempre che in quel paese sperduto abbiano i cellulari!» cercai di ironizzare su quello che stava accadendo cercando di alleggerire una situazione, per me, molto pesante.

    Ci facemmo una grassa risata stringendoci in un caloroso abbraccio ed entrammo a lezione. Mentre il professore parlava, la mia mente ricominciò a vagare pensando a mio padre e all'imminente trasloco.

    Andrà tutto bene mi ripetevo incessantemente cercando di autoconvincermi. I miei pensieri passavano incessantemente dal negativo al positivo come stessi sulle montagne russe.

    *suono della campanella*

    Che spavento!! pensai. Il tempo era volato, non me ne ero nemmeno resa conto. Durante la pausa mi trovai al solito angolo in cortile con Sarah ed Anna a fumare la nostra sigaretta di rito. Le mie amiche parlavano del più e del meno, come sempre, ma a me, le parole scivolavano addosso, ero così presa dalla novità di ieri che non riuscivo a pensare ad altro. Mentre la sigaretta si fumava da sola immaginavo come sarebbe stata la mia nuova vita e a quanto mi sarebbero mancate le ragazze.

    «Helena! Helena!» urlò Sarah cercando d'interrompere il mio momento di profonda riflessione.

    Poi, fu Anna a cercare di attirare la mia attenzione «Heleeeeeenaaaa! Sveglia! Si torna in classe!!!».

    Percorsi svogliatamente la strada dal cortile al mio banco. Mi sedetti al mio banco senza prestare attenzione a nessuno. Pochi secondi e dalla soglia fece capolino la professoressa di storia, la più odiata della scuola. Era la tipica vecchia frustata capace solo di accanirsi su noi studenti, con lei o eri uno studente modello o potevo baciarti le mani se in pagella ti ritrovavi un misericordioso Quattro.

    La vecchia Santini si sedette alla cattedra. In classe piombò un silenzio tombale mentre ci scrutava uno ad uno come un leone che sceglie la sua preda. Nemmeno le mosche osavano volare. Il soffocante profumo della sua colonia saturò la stanza. Era un odore dolciastro, alla lunga nauseabondo. Aprì il registro e la sua agenda (probabilmente più vecchia di lei). Rifletté per circa un minuto borbottando a se stessa parole. Poi, rialzò lo sguardo con un sorriso che non prometteva nulla di buono. «Oggi mi sento buona... Visto che siamo a ridosso delle vacanze Natalizie non interrogo... Facciamo verifica scritta!» disse soddisfatta con quella vocina stridula che faceva accapponare la pelle.

    E bene, ultime due ore di verifica di cui non sapevo, anzi non sapevamo, nulla.

    Poi, dopo ore di agonia, come una voce celeste, udimmo il soave squillante suono della campanella. Anche oggi era finita la tortura e nei miei pensieri segnai un lato positivo del trasloco: non avrei mai più rivisto la Santini!

    Raccolsi le mie cose e mi diressi verso casa accompagnata da Anna. Decidemmo di rincasare a piedi vista la stupenda giornata, nemmeno una nuvola solcava l'azzurro cielo. «Ascolta Helena, dimmi un po’ dove ti trasferisci?» chiese curiosa aggrottando leggermente le sopracciglia.

    «E' un paesino che dista circa 5 ore e mezza da qui... Si trova nei pressi di Big Water... E' vicino a un fiume, poco distante da un lago e dai i monti, ci sono un sacco di spazi aperti, insomma un posto sperduto!» risposi ridendo cercando di celare la mia ansia per l'imminente partenza.

    «Il nome del paese lo sai?» domandò aprendo la mappa sul cellulare.

    «Ecra, se non sbaglio» mormorai non troppo convinta delle mie parole.

    Fece una faccia stranita, «Mai sentito... Adesso me lo segno, quando c'è più campo lo cerco».

    «Nemmeno io l'ho mai sentito nominare, ma non ha importanza... Dopotutto l'America è enorme...» borbottai sospirando.

    «Beh.... Per pura curiosità personale mi informerò...» disse dandomi una piccola pacca affettuosa sulle spalle. Parlando e scherzando eravamo già sotto il palazzo dove abitavo.

    «Ciao Anna, ci sentiamo ti voglio bene!» esclamai salutandola con la mano mentre mi dirigevo al grande portone blindato.

