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Il tramonto dell'ultimo rito
Il tramonto dell'ultimo rito
Il tramonto dell'ultimo rito
E-book616 pagine8 ore

Il tramonto dell'ultimo rito

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Info su questo ebook

Ecco il terzo romanzo di Ralph Colemann che completa la “trilogia del rito”. Un efferato delitto a Boston lascia di stucco polizia ed FBI. Nel frattempo, in Italia, nella biblioteca di un paesino della Puglia, viene assassinato un misterioso personaggio mentre sta consultando un antico libro del XVII secolo cui viene strappata la tredicesima pagina. L’arma del delitto è un antichissimo pugnale sottratto da un museo. Le indagini dei Carabinieri sembrano non dare risultati e il tenente che le conduce rimane ucciso in circostanze poco chiare. Anche se sospeso dal servizio, il commissario Sandro Varcàro indaga per proprio conto mentre la scia degli omicidi non sembra fermarsi. In questo contesto, Helena e Fredrik si troveranno ad affrontare una nuova spericolata avventura, ricattati da un oscuro personaggio il cui gioco, basato su bizzarri enigmi, sembra ideato per causare loro le peggiori tribolazioni. Dietro questo scenario, apparentemente eterogeneo, opera un’unica regia il cui malvagio scopo va oltre ogni più fervida immaginazione.
LinguaItaliano
Data di uscita9 ott 2020
ISBN9788831698443
Il tramonto dell'ultimo rito

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    Anteprima del libro

    Il tramonto dell'ultimo rito - Ralph Colemann

    Indice

    Avvertenza dell’Autore

    Prologo

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Capitolo 37

    Capitolo 38

    Capitolo 39

    Capitolo 40

    Capitolo 41

    Capitolo 42

    Capitolo 43

    Capitolo 44

    Capitolo 45

    Capitolo 46

    Capitolo 47

    Capitolo 48

    Capitolo 49

    Capitolo 50

    Capitolo 51

    Capitolo 52

    Capitolo 53

    Capitolo 54

    Capitolo 55

    Capitolo 56

    Capitolo 57

    Capitolo 58

    Capitolo 59

    Capitolo 60

    Capitolo 61

    Capitolo 62

    Capitolo 63

    Capitolo 64

    Capitolo 65

    Capitolo 66

    Capitolo 67

    Capitolo 68

    Capitolo 69

    Capitolo 70

    Capitolo 71

    Capitolo 72

    Capitolo 73

    Capitolo 74

    Capitolo 75

    Capitolo 76

    Capitolo 77

    Capitolo 78

    Capitolo 79

    Capitolo 80

    Capitolo 81

    Capitolo 82

    Capitolo 83

    Capitolo 84

    Capitolo 85

    Capitolo 86

    Capitolo 87

    Capitolo 88

    Capitolo 89

    Capitolo 90

    Capitolo 91

    Capitolo 92

    Capitolo 93

    Capitolo 94

    Capitolo 95

    Capitolo 96

    Capitolo 97

    Capitolo 98

    Capitolo 99

    Capitolo 100

    Epilogo

    PERSONAGGI

    Ralph Colemann

    IL TRAMONTO

    DELL’ULTIMO RITO

    Youcanprint Self-Publishing

    Titolo IL TRAMONTO DELL’ULTIMO RITO

    Autore: Ralph Colemann

    Immagine di copertina a cura dell’Autore

    ISBN EBOOK: 978-88-31698-44-3

    ISBN CARTACEO: 978-88-31686-43-3

    Copyright © Ralph Colemann - Tutti i diritti riservati

    Tutte le immagini, compresa la copertina, sono di proprietà dell’Autore.

    Questa opera è pubblicata direttamente dall'Autore tramite la piattaforma di selfpublishing Youcanprint e l'Autore detiene ogni diritto della stessa in maniera esclusiva. Nessuna parte di questo libro può essere pertanto riprodotta senza il preventivo assenso dell'Autore.

    Youcanprint Self-Publishing

    Via Marco Biagi 6, 73100 LECCE (LE)

    www.youcanprint.it

    info@youcanprint.it

    Facebook: facebook.com/youcanprint.it

    Twitter: twitter.com/youcanprintit

    Avvertenza dell’Autore

    Questo romanzo è opera di pura fantasia. Personaggi, luoghi, fatti, vicende, situazioni citati nel corso della narrazione sono soltanto frutto dell’immaginazione dell’Autore e mirano unicamente a conferire veridicità alla narrazione. Pertanto ogni riferimento a persone vive o defunte e ogni possibile analogia con fatti attuali e/o storici che possano apparire reali è puramente casuale.

      Gli eventi narrati nei capitoli storici sono fantasiosamente inventati, ma molti dei personaggi protagonisti sono realmente esistiti e avrebbero potuto incontrarsi. Alcuni hanno davvero relazionato fra di loro. Le date sono rigorosamente esatte, come pure il contesto storico-geografico in cui vengono ambientati i vari episodi.

    ralphcolemann.altervista.org

    ralph.colemann@gmail.com

    Dedicato a

            Marcello, Claudia, Elena, Leonardo e Rosetta

    "Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero,

    ché ‘l velo è ora ben tanto sottile,

    certo che ‘l trapassar dentro è leggero".

