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E-book203 pagine2 ore

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Info su questo ebook

Seguire un impulso irresistibile e sparire a mezzanotte tra le ombre del sottobosco, accompagnata dal sospiro del vento tra le foglie e la freschezza della terra sotto i piedi nudi. Gaia non riesce a farne a meno. Ogni notte si alza e percorre velocemente le vie silenziose e immobili di Sirene, lasciandosi attirare poi tra gli alberi. Rumori rimbalzano di tronco in tronco e, a quell'ora, a chi potrebbero appartenere? A piccoli animali, forse, a spiriti dispettosi, magari. O, perché no, ad un mangiafuoco...
Michele è tornato, ma non per rimanere, perché fuggire gli riesce meglio persino del maneggiare il fuoco. La vita, però si diverte a mescolare le carte e, in una notte insonne, lo sospingerà verso il suo destino.
Un destino che ha il vago sapore dei ricordi.
LinguaItaliano
Data di uscita15 lug 2015
ISBN9791220002424
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    Anteprima del libro

    Guardami - Martina Grazian

    Martina Grazian

    Guardami

    Romanzo

    ISBN 9791220002424

    Alla vostra tenace follia…

    Prologo

    Silenzio.

    Qui, sotto le coperte, laggiù tra le foglie; silenzio nelle mie stanche ossa. Silenzio ovunque. Noioso, assordante silenzio. Solo i ricordi sbiaditi di un tempo passato. Soltanto un sogno dentro cui scivolare, pieno di promesse…

    Aspetta.

    Ascolta, Sirene, ascolta. Lo senti? Questo rumore meccanico, ripetitivo, di melodie sussurrate e tintinnii metallici? Di sospiri animali e scricchiolii legnosi? Ti stritola le viscere, facendo crescere quel senso di attesa che precede le grandi tragedie. Passi sul terreno, campanelle di avvertimento e una nuvola di polvere: le vedi? Le ombre si avvicinano guidate da grossi lumi gocciolanti, deformate dalla notte e dalla suggestione; entrano nel tuo silenzio di città addormentata, montate su carri di legno, trascinate da bestie bardate a festa.

    Quando il mattino ti caricherà di nuova energia e la sinfonia, sempre uguale, si diffonderà nell’aria, una notizia scivolerà di casa in casa: «Son tornati i vagabondi!»

    Venuti a bassa voce per non disturbare, si apprestano a sgolarsi tra le vie per imporre la loro presenza, le loro risate, le loro promesse di piacere e dolore, di passione e terrore, di stupore. Marchiati come buffoni, additati come ladri, derisi come bugiardi e fannulloni, s’inchinano di fronte a tale fama, certi di poter diventare tutto questo e molto altro. Semplicemente, volendolo. Per ora, forse, proveranno a essere soltanto buffe maschere.

    Prudenza, tuttavia, nell’ascoltare le loro fiabe innocenti. Prudenza…

    «C’era una volta, in una terra lontana e sconosciuta, un re…»

    1

    Il suo regno si estendeva fino all’orizzonte e oltre, il suo castello era sfarzoso e la sua gente non conosceva fame né povertà. Il re, tuttavia, avrebbe sacrificato volentieri tutta la propria ricchezza in cambio di altri mille anni al fianco dell’amata moglie: Luce dai nivei capelli, che gli aveva regalato due splendidi figli, era il suo tesoro più prezioso.

    La Fortuna che l’aveva baciato in fronte, però, venne a reclamare il suo tributo e, in un freddo giorno d’inverno, la regina perse la vita, disarcionata dalla sua cavalcatura…

    Sono tornato.

    Ehi, hai ancora quei tuoi biscotti al cioccolato? E una tazza di tè ghiacciato, nient’altro, grazie.

    Sì, siamo appena arrivati, un po’ tardi forse, ma ti saluto e me ne vado a letto.

    Tre mesi questa volta, ma non sono serviti poi a molto.