    «Certo bella!» rispose lanciandomi un bacio.

    Salii le scale ed entrai nell'androne principale per poi prendere l'ascensore e raggiungere l'ultimo piano. Aprii la porta d'ingresso, poggiai le chiavi sul mobile all'entrata e voltandomi, la prima cosa che notai fu che mio padre era a casa. Dormiva sulla poltrona. Che strano, pensai, non era andato a lavoro. Posai piano la borsa accanto a me e a passo felpato mi avviai in cucina. L'ultima volta che non si era presentato al lavoro era perché aveva quaranta di febbre e mamma lo aveva portato al pronto soccorso. Non era da lui starsene in poltrona, nemmeno se stava male. L'avevo visto personalmente affrontare serrate arringhe anche con una salute precaria. Voltando la testa vidi mia madre che silenziosamente mi faceva segno di raggiungerla. «Papà, come puoi immaginare, oggi non è stato molto bene, per venirti incontro stavamo pensando di aspettare la fine della scuola per trasferirci, ma vista la situazione non è possibile, ti capirò se tu vuoi...» la fermai.

    «No! Non resto qui mamma, ho deciso vengo con voi!» esclamai cercando di non alzare troppo il tono di voce.

    Lei mi sorrise col cuore, mi abbracciò e mi mandò a preparare le valigie. Mi conosceva bene, sapeva che necessitavo di giorni per preparare i bagagli, quindi era meglio iniziare a rimboccarsi le maniche. Salii in camera mia, mi dispiaceva dover lasciare pure quella. Era la stanza più bella di questo mondo. Arredata in chiave moderna, aveva una parete nera con venature oro e argento, le altre due erano bianche, mentre l'ultima, era la mia preferita, completamente in vetro mi regalava la vista della città. Al centro della stanza c'era il mio letto, rotondo con lenzuola che riprendevano le pareti. Sul soffitto, proprio sopra al letto avevo un mega-televisore. C'era un divano di fronte a un camino moderno a gas, uno stereo, un tappeto gigante morbidissimo e qualche chitarra elettrica da collezione. Inoltre, c'era la mia enorme cabina armadio con tanto di mini palco, luci e specchio per provarsi i vestiti. Avevo il mio bagno comunicante con la camera, anche quest’ultimo meritava. Era enorme. Entrati sulla destra c'era il wc con affianco il bidè, a seguire, su un piano leggermente rialzato in legno stava la vasca da bagno, di fronte c'era anche la doccia, molto grande con seduta in marmo e idro massaggio. Una delle cose più belle era l'angolo trucco che poteva sembrare una stanza a se. Bando alle ciance, era ora di prepararsi per il viaggio. Estrassi le valigie dall'armadio ed iniziai a prepararle. Pensavo a cosa dovevo mettere dentro, a cosa sarebbe stato utile o inutile. Vi misi magliette, felpe, maglioni, alcuni jeans, le scarpe e gli stivali.

    Mentre curiosavo nei cassetti vidi che in fondo, nell'angolo, c'era un porta gioie molto vecchio, in porcellana bianca con finiture in oro e dei fiori di pesco dipinti qua e là. Lo presi in mano, era quello che mi aveva regalato la nonna. Lo aprii per la prima volta. Dentro era di raso rosso e conteneva un sacchettino nero in velluto con stampato uno strano simbolo. Afferrai il sacchetto. Qualcosa al suo interno tintinnava. Lo dischiusi ed estrassi una collana con un sonaglio, ma non era un normale sonaglio, era diverso dagli altri, infatti non aveva la solita fessura da cui usciva il tintinnio, ma era completamente chiuso ed il suono risultava diverso. Decisi di portare la collana con me riponendola in una piccola taschina della valigia con la zip così da non perderla.

    Passai tutta la sera ad analizzare minuziosamente ogni cosa da portare o da scartare fino a quando non crollai sopraffatta dalla stanchezza vicino alle valigie.

    Verso Un Non So

    Capitolo 3

    Giovedì 25 Dicembre 2014 ~ Gea Town, Utah USA.