    (Purgatorio, Canto VIII, vv. 19-21)

    "Aspetterò fino a quando verrà la mia tramutazione, prima che io vada, senza ritorno, al luogo miserabile dove non vi è alcun ordine, ma dove alberga l’eterno orrore".

                                                          (Giobbe, 14, 14, - 10,20)

    "Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo. Entrerà e uscirà e troverà pascolo".

                                                                    (Giovanni, 10,9)

    "Con la sua aria molto naturale il sovrannaturale ci circonda".

                                                                    (Jules Supervielle)

    RATIONIS VIGILIA IMAGINARIA PARIT

    Prologo

    Boston, USA,

      domenica 03 luglio 2011, ore 23.50

    Danny Rodney respirava a pieni polmoni l’aria della notte, una notte senza sbarre e senza più l’incubo del "miglio verde. Tutto era andato secondo i piani: del resto non poteva che essere così. Lo sapeva fin dall’inizio, da quando aveva accettato la missione da svolgere in quella che i suoi compagni chiamavano terra di mezzo".

    Il passo era stanco, ma deciso e carico di una selvaggia fierezza. Il volto scarno e solcato da profonde rughe quasi spariva sotto il cappello da baseball, scolorito e sdrucito, dei New York Yankees. Dai lati spuntavano capelli ancora folti, ma ingrigiti dall’età e logorati da ben trentun anni di carcere duro.

      Tallonato senza respiro dall’FBI, giunta l’ora stabilita, aveva spavaldamente confessato i suoi orrendi crimini, gettando la maschera che occultava la sua vita da imprendibile serial killer.

    Ora aveva dovuto attendere che la città sprofondasse nell’abisso della notte, perché la tenebra era il suo elemento naturale: la sua notte.

      Si guardò intorno e sogghignò. 

    Chi vola cade, chi striscia, no.

      Non ricordava dove e quando aveva sentito quella frase. Forse era scritta sul muro di una cella… Ma per lui calzava a pennello.

    Dopo la lunga salita, vide finalmente troneggiare la Massachusetts State House. Come sempre la cupola d’oro dello storico edificio emanava un diafano bagliore al tocco dei raggi lunari.

    Superò la Capitol Coffee House in Bowdoin Street, ottimo locale di giorno, ma a quell’ora più spento della notte. Voltò a sinistra e poi imboccò Derne Street, finché non intravide l’arco dei garage sotterranei.

      Entrare a piedi non era un problema: bastava scavalcare la sbarra.

      Imboccò un corridoio sulla destra e seguì le istruzioni segnate su una specie di mappa scarabocchiata a lapis che teneva piegata in una tasca dei pantaloni. Secondo il disegno, più avanti doveva esserci una scala a chiocciola piuttosto angusta che portava verso il basso.

      Pochi passi e la trovò.

      Gli bastava un minimo di luce riflessa per vedere dove an-dare, perché i suoi occhi erano molto sensibili. Alla sesta tornata la scala finiva davanti a una porta di ferro.

      Appena suonò la mezzanotte Danny Rodney picchiò sul metallo tre volte sei colpi. Un tizio robusto, dalla pelle assai abbronzata, dal viso squadrato e la mascella pronunciata si affrettò ad aprire. Quei suoi grandi occhi blu stonavano in un volto afroamericano. «Mezzanotte esatta», mormorò con lo sguardo al pavimento.

    «Sapevi che sarei stato puntuale. Questa è la regola».

    L’altro tacque e fece per abbandonarsi al triplice abbraccio, ma fu drasticamente respinto. Non insistette e lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. «Ho capito… Estromesso! Dunque è davvero giunta l’ultima ora?».

    Rodney sogghignò mentre sembrava bucare l’aria col suo sguardo ferino.

    «Tu che ne dici?».

      In silenzio s’incamminarono lungo un corridoio grigio che conduceva a un salone poco illuminato e tetro.

      Il nuovo arrivato sembrava già conoscere quell’ambiente e non fu impressionato dai feticci che ne riempivano gli angoli. Un sorriso di scherno si disegnò sul suo volto quando guardo i manichini polverosi di Washington, Jefferson e Franklin. La sua attenzione si soffermò sulla statua della Vergine Nera con la sua corona di teschi d’argento e i capelli a forma di piccoli serpenti.

    «Vedi? Proprio lei mi ha mandato…», spiegò indicando quella statua. «Quindi, caro Malphas puoi ben capire…».

      Nel frattempo Malphas si era accomodato dietro la scrivania ormai malridotta, invitando l’altro a sedersi di fronte, ma inutilmente.

    «Non c’è tempo per le chiacchiere. Sai bene che stanotte dobbiamo salire. Dobbiamo ammirare dal balcone della cu-pola la città illuminata, no?».

      L’altro ingoiò amaro. «La tua sorte era decisa dal governo federale… Sono io che ho convinto il governatore della California a concederti la grazia, altrimenti non saresti qui, Danny...».

      Il graziato scoppiò in una risata gorgogliante e trasse da sotto la camicia un piccolo libro rilegato in pelle dalla copertina consunta, chiuso da una stringa di cuoio sdrucita. Senza esitare lo gettò sulla scrivania.

      L’effige del demone rosso fuoco, che troneggiava nell’an-golo di fronte alla Vergine Nera, sembrava sogghignare con aria crudele.