    Migliaia di chilometri, Angela, ho fatto migliaia di maledetti chilometri lontano da questo buco. Non immagini nemmeno quanta gente ho visto, che luoghi. Oltre le mura la vita è splendida. Eppure… Le cazzate che ho fatto, spesso solo per non pensare: il primo a buttarsi nelle risse, a tentare numeri di ogni genere, a fare amicizia con i tizi più assurdi. Mi sono anche innamorato, centinaia di volte: soffici capelli biondi, un sorriso malizioso, una coscia morbida, un profumo sexy; sono uno che si accontenta. Invece, sapessi con che fatica cerco di non pensare a te, a queste quattro case.

    Te la passi bene, però; in confronto ai tuoi vicini hai tutto così in ordine! Maria dev’essere passata a sistemarti il giardino e a pulirti il sasso. Come se te ne potesse fregare qualcosa, adesso. Lucidarti le lettere di ottone e togliere le erbacce non ti farà sentire meglio. Pensa se potesse vedere a quest’ora la statua dell’angelo dei fiori che ti ha ficcato sopra la testa: i riflessi dei lumini rossi gli dipingono una faccia diabolica e il mazzo che tiene in mano pare una cascata di budella insanguinate.

    E quest’acero giapponese che ti ha piantato addosso? Ne sarebbe ancora così orgogliosa, se realizzasse che da tempo le sue radici si sono fatte spazio dentro te, tra gli occhi, nello stomaco, frantumando carne molliccia e ossa delicate?

    Però, da un certo punto di vista, sei diventata parte di una cosa viva. Non avresti sempre voluto essere un albero?

    Il temporale era cessato nel preciso istante in cui si erano resi conto che non era ancora tornata a casa, come un bambino che si nasconde dopo aver combinato un guaio. L’avevano cercata in ogni angolo della città, chiamandola a gran voce. Sperando si fosse attardata con gli amici.

    Purtroppo lui sapeva dov’era, come se il suo cuore fosse legato indissolubilmente a quello di lei; anche se questa volta non lo sentiva. Aveva percorso la strada che portava alla città vicina, rincorso da qualche conoscente spaventato dal suo sguardo folle. Si era immerso nel bosco gocciolante seguendo il torrente, finché non l’aveva trovata.

    Che pace, però. Non c’è anima viva.

    Non ride nessuno? A parte gli scherzi, è quasi rilassante questo posto. Il profumo di erba fresca, i grilli che intonano una canzone solo per me, le candele che fanno atmosfera, gli spiriti che mi salutano dalle finestre delle cripte. Potrei addirittura pensare di portarci una ragazza, per una serata romantica. Un bel picnic notturno, che ne dici? Come piatto forte le preparerei vermi fritti, cervello di maiale e interiora di pollo, per stare in tema.

    Certo, se le ragazze sapessero che sono capace di pensieri così romantici, sarei costretto a pagarle per farle uscire.

    Raffa, piantala di lamentarti! Hai voluto tu venire a cercarla, no? Sbuffa meno, allora. Che ore saranno? Mezzanotte, l’una? Tra un po’ andiamo.

    Stupida mucca cicciona! Se avessi saputo che saresti diventato alto come un cavallo e docile come una pecora, ti avrei venduto in cambio di un sacchetto di fagioli magici.

    Sono nervoso, Angela, scusami. Mi sento un po’ rintronato e tutto solo per essere tornato qui.

    Era coperta di goccioline di terra e frammenti di ghiaia, dopo una notte intera di pioggia scrosciante. I capelli, rigonfi dell’acqua gelida del torrente, le scivolavano attorno al viso come se volessero scappare via da quella bella pelle ormai bianca e fredda.

    Un suono gorgogliante gli era penetrato nella mente e gli occhi, gli unici ancora capaci di muoversi, si erano bloccati sul violino abbandonato tra le rocce semisommerse. La cassa era ancora integra e il torrente se n’era impadronito, riempiendola e svuotandola dolcemente. Ogni tanto, un ramoscello scivolava sulle corde e una strana melodia fluttuava sull’acqua.

    Adesso ti racconto del nostro arrivo. Sarà da parecchio che non senti qualcuno parlare.

    Siamo arrivati a Sirene dopo quasi un giorno dalla nostra partenza, quando ormai la gente era stata accolta da un bel pezzo nel mondo dei sogni. Ancora m’inquieta vedere come questa città riesca ogni notte a spegnersi completamente, tanto da sembrare che l’abbiano abbandonata all’improvviso.