    Erano le cinque del mattino quando mamma venne a svegliarmi. Mi trovò sdraiata a terra con una valigia a fare da cuscino. Avevo dormito poco e benché la posizione in cui mi trovavo fosse alquanto scomoda, la mia voglia di alzami era pari a zero. Feci comunque uno sforzo e andai a lavarmi la faccia e darmi una sistemata; poi scesi per fare colazione. Tutto era pronto per la partenza. Ero emozionata e spaventata allo stesso tempo. I bagagli ci aspettavano già davanti alla porta e i ragazzi del trasloco stavano caricando il camion. Assorta da un'apparente ed imperturbabile calma mangiai qualcosa ed andai a recuperare le mie cose. Sulla nostra macchina avremmo caricato solo lo stretto necessario. Il resto lo avrebbero portato i traslocatori. In realtà non c'era moltissimo da trasferire, molti dei mobili li avremmo lasciati qui. Mamma aveva detto che in una casa in campagna sarebbero stati fuori luogo, non si adattavano allo stile rustico dell'ambiente e aveva ragione. In un casale da ristrutturare, come quello che ci aveva mostrato in foto, avrebbero fatto pandan dei bei mobili in legno, non una cucina d'acciaio moderna come la nostra. Inoltre avevamo visto l'abitazione solo in fotografia e sul progetto, quindi era difficile concepire bene gli spazi ed organizzarli. Se avessimo dovuto acquistare qualcosa lo avremmo fatto direttamente là. Era la soluzione migliore.

    Tornando a noi, si erano fatte le sei. Il tempo era volato, imperdonabile come sempre e così, era arrivata anche la fatidica ora di partire. Aiutai mamma a caricare le valigie più leggere nel baule della nera Impala. Salimmo in macchina con mia madre alla guida, mio padre nel posto accanto ed io sul sedile posteriore accanto al finestrino. Il motore si accese con un potente ruggito.

    A presto cara Gea Town pensai mentre mi si formò un nodo in gola, ma non c'era spazio per i ripensamenti. La mia nuova vita aveva appena avuto inizio.

    Le ruote della macchina correvano sicure sul grigio asfalto. Mamma e papà parlavano allegri del più e del meno, mentre io decisi di rilassarmi con un po’ di musica. Accesi il mio Ipod, infilai le cuffie ed alzai il volume per trovare un po’ di silenzio. Mi sembrava ancora impossibile che tutto fosse cambiato così, da un giorno all'altro, ma questa non era altro che l'imprevedibile Vita. Le parole delle canzoni che passavano sulla play list svanirono pian piano lasciando spazio ai miei pensieri. Da una parte stavo tremando come una foglia, non nascondo che quel drastico cambiamento mi spaventava, mi riempiva di dubbi e di domande. Dall'altra mi ero rassegata a tutto questo, lo avevo accettato non che avessi molta scelta e non vedevo l'ora di intraprendere questa nuova ed intrigante avventura. Mi sentivo immersa in una caotica confusione di emozioni intense e contrastanti. Guardavo distratta dal finestrino il paesaggio che correva e cambiava, scorreva e si trasformava, il cemento mutava in verde erba e gli alberi prendevano il posto dei palazzi. Questo cambiare mi affascinava e stranamente mi piaceva, mi intrigava. Anche se era pieno Inverno, la Natura, ai miei occhi, sembrava così rigogliosa e carica di vita. Forse il destino ha in serbo qualcosa di migliore pensavo iniziando timidamente a crederci.

    Man mano che i chilometri scorrevano mi sentivo sempre un po’ più positiva.

    A metà della strada decidemmo di fermarci per una pausa e sgranchire un po’ le gambe. Prendemmo l'uscita per Village Stone, un piccolo paese medievale ad ispirazione Europea che aveva un grande business turistico. Era praticamente un piccolo labirinto di stradine strettissime fatte di ciottoli, era stato restaurato e degli attori vagavano per le strade e per le case fingendo la vita d'un tempo. Vi erano anche un sacco di piccoli negozi, molti artigiani, pastori con le loro bestie, galline che scorrazzavano a destra e a manca, donne che tessevano e bambini che simulavano vecchi giochi. Mi sentivo un po’ come se avessi viaggiato nel tempo. Non ero mai stata qui ed era un peccato che i miei genitori non mi avessero mai portata, era un luogo molto bello e in tenera età lo avrei trovato sicuramente magico; oltre al fatto che amavo la storia del Vecchio Continente, la trovavo così affascinante rispetto a quella Americana. Possiamo dire che con questa tappa mi avevano fatto il regalo di Natale. Lo stavamo festeggiando in modo alternativo tra trasloco e Village Stone. Non eravamo grandi amanti delle festività, ma da quando posso ricordare era sempre stata una buona scusa per rivedere i parenti.

