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Lacrime e sangue
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E-book154 pagine2 ore

Lacrime e sangue

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Info su questo ebook

America Latina anni 70’-80’. È ancora vivo il ricordo della strage di Tlatelolco del 1968 e i governi militari influenzavano totalmente la vita della popolazione. 
L’autore racconta questo periodo difficile, portando la sua esperienza diretta in una serie di racconti scritti con toni semplici e diretti, in grado di trasmettere tutta l’instabilità del periodo e la difficile vita della popolazione.
Storie che mostrano un’analisi sociale lucida e senza fronzoli, raccontate con una semplicità disarmante in grado di colpire il lettore con la sua crudezza, ma anche con la forza dimostrata dai singoli individui.

L’autore nasce a Roma negli anni 50, terminati gli studi di lettere emigra in Messico dove lavora presso l’Università Autonoma di Puebla. Tra gli anni Settanta e Ottanta si occupa di teatro. Ha già pubblicato con Albatros un romanzo di fantascienza: L’orizzonte degli eventi.
Attualmente vive e lavora a Roma.
LinguaItaliano
Data di uscita4 set 2022
ISBN9788830670938
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    Anteprima del libro

    Lacrime e sangue - Francesco Lanzi

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterly. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    LA LLORONA

    Messico.

    Se nelle notti senza luna, passando vicino al fiume, sentite piangere e lamentarsi, chiedete ai vecchi del Pueblo. Vi risponderanno che è lo spirito della Llorona che vaga ancora nelle notti buie. Era una madre abbandonata dal suo uomo che disperata aveva ucciso i figli e si era gettata nel fiume. Le donne di fiume non sono mai beate.

    Dalla casa salivano gli accordi di una chitarra e una voce di donna cantava un corrido. Accordi tristi, più tristi ancora erano le parole.

    L’italiana che era con me mi disse: -Che sentimentalismo!-

    Non le risposi. Mi era costato tempo capire la vera differenza tra sentimentalismo e sentimento, e dubitavo che un’italiana potesse intravedere il sentimento di una donna tropicale.

    Entrammo nella casa di Doña Josefina; nel Pueblo era stimata e considerata, stava cantando e suonando sola, seduta nel patio. Era un’india di Sonora, del nord. Alta e ossuta, non bella, ma dai lineamenti forti, i capelli neri lunghi, liscissimi che sembravano azzurri.

    Mi lanciò un’occhiata di sbieco: -Que Quieres?-

    Era conosciuta anche per il suo cattivo carattere, solo anni dopo potei constatare l’incredibile quantità d’amore di cui era capace.

    Le spiegai che cercavo una casa da affittare e mi avevano mandato da lei.

    Mi fece cenno di sedermi e indicando la mia compagna mi chiese se parlasse messicano.

    Le risposi di no: -Ni una palabra-.

    -Vièn- fece lei. -Quien te manda?-

    -Doña Fulana- risposi io.

    -Bien- disse lei. -Toma un trago-

    -Bien- risposi io.

    Mi era subito piaciuta per il modo in cui cantava, l’aspetto burbero, la maniera in cui con due frasi mi aveva messo seduto e mi aveva dato da bere, niente complimenti, niente formalismi.

    Iniziammo a chiacchierare mentre la mia amica si sentiva un po’ a disagio, non beveva, né capiva lo spagnolo, stava lì per caso e lo sapeva.

    -Es pendeja tu amiga? Es tonta?- ripeté addolcendo il concetto.

    Io scoppiai a ridere: -Es solamente una turista-.

    -Bien- fece lei.

    -Bien- feci io.

    Le raccontai che stavo nel Pueblo da poco e che cercavo alloggio. Avevo stabilito di mettermi a scrivere, cosa che naturalmente non feci, e volevo una casetta per stare tranquillo.

    -Bien! Tambien tu eres pendejo?- mi chiese.

    Mi venne da ridere, mi aveva messo all’angolo per qualcosa di cui non mi ero reso conto.

    -Salùd!- io la invitai a brindare.

    -Salùd!- rispose sorridendo.

    La mia amica si era allontanata.

    -Dimme, que tu no tienes mujer?- sottolineando il fatto che la mia amica non era certo una mujer ma una ragazzina.

    -No- risposi io -con mi vieja estoy peleado-.

    -Es mexicana?-chiese

    -Claro que si- risposi

    -Eres pendejo!- affermò lei con decisione.

    -Salud!- dissi sapendo che aveva ragione.

    Mi procurò la casa ed affermò nel Pueblo che io ero sotto la sua personale protezione e da quel momento non ebbi mai problemi.

    -Doña Josefina, como te vas la vida?-

    -Nada mal Don Pancho, nada mal!-

    Così come mi chiamava solitamente lei e mi tirava uno scappellotto come ad un bambino viziato.

    -Portate bien- diceva in tono brusco.