    «La grazia, eh? Una bella raccomandazione… Sai bene che dovevi farlo. Non esistono amici e favori ad amici tra noi, lo sai. Non un favore, ma un obbligo. Contano le regole e chi sbaglia non ha scampo, specialmente i recidivi. Ti era già stata data una seconda occasione e hai fallito di nuovo. Ora il gioco è finito per te e tocca a me… E io non fallirò».

    «Davvero? Danny, hai l’aria stanca e mi sembri parecchio invecchiato. Siamo sulla settantina, vero?».

    «Lascia perdere! Per me non è un problema. Piuttosto apri quel libretto alla tredicesima pagina e d’ora in poi, quando ti rivolgi a me, visto che hanno dovuto scomodarmi per causa tua, usa il mio vero nome». Detto questo, si lasciò andare ad una risatina ironica. «Come vedi io non ti chiamo Jaques, bensì Malphas e non mi sogno di adularti come tutti quegli idioti che ti circondano… Intendo quelli che si riempiono la bocca di te e non sanno chi sei veramente. Adesso è giunta la resa dei conti e farai compagnia a James Charles, alias Furcas, e a Juliette alias Kyra».

    Malphas annuì con una smorfia, disgustato dall’accento texano di quel criminale. «Allora, vuoi proprio fare la parte di Isfet?».

    «Sì, Isfet! Laggiù Ammut e qui Apophis, alias Danny Rodney, ma di quest’ultimo non ho più bisogno, ormai».

      Seguì un silenzio di tomba, mentre gli occhi di Malphas focalizzavano la frase in geroglifico che riempiva la tredicesima pagina del libricino e tremava.

      Il corvo impagliato dal suo angolo di buio, a fianco della copia pasticciata della Medusa di Caravaggio, sembrava seguire minaccioso ogni minima mossa, nell’atto di assalire una facile preda. 

      «Dunque è questo l’obiettivo finale?», domandò fissando i geroglifici.

    «Appunto!», confermò Apophis».

    «Proprio senza di me, allora?».

    «Malphas, lo sai… Questa è la regola», sentenziò e gli puntò dritto un dito sul petto all’altezza del cuore.

    Foggia, Italia,

      lunedì 04 luglio 2011, ore 17.50

      Il Capofamiglia, detto U’ Avvucate, passeggiava nervoso su e giù per la stanza. Aspettava visite, ma non per un caffè tra amici. Via via si fermava solo per un attimo a leggere il titolo di qualche libro su uno scaffale qualsiasi dell’enorme libreria che tappezzava il suo studio... Lo faceva distrattamente, per ingannare il tempo, mentre rifletteva e rifletteva. Non era sicuro al cento per cento se poteva fidarsi, ma era necessario ricorrere a due veri esperti e non a picciotti qualsiasi. Il problema era riuscire ad esercitare il giusto potere su di loro con delle precise direttive indiscutibili e quindi doveva mostrare non solo autorità, ma soprattutto autorevolezza. Non sapeva in che modo quei due, provenienti da ambienti diversi e al servizio di altri capi, si sarebbero adeguati a metodi d’azione assai particolari ed anzi inconsueti per la maggior parte delle famiglie… Ma il denaro avrebbe risolto ogni problema. Sì, tanto denaro, ma alle sue condizioni.

      Una corpulenta guardia del corpo bussò alla porta e poi annunciò l’arrivo dei due attesi debitamente perquisiti.

      Volle riceverli assieme, per non ripetersi nelle sue direttive: schiettezza, precisione militare, obiettivo chiaro e ineludibile. Non sedette alla scrivania, ma restò in piedi, impettito, in mezzo alla sala, al fine di mostrare più imponenza.

      Salvatore Rizzo di Palermo e Ted Brown di Chicago furono fatti accomodare su due preziose poltrone d’epoca.

    «Signori, sapete perché siete qui, dunque poche parole essenziali».

      Entrambi gli ospiti si scambiarono una rapida occhiata.

    «Intuisco il vostro momentaneo stupore, ma imparerete presto a collaborare. Siete i migliori, no? Così ho saputo da chi vi ha raccomandato e dobbiamo soddisfare a pieno il cli-ente. So che Ted parla ottimo italiano e Salvatore è al corrente di come funzionano le cose a Chigago».

      Entrambi rimasero impassibili, ma pronti ad apprendere le dovute istruzioni.

    «Prima di tutto signorilità. La nostra famiglia si distingue per i suoi metodi puliti ed eleganti. Infatti, a noi interessa il bisisnisse e non la brutalità. Dunque obiettivi di alto livello, senza spargimenti di sangue, sparatorie o violenze d’ogni genere...».

      Fece una pausa ad effetto per intravedere eventuali rea-zioni, ma nulla notò di particolare nei volti dei due ospiti, per niente sorpresi, come se già sapessero quale stile di lavo-ro avrebbero dovuto adottare. 

    «Dobbiamo operare con i guanti…», proseguì e si abbandonò ad un mezzo sorriso. «E non solo per non lasciare impronte, ma per una questione di classe nel portare avanti la missione».

      Aveva sottolineato con un particolare tono di voce quella parola usata al posto di crimine, per investire di dignità il compito che li attendeva. Subito i due accennarono a loro volta un mezzo sorriso, allo scopo di far intendere che avevano afferrato la battuta.

    «Il soggetto dovrà essere trattato come si conviene al suo rango, disponendo di tutti i confort… Anderstè?».