    Tornando a noi; papà voleva a tutti i costi fermarsi in una delle locande per provare le specialità del luogo e riempire lo stomaco prima di ripartire. Entrammo in una piccola osteria con i muri in pietra. In mezzo alla sala stava un unico grande tavolo rotondo dove alcuni personaggi bevevano birra e mangiavano in vecchie ciotole di terra cotta. Dalle travi a vista del soffitto pendevano grossi pentoloni in rame. Ci accolse una Signora enorme che si presentò come la padrona del locale. Ci fece accomodare sugli sgabelli attorno al tavolo e ci disse che presto sarebbe tornata con le specialità della casa, come si può immaginare a quei tempi non esistevano i menù. Diciamo che ciò che ci presentarono fu molto particolare e per me proprio fuori dal comune, come la lingua di vacca, ma d'altro canto una volta non si buttava nulla e devo dire che tutto sommato era buono, specialmente il pane casereccio cotto nel forno a legna; ne avrei mangiato a quintali. Grazie all'idea del babbo, oltre ad un assaggio visivo della vecchia Europa, potei assaporarne per la prima volta anche la loro cultura.

    Tra mille novità, il tempo volò ed era già ora di ripartire.

    Salimmo in macchina ed imboccammo nuovamente l'autostrada.

    Non passò molto che, ormai, eravamo vicini alla destinazione. Mancavano solo pochi chilometri e il mio cuore iniziava a palpitare e la mia mente a fantasticare avara di novità. In un attimo tutta la mia paura si trasformò in voglia di vivere. Mi sentivo stranamente felice anche se lontana dal mio nido di cemento. La macchina rallentò ed uscimmo dall'autostrada. Ci trovammo immersi in verdi praterie. L'asfalto scompariva avvolto dalla rigogliosa Natura. Abbassai in fretta il finestrino mi sporsi e aspirai quanta più aria i miei polmoni potessero contenere.

    «Che ti avevo detto Helena?! è buona l'aria qui.......» disse mamma sorridendo.

    «Già! E non vedo l'ora di vedere casa mamma!» mormorai con voce sognante.

    «Pure io!» urlòcon tono allegro papà, «Dakota, hai scelto un posto stupendo».

    «Speriamo che lo sia in tutti i sensi» sussurrò mia madre carica di speranze.

    Era tanto tempo che non ci sentivamo così rilassati. Passammo gli ultimi chilometri a ridere e scherzare, uniti come pochi, questo mi faceva ben sperare su tutto: che il babbo guarisse, che mi sarei ambientata in fretta, che avrei fatto nuove ed interessanti amicizie. Forse era l'aria di campagna a farci questo effetto. Papà diceva troppo ossigeno al cervello!. Forse aveva ragione. Comunque era una sensazione piacevolissima. Mi sentivo bene. Veramente bene.

    Percorremmo un lungo e stretto vialetto in ciottolato e parcheggiammo davanti alla nostra nuova casa. Il tipico rustico di campagna, né troppo grande né troppo piccolo, con un giardino immenso ed una splendida veranda in legno ricoperta da un folto gelsomino che in Estate sarebbe stato a dir poco meraviglioso. I muri erano molto vecchi e dove l'intonaco veniva a mancare si potevano notare i grandi sassi di fiume con cui era stata edificata. Mi avvicinai per guardarla meglio. La porta d'entrata era massiccia, in legno, molto bella con alcuni intagli fatti a mano. Le finestre non erano molto gradevoli a vedersi poiché molto vecchie e sporche. La verde vernice degli scuri era scrostata e rovinata da anni di esposizione alle intemperie, però, nel complesso, erano perfetti per questo luogo. Stava proprio bene lì dove stava quella casa. Sul retro notai una vecchia rimessa. Da buona curiosa qual ero vi entrai subito. L'aria era stantia. All'interno non vi era nulla di particolare se non dei vecchi attrezzi da lavoro ormai obsoleti ed un antico lavandino arrugginito. Una grande porta rivolta a nord la collegava ad un ex stalla. Probabilmente i vecchi proprietari allevavano bestiame e senza ombra di dubbio possedevano qualche cavallo vista la presenza di alcune selle western. Mi aggiravo nei dintorni con sguardo sognante, esplorando ogni angolo, ogni granello di polvere. Mi sentivo come una bambina ai confini della realtà. Tutto qui sembrava avvolto da una calma quasi irreale. Sfioravo con le dita le sporche pareti come se riuscissi ad ascoltare tutte le storie di vita passata che avevano da narrare. Oltre la baracca, in lontananza, in mezzo agli immensi campi agricoli, si ergeva maestosa un'enorme pianta. Il suo aspetto era forte e possente. In tutta la mia vita, mai, avevo visto un albero così bello ed antico. Viste le dimensioni del tronco doveva trattarsi sicuramente di un esemplare secolare.