    Era stata sposata con un gringo e le era rimasta una figlia, bionda e con gli occhi azzurri, fatto che sembrava non poterle perdonare. Per ovviare a tale mancanza la stava allevando con una scuola molto dura. Se lei si era fatta fottere da un gringo sua figlia sarebbe dovuta diventare forte, fortissima. Non le concedeva sbagli né mancanze, doveva essere autosufficiente e non permettere a nessun cabròn di farla fessa.

    Quando la andavo a trovare mi toccava assistere a continue scenate.

    -Que eres pendeja? Que non te das quenta? Y que quieres un madrasso?- le ripeteva.

    Io chiaramente cercavo di indulgere e mediare, ma venivo zittito regolarmente. Insomma era reputata una donna forte e in fin dei conti lo dimostrava ogni giorno. Sbarcava il lunario facendo del pane integrale e lo distribuiva per tutto il paese. La vedevi la mattina presto andare su e giù per le stradine fangose con la sua sporta piena di pani a visitare le case una dopo l’altra e in ognuna si sedeva, parlava, indagava.

    -No se deje, Señora!-

    E giù a insegnare alle donne del Pueblo come dovevano comportarsi col marito ubriaco, come dovevano mandare al diavolo il padrone di casa esoso e perché. Poi passava al mercato e si fermava ad ogni banchetto di frutta e giù a discutere: -Que subiò el tomate?- E si arrabbiava e discuteva e mandava al diavolo la signora e poi faceva pace.

    Se incontrava un uomo ubriaco per la strada era capace di prenderlo a colpi di bottiglia oppure bevevano insieme finché non lo lasciava lì steso. Spesso l’ho vista ubriaca, beveva come un vecchio marinaio, ma in finale tornava sempre a casa sulle sue gambe.

    Una notte passavo sotto casa sua -Don Pancho!- Mi fece entrare. Era totalmente ubriaca più del solito. Mi sedetti, le volevo bene, conoscevo il suo dramma, la capivo e non la giudicavo. Mi passò un Rum e Coca, e si sedette piangendo come una bambina. -Ya no puedo! Es una mierda! Una vida de mierda!-

    Era vero doveva essere molto duro per lei, sola in un Pueblo come quello, tirare su una figlia e tutto il resto. Per niente facile senza dubbio. Piangeva appoggiata a me e ogni tanto risollevava la testa e beveva un sorso. Le asciugai gli occhi con le mani.

    ‘Doña Josefina cosa potevo fare per te? Per farti dimenticare il gringo biondo che forse unico hai amato? Per farti dimenticare che da troppo tempo dormi sola? Per farti dimenticare che domani non avrai i soldi per l’affitto? E che tua figlia è stata violentata da un ubriaco? E che tu non puoi farci nulla di più che inghiottire il tuo stesso pianto e bere? Per farti dimenticare che la maschera aggressiva che porti non regge alle tue lacrime? Che hai bisogno di un marito e nessuno ti vuole? Cosa posso fare per te Josefina?’

    Lei mi baciò, un bacio casto che chiedeva solo quello. Due labbra dove scaldare le sue, dove sentire un pò di morbidezza, dove dimenticare che solo il vetro del bicchiere non basta a riempire l’anima.

    Chi cammina per le strade buie di un Pueblo e sente per caso delle note tristi di un corrido suonato su una vecchia chitarra provi a sentire se è sentimento, se lo è, lasci un bacio, solo un bacio...Doña Josefina gliene sarà per sempre grata.

    QUE BONITO!

    Costa del Pacifico, confine col Guatemala.

    -Oh muy bonito!- Click click.

    -Oh wonderfull!-

    -Baaraattoo!! Baaraattoo!! Muy baratto Señora! Un carajol?-

    -Oh muy bonito! How much? Quanto vale?-

    -Baratto Señora-

    Il serpente di turisti americani passava lungo la strada che costeggiava la spiaggia con il loro cicaleccio di galline colorate. Il click delle macchine fotografiche, occhiali da sole, camicie colorate, visi bianchi e arrossati dal caldo afoso del tropico che si sollevava dalla spiaggia incandescente.

    -Tomate una!- mi diceva Paco il negro, ubriaco, bevendosi una birra sotto il tetto di foglie di palma dove eravamo stesi sulle amache. Presi la birra gelata tra le mani e me la passai sulla fronte, sulle tempie, sul volto. Troppo caldo, troppo afoso, troppo. Il pesce fritto che avevo mangiato cucinato da Doña Maria era rimasto sullo stomaco, troppo caldo per digerire. Aprii la latta di birra che esplose in una cascata di spuma, aggiunsi sale e limone, come d’uso e la portai alla bocca. Sapore ferruginoso, il limone troppo verde, il sale troppo salato. Troppo caldo anche per dormire, troppe mosche, troppi cani alla ricerca di lische di pesce tra i rifiuti sulla spiaggia, troppi ubriachi ridendo chiassosamente. Il vento proveniente dal mare appena muoveva l’afa pomeridiana.

    -Ehi Paco! Te vas a pescar mañana?-

    -Quien sabe, demasiado mar en estos

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