      Entrambi si spesero in un cenno di assenso, senza proferir parola o lasciare trapelare un’ombra d’ilarità di fronte a quel-le espressioni inglesi piuttosto casalinghe.

    «Molto bene! E ora entriamo nei dettagli», esclamò.

      I due per la prima volta si mossero sulla poltrona alla ricerca di una posizione più comoda. U’ Avvucate, si voltò con calma, afferrò un telecomando pronto sulla scrivania, accese un grande schermo incastonato fra alcuni scaffali della libreria e diede il via ad una nutrita serie di slides.

    Boston, USA,

      lunedì 04 luglio 2011, ore 06.06

      Edward Norton, il capo della polizia di Boston in persona era giunto rapidamente sul posto con una gran confusione in testa. Mentre già da lontano osservava la scena, non sapeva capacitarsi di che cosa potesse essere realmente accaduto. Un fatto del genere era così lontano dalla sua immaginazione che quasi non credeva ai suoi occhi. Si avvicinò cautamente al Coroner, il quale appariva sorpreso, malgrado nella sua lunga carriera ne avesse viste di ogni specie.

      Prima che Norton potesse rivolgere una parola al Coroner, un uomo sulla quarantina, dal fisico atletico, si presentò ad entrambi mostrando il distintivo. «Paterson, John Paterson. Agente speciale FBI…».

      Il capo della polizia oscillava fra due opposte sensazioni: l’irritazione di essere già scavalcato dall’FBI e la contentezza di potersi levare subito di mano una patata così bollente. Quando certe tragedie hanno come protagonisti personaggi così in alto, le grane per la polizia s’ingigantiscono enorme-mente.

    «Chi immaginava che potesse avere motivi per suicidarsi», osservò Norton.

    «E chi le dice che si tratti di suicidio?», obiettò il Coroner.

    «Non si è buttato? Dunque l’avrebbero buttato?», domandò perplesso il cinquantenne capo della polizia col tono ingenuo di un adolescente, mentre già si figurava il sorgere delle grane che ora, però, toccavano all’FBI. «Dunque omicidio!», es-clamò.

    «Dovrei dirle di aspettare l’autopsia, ma ritengo che potrà illuminarci poco di più…».

    «Che intende dire, dottore?», intervenne Paterson aggrottando le sopracciglia.

    «Venite con me e guardate voi stessi più da vicino. Meglio un’occhiata che cento parole», li invitò, chinandosi e indicando un punto preciso del cadavere riverso al suolo in una pozza di sangue.

      L’uomo precipitato dal balcone sottostante la cupola del Massachusetts State House, proprio alla fine della scalinata di fronte alla famosa Doric Hall, presentava uno squarcio nel petto all’altezza del cuore. Ironia della sorte la Doric Hall era proprio la porta che dava sul cosiddetto Long Walk, da cui la massima autorità dello Stato usciva dall'edificio l'ultimo giorno del suo mandato per lasciare la carica al successore. Ironia della sorte ciò era successo proprio il 4 luglio, il giorno dell'Indipendenza degli Stati Uniti, la più importante festa nazionale.

    «Come potete vedere, la vittima non ha più il cuore…», precisò il Coroner.

    «Trafficanti di organi?!», esclamò strabiliato il capo della polizia, ma si morse la lingua pensando a chi mai avrebbe potuto pianificare l’asporto del cuore proprio ad una tale personalità per poi gettare il cadavere dal balcone. Di fronte a tali dubbi, sarebbe stato d’obbligo scavare a fondo nella vita personale della vittima, ma data la posizione sociale e politica della vittima… Meglio non pensarci!

      Dopo una lunga pausa di silenzio, il Coroner si passò una mano sui capelli. «Signori», mormorò come se fosse circondato da cospiratori. «Avete mai sentito parlare del mito azteco dei cinque soli? Ebbene, il cuore non è stato espiantato, ma strappato…».

    Capitolo 1

    Lucera, Foggia, Italia

      mercoledì 13 luglio 2011, ore 18.00

      Il crocchio che si era formato nei pressi del numero civico 74 di Corso Garibaldi tendeva a ingigantirsi fino all’invero-simile, finché l’appuntato dei carabinieri Davide Calogero non uscì dalla biblioteca con l’incarico di far sgombrare la strada. La curiosità era difficile da arginare e le voci correvano rapide, di modo che tutti sapevano tutto ed in effetti nulla.

      Perché quel via vai dei carabinieri in biblioteca? E ora quel nastro rosso e bianco steso davanti all’ingresso da una parte e dall’altra delle arcate? Le ipotesi si moltiplicavano e man ma-no che serpeggiavano strampalate fra la gente assumevano sempre più il volto della certezza illusoria. C’era una bomba nell’ufficio del bibliotecario… No, dei ladri erano stati sorpresi a rubare nel settore dei libri antichi e preziosi… No, un terrorista teneva in ostaggio il commesso e minacciava di farsi saltare… Ciascuno avrebbe giurato che la propria versione era quella vera.

      L’unico, per ora, a non capirci niente era il tenente dei carabinieri Agostino D’Andrea. Spalleggiato dall’appuntato Calogero cercava di ricavare le prime informazioni da Antonietta Ventarola, segretaria della biblioteca, riproponendosi di avviare in seguito e al più presto un’indagine ben articolata.