    «Helena, vieni a scegliere la tua stanza!» urlò mamma facendomi sobbalzare e tornare alla realtà.

    Sciolsi in un attimo le mie fantasie da bambina e mi affrettai ad entrare in casa. Era completamente vuota, arredata solo dalla polvere. All'ingresso si trovava il salone principale sulla cui sinistra spiccava un gigantesco camino in pietra. Sulla destra due rampe di scale conducevano al piano superiore e sotto ad esse c'era una vecchia porta, molto rovinata, probabilmente l'entrata dello sgabuzzino. Guardando oltre quello che sarebbe stato il nostro salotto, attraverso un arco nel muro, si scorgevano due locali. Uno era pieno di tubi e condotti per il gas, l'avremmo quindi adibito all'angolo cottura, mentre l'altro sarebbe diventato una stupenda sala da pranzo. I soffitti erano molto alti, non avevo mai visto stanze con ampi spazi come questi.  

    Certo, l'appartamento a Gea Town era enorme, ma confrontato con questa casa sembrava un piccolo mono locale. I muri erano tutti dipinti di bianco tranne la zona attorno al camino. Era stata tinteggiata con un bellissimo color avorio usando la tecnica dello spugnato. Era ora di esplorare il primo piano. Salii velocemente raggiungendo la zona notte. Le stanze erano grandi con luminose finestre, ma non mi dicevano nulla. Entravo in ogni porta, ma non scoccava la scintilla. Volevo che la mia stanza fosse un luogo speciale, ma queste camere erano così anonime.

    Mentre passavo da un locale all'altro, scorsi alla fine del corridoio una piccola scala in legno a chiocciola. Non sembrava acquistata in un negozio specializzato, vista la fattura probabilmente qualcuno l'aveva costruita a mano. La faccenda m'intrigava. Chissà cosa c'era di sopra. Misi cautamente un piede sul primo gradino che si rivelò cigolante ma stabile. Il legno era ovviamente vecchio, ma sembrava abbastanza forte da poter reggere il mio peso. Salii lentamente tastando, per sicurezza, ogni scalino. Non sapevo da quanto fosse inutilizzata. Temevo che i tarli avessero rovinato la struttura interna, quindi, era meglio procedere con cautela piuttosto di farsi male il primo giorno. Non avrei gradito un ruzzolone da quella scala. Passò circa un minuto, poi, finalmente, feci capolino nell'enorme mansarda e fu subito: colpo di fulmine. Quella stanza era stupenda anche se vuota. Già me la immaginavo arredata con le mie cose. Le pareti erano tutte ricoperte da assi. C'erano due piccole finestre ad oblò ai lati della stanza; una guardava a est e l'altra ad ovest. Sul soffitto con travi a vista si faceva spazio un grande lucernario. Una piccola porta conduceva in uno sgabuzzino, mentre l'altra faceva capolino in un minuscolo bagno. Mi piaceva parecchio. Era la mia stanza speciale, me lo sentivo. Mi emozionava l'idea di poter vedere sia l'alba che il tramonto e la notte contare le stelle. Per non parlare della vista che si godeva da lassù. Il Cielo e la Terra sembravano toccarsi in un infinito orizzonte. Era uno spettacolo mozzafiato.

    Credevo che il mio nido di cemento fosse tutto ma, mi sbagliavo.

    Questo era il Paradiso.

    «Mamma! Papà! Ho deciso, la mia camera sarà in mansarda!» gridai tronfia della mia scoperta. Per fortuna l'avevo vista per prima o avrei dovuto discutere con i miei per appropriarmene.