    Abbiamo oltrepassato l’entrata in fila indiana, un treno di sette carri e tredici conducenti esausti; il muffoso ponte di legno, l’unico passaggio attraverso il cerchio di pietre che circonda la città, scricchiolava in modo preoccupante. Anche se si fosse spezzato sotto il nostro peso, ci saremmo bagnati solo il culo nel torrente pallido e noioso che ci scorre sotto; comunque, al solito, un benvenuto con i fiocchi.

    Penso tu ti sia accorta della primavera, con tutti questi fiori che ti crescono sulla pelle, ma fa veramente troppo caldo per essere solo fine aprile e nemmeno le mosche che ci circondavano erano di compagnia. Eravamo tesi, entrando chi a piedi chi a cassetta, e non solo perché conosciamo bene l’inesistente cordialità dei cittadini, ma anche per il nervosismo che questo posto genera negli animi. Tu ne sapevi qualcosa.

    Entrando quasi di soppiatto, ci siamo trascinati in una nebbia polverosa, illuminata dalla luce delle candele. I carri hanno percorso in silenzio la strada sterrata che divide a metà un mondo: a destra la città, sempre così pulita e ordinata, impeccabile e silenziosa; a sinistra il bosco selvatico, pericoloso e carico di rumori indefinibili. La carovana si è sistemata proprio al centro, in uno spazio adibito al deposito di mezzi, al taglio della legna, al disordine; un limbo tra gli alberi e il retro del municipio.

    Assonnati, abbiamo fermato i carri a casaccio, assicurandoli con le corde ai tronchi più vicini. Io invece, seduto sul carro di coda, mi sono accaparrato un angolo dello spiazzo a ridosso della boscaglia e insieme a Raffa e Alex ho organizzato la nostra roba, assicurando i blocchi alle ruote, legando corde e sistemando Poldo, sfiancato dopo averci trainato così a lungo.

    Nonostante la voglia di ritirarsi presto, nessuno riusciva a rilassarsi: sentimenti di attesa, nervosismo ed eccitazione serpeggiavano in noi, per motivi diversi. Troppo presto, l’aria troppo frizzante, il domani troppo incerto e il posto troppo familiare, per andarsene a dormire tranquilli. C’è chi si è messo a controllare le condizioni delle apparecchiature elettriche, chi ha steso foulard umidi di lavaggio, chi ha nutrito i cavalli, chi ha affilato coltelli o controllato i pentoloni di intrugli.

    Alla fine la stanchezza se li è presi, costringendoli a spegnere tutte le candele e a raggiungere il letto. Solo Raffa non si è messo tranquillo e ha continuato a vagare tra i carri rincorrendo le foglie trasportate dal vento, annusando l’aria e il terreno alla ricerca di chissà che mistero. Anch’io mi sentivo ancora troppo inquieto e seduto nella polvere, appoggiato a una ruota, mi sono messo a osservare Sirene: il silenzio, le case così ordinatamente posizionate a mezzaluna, le vie che si estendono dal centro fino ai confini della città, come i raggi di una vecchia ruota.

    Tutto era immobile, non si sentiva nemmeno il sindaco russare dalla finestra aperta del municipio. Solo il vento, infilandosi tra le foglie e i rami dei pini e dei carpini, aveva il coraggio di provocare sussurri e scricchiolii; mi aveva fatto scattare in piedi, sicuro di aver visto ombre in realtà inesistenti, immobili nell’oscurità alle mie spalle.

    In paese cominciavano già dai primi anni a raccomandarci di non entrare nel bosco da soli: avvallamenti improvvisi, rocce aguzze e terreno friabile, grotte pericolanti e un ruscello scivoloso che partiva da Sirene pulito e perfetto per pescare o fare il bagno, ma che si riempiva di sassi franati e tronchi marci inoltrandosi tra gli alberi. Ovviamente, le migliori raccomandazioni potevano solo istigare un maggiore impegno da parte nostra per andarci a giocare, ma io ne ho sempre avuto una paura del diavolo; anche adesso, nonostante il mio cervello sia con me ormai da venticinque anni.