        La scena si presentava abbastanza chiara, ma prima dell’arrivo del medico legale e della scientifica, che dovevano arrivare da Foggia, non era il caso di avanzare conclusioni affrettate.

    «Non me l’aspettavo proprio!», esclamò la segretaria. «Appena ho visto cosa era successo vi ho subito telefonato», proseguì con voce tremante.

      Neppure il tempo di un bicchier d’acqua per riprendersi dallo shock che subito era stata tartassata di domande.

    «Ero venuta al suo tavolo di lettura per dire a quel signore che stavamo per chiudere e… Un tuffo al cuore! Mi creda, stavo per svenire, ma ho preso il telefono e vi ho chiamato».

    «Ha visto qualcuno entrare o uscire o aggirarsi per la biblioteca?», domandò il tenente, cercando di essere gentile e garbato.

      L’altra scosse la testa, come per gettar via immagini raccapriccianti.

    «Capisco il suo stato d’animo, ma lei mi perdonerà. Sono cose che devo chiederle», si scusò e spedì l’appuntato Calogero a comprare una bottiglietta d’acqua per la signora. 

    «Nessuno, signor tenente. Nessuno. Ero da sola perché il commesso si era già avviato a casa qualche minuto prima della chiusura… Ha la moglie che non sta bene…».

    «Non ha sentito rumori sospetti? Non so, qualcosa, tipo voci, scalpitii, lamenti…».

    «No, proprio! Ero chiusa nel mio ufficio che è abbastanza lontano da qui».

      Il colloquio fu interrotto da rumori di passi agitati e voci confuse.

      Il medico legale fece la sua comparsa sulla scena, mentre gli agenti della scientifica cominciavano ad organizzare i rilevamenti.

    «Dottoressa Caterina De Matteis», si limitò a dire la giovane donna porgendo la mano al tenente, poi senz’altro aggiungere prese ad esaminare il corpo della vittima.

      L’uomo anziano giaceva riversato in avanti sul ripiano di lettura con la faccia appoggiata sulle pagine di un antico libro aperto. Un pugnale di foggia antica era penetrato a fondo nella sua schiena.

    «Inflitto esattamente all’altezza del cuore che è stato trapassato da parte a parte. Morte istantanea, direi, ma sarà l’autopsia a dirci di più», sentenziò la dottoressa rivolta al tenente che la scrutava silenzioso.

      Per una bella donna della sua posizione non era raro capire che gli uomini si riempivano gli occhi delle sue forme e delle sue movenze. Il vestito, estivo leggero, pur di taglio professionale, lasciava vedere curve appetibili. Un ufficiale dei carabinieri è pur sempre un uomo, anche lui un bell’uomo, alto, dal fisico atletico.

    «Tenente, non vuole conoscere l’ora della morte?», lo provocò lei schioccandogli le dita davanti al naso.

      Lui sembrò risvegliarsi da un sogno. «Certo, certo... Che mi sa dire dottoressa?».

    «Da poco… Penso meno di un’ora. Circa l’arma del delitto, così insolita, spetta a voi capirci qualcosa… Sapete di chi si tratta?». Domandò lei distrattamente mentre si aggiustava dietro la nuca i capelli setosi di un nero corvino.

      Il tenente esitò un attimo con lo sguardo incollato a quei due occhi neri come il carbone, poi chiamò a sé un agente della scientifica. «Come procedono le cose? Avete trovato un indizio che ci possa rivelare l’identità della vittima?».

      L’agente nicchiò. «Niente documenti, niente portafoglio… Una rapina finita male?».

      Il tenente volse gli occhi al cielo. «Proseguite le vostre analisi e cercate qualunque indizio, impronte, tracce… Insomma, fotografate tutto quanto!».

    «Questo esula dalle mie competenze…», si intromise la dottoressa De Matteis.

      Il tenente tornò a guardarla in viso con aria interrogativa quasi magnetizzato. «Che dice, dottoressa, mi scusi?».

    «Sì, esula dalle mie competenze, dicevo, ma vorrei farle notare che dal libro che stava consultando la vittima è stata strappata una pagina e che sulla pagina a fianco c’è qualcosa… Inoltre, forse scoprire perché costui stava consultando proprio questo libro potrebbe essere utile alle indagini».

      Il tenente aguzzò lo sguardo su quei particolari e chiamò un agente della scientifica.

    «Una serie di foto qui, per favore! Immagini ravvicinate e nitide, mi raccomando».

      Era chiaro che una pagina era stata strappata, ma dedurre che qualcuno abbia ucciso per impadronirsi della pagina di un libro sembrava eccessivo. Tuttavia, la stranezza maggiore era il particolare notato dalla dottoressa, abituata a un rapporto molto stretto con il sangue.

      La mano destra della vittima era appoggiata sul libro, sulla pagina successiva a quella strappata e l’unghia dell’indice aveva tracciato alcuni segni sul foglio.

    «Lei cosa ci vede, dottoressa?», si informò il tenente D’Andrea, lisciandosi la barbetta biondiccia ben curata.

    «Un attimo prima di morire, l’anziano è riuscito a tracciare quei segni col proprio sangue», rispose lei affettando noncuranza.

      Il tenente aguzzò la vista. «Col sangue? Che cosa ha scritto? Non saprei proprio che diavolo significa!», confessò. «Lei ha qualche idea?».