    «Va bene, inizia a pulire e sistemare le tue cose» rispose mamma.

    Entusiasta mi misi subito al lavoro. Spolverai e pulii a fondo ogni angolo tra starnuti, sporco e spaventi per i numerosi ragni che se la davano a gambe ogni volta che toglievo una ragnatela. Scoprii anche che dietro a una delle due porte, c'era un bagno, non enorme, conteneva il minimo necessario, ma in fin dei conti era abbastanza spazioso.

    Nel frattempo, il sordo rumore delle ruote sulla stradina bianca annunciò l'arrivò del camion dei traslochi. Scaricarono quelle poche cose che avevamo portato come i letti, il divano e la poltrona di papà. Mamma aveva inoltre commissionato una nuova cucina in legno che a tempo record ci avevano già consegnato. Mi sentivo entusiasta per questo nuovo inizio. Mentre alcuni operai aprivano i contatori, insieme ad uno di loro e alla mamma, portai in mansarda il mio letto.  

    Lo posizionai esattamente sotto il lucernario. Montai la bajour, cambiai la vecchia lampadina ormai non funzionante che c'era sul soffitto, stesi il mio tappeto, sistemai le mie chitarre da esposizione e misi vicino alla finestra ad ovest la mia sedia a dondolo. Nel mio immaginario era il luogo perfetto dove posizionarla; il suo legno si intonava perfettamente con le travi a vista ed io già sognavo di stare seduta lì sopra, sotto una calda coperta, con una buona tisana a guardare il Sole scomparire all'orizzonte. Finii di riordinare anche i miei vestiti nel ripostiglio ripulito e tirato a lucido che adibii a cabina armadio. L'intera giornata volò. In men che non si dica si era già fatta sera. Erano le otto e la mia pancia iniziava a reclamare la cena.

    Mia madre si destreggiò ai fornelli preparando un gustoso secondo piatto di carne e verdure. Consumammo le pietanze in silenzio risparmiandoci le chiacchiere per fine cena.

    «Allora Helena che dici del posto?» chiese papàsorseggiando una bibita gassata.

    «A me sinceramente piace, vedremo come andrà…» mormorai sorridendo. Queste terre mi piacevano.

    «Andrà tutto per il meglio» rispose dolcemente mamma «...ma ora è meglio sparecchiare ed andare a letto, è stata una lunga giornata... Abbiamo tutti bisogno di riposare».

    «Certo Dakota, però è Natale... Prima di coricarci dobbiamo fare una cosa…» borbottò papà alzandosi frettolosamente da tavola.

    Tornò pochi minuti dopo con un piccolo abete da mettere in salotto e in uno scatolone le varie decorazioni. Lo posizionammo e addobbammo con cura intonando di tanto in tanto qualche canto natalizio. Non era molto, ma bastava a ricordarci che giorno era. Appena finito di decorarlo accendemmo le lucine che formarono bellissimi giochi di colore. Erano allegre e davano un tocco alla nuova abitazione rendendola da subito un po’ più casa mia. Finito il tenero momento famigliare era finalmente ora di andare a letto. Mi sentivo stanca, era stata un'intensa giornata. Raggiunta la mansarda, mi spogliai, mi sdraiai sul letto e guardai fuori dal lucernario. Non credevo che il cielo potesse essere cosi luminoso la notte. Dalla mia vecchia stanza sembrava solo un enorme ammasso nero. Mi persi a guardare la notte; e mentre contavo le infinite stelle che danzavano nel buio cosmico, cullata per la prima volta dal silenzioso canto della natura, mi abbandonai tra le braccia di Morfeo.

    Sotto Terra

    Capitolo 4

    Era mattina. Per la prima volta mi svegliai accarezzata dal rosso e dolce tepore dell'alba. Il cielo era libero da nuvole e nell'aria un etereo silenzio riecheggiava. Niente auto, niente clacson, solo il silenzioso rumore della natura. Mi alzai, aprii la finestra e fui subito invasa dalla fresca brezza mattutina; per strada non c'era anima viva. Lasciai le ante aperte e mi affrettati a vestirmi. Scesi poi a fare colazione. Arrivata sugli ultimi tre scalini mi soffermai un attimo.

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1