    Era bella. Bella. Come quando si lanciava nel torrente raccogliendosi le ginocchia al petto, una mano a chiudersi il naso. Come quando usciva dalla doccia, ridendo. O quando faceva la stella, galleggiando a pelo d’acqua, gli occhi chiusi, l’espressione beata. Era bella.

    Dormiva; se l’avesse scossa un attimo, lei avrebbe aperto gli occhi. Ancora cinque minuti, avrebbe detto, la bocca impastata dal sonno.

    Lui aspettò per giorni che pronunciasse quelle tre parole.

    Poi si rese conto che quei sei metri cubi di terra che la ricoprivano gli avrebbero comunque impedito di sentirla.

    Immerso nei miei pensieri, a un certo punto ho seguito Raffa nei suoi vagabondaggi, senza pensare dove stessi andando, e mi sono trovato qui, sdraiato accanto a te, a contare le stelle.

    Non che sia servito molto, alla fine; non mi sento ancora tranquillo. C’è qualcosa di strano nell’aria, questa notte.

    Una sensazione, un movimento impercettibile che c’entra poco con Sirene. Un suono sottile e leggero mi echeggia nella mente, peggio di una zanzara. Pare trasportato dal vento; lo vedo quasi rimbalzare di tronco in tronco, superare le foglie ed entrarmi nelle orecchie. Tipo una ninna nanna, hai presente? Un suono di gola dolce e triste, così indefinito che pare quasi inesistente. Sembra provenire dal cuore del bosco, in direzione del fiume.

    Mi stai chiamando?

    2

    Passarono gli anni e al re, ormai molto vecchio e incattivito dalla perdita della moglie, rimanevano i due figli. Stefano, il primogenito, cresciuto possente come un leone e altrettanto valoroso, aveva la stoffa per diventare un sovrano corretto e risoluto. La sorella invece, nata con i capelli del colore dei lillà in fiore e l’animo di un folletto dispettoso, sopportava a malapena i tentativi del padre di trasformarla in una gran dama. Molto spesso spariva nel bosco con un pugnale come amico e nient’altro che foglie per abito. Il suo nome era Diana…

    C’era qualcosa nel bosco quella notte, qualcosa che giungeva dalla città; sembrava scorrere nel legno degli alberi, dondolandoli assieme al vento.

    Gaia camminava sulla terra fresca e polverosa, accarezzandola a piedi nudi. L’odore di funghi e resina non riusciva a rilassarla, era pervasa da una strana inquietudine. Aveva l’impressione che echi sottili la seguissero nella foresta, saltando di ramo in ramo.

    La ragazza si era svegliata dopo un sonno nervoso e leggero, sicura di vedere il sole del mattino oltre le tende. E invece i suoi occhi avevano incontrato la luna di mezzanotte. L’aria soffiava fresca, nonostante la giornata fosse stata afosa; un venticello stanco aveva trovato il coraggio di entrare nella camera e alitarle languidamente sulla pelle sudata, stretta alle lenzuola stropicciate. Aveva sentito suo padre russare nella stanza accanto e anche se sapeva che sua madre aveva il sonno leggero, non si era preoccupata: tutti i pensieri e tutti i sensi erano rivolti verso quella sensazione alla bocca dello stomaco, quel bisogno urgente che l’aveva svegliata e l’avrebbe portata a cercare soddisfazione fuori di casa, lontano da quell’opprimente città.

    Dalla portafinestra erano entrati i profumi dell’erba tagliata, delle rose del giardino di mamma e un vago sentore di umidità, annuncio di un prossimo temporale. Gaia aspettava impaziente l’arrivo dei lampi e dei tuoni: incosciente di quello che sarebbe potuto succederle, avrebbe attraversato il bosco nel bel mezzo della tempesta inebriata dalla sensazione di potenza che le trasmetteva, infradiciandosi dalla testa ai piedi, correndo sui sentieri bagnati e sfiorando rocce e tronchi inzuppati di pioggia. I suoi unici momenti di libertà.

    Distesa ancora sopra le lenzuola, la ragazza aveva inspirato profondamente per un’ultima volta l’aria che entrava dalla finestra

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