      La dottoressa si dondolò leggermente con le mani dietro la schiena, mostrando in modo più evidente le sue forme attraenti. «Le ripeto che questo esula dalle mie competenze, ma secondo me quella è una breve e stringata e pure sgrammaticata frase in inglese».

      Il tenente si sentì preso in contropiede e arrossì. «Ho sempre studiato francese», si giustificò.

      Una pausa di silenzio imbarazzante, poi la dottoressa si decise: «Egli essere merda».

    «Come ha detto, dottoressa?», domandò stupito il tenente.

    «Quello che ho detto, tenente! C’è scritto he be shith, egli essere merda».

    Capitolo 2

    Agadis, Eidon-Azlan, 30.000 a.C.,

    prime luci dell’alba

      Helion, salendo pian piano dall’orizzonte dalle fertili terre dell’Ovest, dipingeva il cielo di un pastello rosa chiaro.

    Dalla cupola di cristallo del globo sovrastante l’apice della torre, lo scienziato ammirava la sua grandiosa città dai tetti dorati. La sua forma rotonda era attraversata da due vie principali che s’incontravano al centro. Ogni costruzione emergeva da un ricco manto vegetale pieno di frutti e di fiori dai colori variegati. Aleggiava nell'aria un dolce profumo di fecondità.

      Mentre attendeva la visita di Aton-Hisis, con l’animo soffocato da una cupa malinconia, aguzzò la vista per godersi l’arrivo di quel nuovo mattino che illuminava di luce naturale il suo meraviglioso mondo. Di notte la città brillava di luce propria perché i tetti irradiavano un bagliore iridescente e il globo sulla torre splendeva di una potente luce adamantina.

      Ammirava le tre grandi piramidi dalla punta dorata, dislocate nella valle appena fuori dell’area abitata. Ricoperte all’esterno da un impianto solare fotovoltaico, erano in grado di produrre elettricità sufficiente per mantenere attivi i dispositivi interni grazie ai quali la città poteva disporre di una fonte energetica praticamente inesauribile. Pensò che per una cosmica fatalità, ben presto la loro funzione sarebbe drasticamente cambiata. Mentre si ravvolgeva in questi cupi pensieri, ecco che nel cielo vide saettare una quantità di sfere lucenti, come se le stelle fossero impazzite e fuggissero da una parte all’altra della volta celeste. Poi attraverso le pareti di cristallo, vide sfolgorare una luminosità improvvisa e capì che il momento era arrivato.

      Quando il sovrano Aton-Hisis entrò nella cupola, trovò il salone immerso nella profonda quiete di un silenzio sacrale. Da lì, di notte, si poteva ammirare il cielo stellato e più in basso lo splendore della città addormentata. Vide Toth-Siris seduto al suo posto mentre i suoi grandi occhi color ametista si perdevano nell'immensità di quel panorama come ne fosse assorbito.

    «Sono qui», disse semplicemente Aton-Hisis, quasi in un sommesso sussurro.

      Toth-Siris distolse la sua mente dalla maestosa visione di Agadis, che da lì si poteva ammirare in tutta la sua imponenza, e si voltò.

      L’altro stava in piedi a pochi passi da lui. Il cranio completamente calvo dalla forma allungata gli conferiva un'aria gravemente austera, ma nel contempo, l'espressione naturale del suo viso, malgrado l’intensità azzurra dei suoi occhi gran-di e penetranti, era quella di una profonda bonarietà. Anche lui, come Toth-Siris, indossava una semplice tuta non aderente, ma piuttosto comoda e ampia, di un intenso verde cobalto. Una cinta argentea poggiava lenta sui suoi fianchi.

    «Immagino vorrai sapere se tutto è confermato», osservò Toth-Siris.

    «Sì. Allora, il destino di Saras è segnato?».

    «Purtroppo, dalle ultime verifiche, risulta che l’intensità del campo magnetico di Helion cresce in modo continuo ed esponenziale. Ciò significa che quando il suo campo magnetico s’invertirà, Saras non si limiterà a invertire il suo campo come di consueto, ma si capovolgerà materialmente».

      «Quali ne saranno gli effetti?», domandò coraggiosamente Aton-Hisis. I suoi tratti somatici erano essenziali e alla tenue luce dell’alba il suo volto dava l’impressione di una lattea trasparenza.

    Toth-Siris, non rispose, ma si alzò dalla sua poltroncina e si diresse verso una consolle color ghiaccio menta al centro della cupola. La sua figura snella si muoveva leggera e armoniosa come se la forza di gravità avesse scarso potere su di lui. Appoggiò le dita su un settore della consolle e attese. La carnagione delle sue mani era chiarissima, diafana e assai delicata.

      A breve, dalla consolle si levò un ologramma che mostrava immagini e grafici in movimento.

    «Dalle simulazioni, che garantiscono più del novantanove per cento di fedeltà, emerge che Saras subirà enormi sconvolgimenti continentali».

      «C’era da immaginarlo. Ma in particolare cosa succederà?», s’informò Aton-Hisis mentre un’ombra di sconforto s’impadroniva del suo volto.

    «Eidon-Azlan si spaccherà in tre masse continentali separate da vasti oceani. Inoltre, la grande maggioranza della massa delle terre emerse si concentrerà su un solo emisfero e quindi il peso verrà caricato soprattutto su una parte del globo. Questo provocherà un’inclinazione dell’asse di almeno ventitré gradi».

    «Quindi Helion non illuminerà Saras in modo uniforme come adesso… Ciò comporterà una drastica variazione dei climi, con periodi in cui le notti saranno più lunghe ed in altri meno. La zona temperata si sposterà a nord e a sud dell’equatore…».

    «Proprio così!», confermò Toth-Siris. «E non solo, ma tutta la biosfera ne sarà modificata e curiosamente Helion sembrerà sorgere dalla parte opposta a quella attuale, perché il ribaltamento dei poli implica anche che Saras, rispetto ad Helion ruoti al contrario. Purtroppo il nuovo assetto di questo mondo sarà caratterizzato da instabilità geologica, con frequenti terremoti e ciclici mutamenti climatici».

    «La prospettiva non è rosea, comunque è deciso. Tutto è pronto per il trasferimento… Ma tu sei sicuro di voler restare? Sei sicuro che le piramidi reggeranno?».

    «Così dice la simulazione, reggeranno alla grande. Basta solo rimuovere le punte elettro-conduttrici, il rivestimento optoelettronico e altri pochi dispositivi interni, lasciando solo il rivestimento di calcare bianco. Magari sarebbe utile rinforzare la base con blocchi di granito… Avrò con me due collaboratori, no?». 

    «Sì. Un collaboratore, Ame-Mophis e una collaboratrice Mesk-Henetis. Sarete posti in animazione sospesa ciascuno in una delle piramidi. Tu occuperai la più grande e sarai posto nella vasca degli accumulatori che sarà liberata fra breve. Sarai anche il custode della kufa».

    «Loro sono davvero convinti di restare?».

    «Senza dubbio».

    «Allora, per me, non ci sono problemi».

    «Il risveglio è previsto fra diciottomila anni... Questo lo sai bene, vero?». 

    «Sì, lo so bene… E mi auguro lo sappiano anche loro due».

    «E sai anche che cosa troverete al vostro risveglio?».

    «Certamente», assentì Toth-Siris con un sospiro. «Comunque, non possiamo lasciare che proprio tutto vada in rovina dopo millenni d’impegno in questo mondo. Dobbiamo almeno salvare il salvabile. Puoi confermare che il mio trasferimento e quello dei miei due collaboratori avverrà appena avremo compiuto la missione?».

    «Confermato! Soph-Ethis è a un minuto da qui… Ma credi che vi sarà facile reimpiantare una nuova civiltà?», domandò dubbioso Aton-Hisis.

    «Faremo del nostro meglio, in base alle indicazioni della simulazione così come la vedi configurata nell’ologramma».

    «Allora è deciso. La kufa dovrà essere custodita nella camera della conservazione della piramide grande dove tu giacerai. Ognuno di voi tre avrà lo strumento giusto per aprirne e chiuderne l’ingresso. Mancando solo uno di voi l’accesso sarà impossibile», confermò Aton-Hisis.

    «E in mancanza delle idonee tecnologie nessuno potrà accedervi», aggiunse l’altro, poi staccò le dita dalla consolle e trasse da sotto di essa un contenitore a forma di parallelepipedo ricoperto da una lamina di platino sovrastante una più spessa lamina di piombo. Le dimensioni interne della kufa non erano casuali: trentasei centimetri per ventidue con uno spessore di quindici.

    «Vogliamo dare un’occhiata?», suggerì Aton-Hisis.

        Senza esitare, Toth-Siris sfiorò coi polpastrelli alcuni simboli incisi sul coperchio e il contenitore si aprì con uno sbuffo mentre una nebbiolina verdognola fuoriusciva dalle parti.

      Ventidue tavolette opalescenti giacevano allineate verticalmente in due file sul fondo, anch’esse di dimensioni non casuali: settantadue millimetri per trentadue con uno spessore di ventitré. Tutte recavano un simbolo inciso nel centro. Le prime ventuno erano di un intenso verde smeraldo mentre la ventiduesima di un cupo rosso rubino. Sulla destra un pannello recava in sequenza gli stessi simboli.

      Nell’incavo posto al di sotto delle tavolette, brillava una serie di recipienti di materiale cristallino trasparente contenenti una sostanza lattiginosa.

    «Che ne dici di un piccolo collaudo?», propose Toth-Siris e così dicendo toccò il simbolo del pannello corrispondente alla prima tavoletta. L’ologramma che si sviluppò subito recava il titolo: Origine.

    «Mi pare che funzioni perfettamente», disse Aton-Hisis.

    «Appunto… Evito l’avvio e passiamo direttamente alla ventunesima. Se quella è a posto significa che  anche le intermedie lo sono necessariamente».

      Detto ciò, sfiorò il simbolo della ventunesima e comparve l’ologramma dal titolo: Compimento.

    «Sarei curioso di verificare anche la ventiduesima…», mormorò Toth-Siris con un tono di voce scherzoso, mentre si apprestava a richiudere la kufa.

      L’altro sorrise. Tutti noi lo siamo, ma sai bene che non è né concesso, né permesso saperlo. Ecco perché la kufa deve essere rigorosamente custodita. Guai se finisse nelle mani sbagliate e sai bene a chi mi riferisco».

    Capitolo 3

    Fiesole, Firenze, Italia,

    mercoledì 13 luglio 2011, ore 18.00

      Nonno Albert era alle prese con gli ultimi preparativi per il viaggio al Palazzo dei Congressi di Pisa, dove era stato chiamato come relatore per una conferenza sull’etica delle arti marziali giapponesi. 

      Il fedele domestico Kojima Masaaki già lo attendeva in auto al posto di guida.

      Prima di ricevere quell’invito, aveva finalmente potuto trascorrere alcuni giorni sereni, tranquilli e distensivi a Villa Moroni, dopo le tortuose vicende che avevano sconvolto la sua famiglia negli ultimi tempi. 

      Giorni tranquilli e distensivi sì, perché Villa Moroni, già trasformata dall’esperto di domotica Marcello in un’area inespugnabile, sembrava non dovesse più fungere da quartier generale per fronteggiare gli attacchi della Confraternita.

      Giorni sereni si fa per dire, dal momento che il seguito di tali vicende aveva preso una piega del tutto diversa da quella che lui e gli altri protagonisti avevano immaginato.

      Sia le autorità, sia i mass media avevano preso poco sul serio le testimonianze di Helena, ricercatrice presso l’Istituto Universitario fiorentino di arte rinascimentale e di Fredrik, che avevano vissuto assieme esperienze rocambolesche in giro per il mondo. 

      Tutto veniva interpretato come il gioco di alcuni esaltati appartenenti ad una fittizia Loggia Massonica, la Confraternita Mondiale dell’Ultimo Rito di per sé praticamente innocua, spacciata per setta satanica e per nulla conosciuta o riconosciuta dalla Massoneria tradizionale.

      Secondo gli inquirenti, dare la caccia all’Anticristo altro non era che un modo di abbattere la noia da parte di gente straricca che non sapeva come passare il tempo. Inoltre, quelle che venivano descritte come azioni criminose altro non sarebbero state che la risposta ad una  sorta di caccia al tesoro, un po’ più pericolosa di quelle classiche, che Helena Moroni e Fredrik Hildenberg avrebbero affrontato con lo stesso obiettivo di chi pratica sport estremi: sviluppare adrenalina. Insomma una sfida fra esaltati, coniata sul modello di certi bizzarri videogames.

    Tutto, quindi, era stato archiviato come una sorta di sceneggiata, con la sola contestazione di reati minori nei confronti del cardinale Arturo Engalli, indagato come capo della setta. Nei guai invece erano finiti il commissario Sandro Varcàro e soprattutto il sovrintendente Antonio Caputello, coinvolti in modo non ortodosso in quelle indagini. Ovviamente chi doveva rimetterci erano sempre le forze dell’ordine e mai i malviventi.

        Ad Albert Moroni tutto ciò suonava irriverente, raccapricciante e offensivo… Un oltraggio alla sua dignità e alla sua intelligenza oltre che una beffa nei confronti del buon senso e un inganno ai danni dell’umanità intera. Per questo aveva in mente di integrare la sua conferenza con precisi riferimenti ai fatti accaduti, mostrando ad un nutrito pubblico di cervelli il suo disappunto di fronte alla leggerezza di chi avrebbe dovuto aprire indagini serie e attente.

      Probabilmente il peggio era passato, ma per Nonno Albert, pur massimo esperto e praticante di arti marziali, uscire dai recinti di Villa Moroni era comunque motivo di vaga preoccupazione.

    Trasse dalla tasca il foglietto che tempo prima gli era giunto fra le mani e lo rilesse con calma.

    Libro di Moroni, versetto 1,1: Ora io, Moroni, sono sopravvissuto e non mi faccio conoscere ai Lamaniti, temendo che mi uccidano. Versetto 10,10: Ad un altro, mediante lo stesso spirito, è concesso di insegnare la parola di conoscenza.

      Quello era il testo sacro, rivelato, della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni e conteneva anche la storia del profeta nefita Mormon e di suo figlio Moroni.

      Ricordava bene che cosa gli aveva detto il commissario Sandro Varcàro che, spulciando quel libro, aveva colto quella starna coincidenza del cognome. Le parole che lo avevano colpito erano Moroni, uccidano e mediante lo stesso spirito. Insomma, uccidano Moroni mediante lo stesso spirito. Secondo Varcàro spirito voleva significare metodo o criterio e pertanto quella frase, per lui, aveva suonato come un ordine di esecuzione.

    Poi era noto che quella setta basava tutta la sua condotta sulla simbologia dei numeri e questo, per fortuna, la rendeva prevedibile.

      Sistemando in successione le cifre dei versetti, avevano riscontrato che si otteneva il numero binario 111010 che in decimale corrispondeva a cinquantotto la cui sommatoria,  tredici, corrispondeva alla tredicesima figura dei Grandi Arcani delle chiavi dei Tarocchi, ovvero morte.

      Inoltre, Moroni era la terza parola e uccidano la tredicesima dopo la terza. Le parole del versetto successivo erano quindici, e sapevano che la quindicesima figura dei Grandi Arcani delle chiavi dei Tarocchi indica il diavolo.

      Infine, le parole del primo versetto erano sedici e sapevano che la sedicesima figura dei Grandi Arcani è assai infausta e rappresenta la catastrofe. La somma delle parole dei due versetti dava trentuno che rovesciato appare come tredici.

      Insomma, troppe coincidenze per una semplice casualità.

      In seguito a ciò, se Moroni fosse stato superstizioso non si sarebbe mosso da casa, ma un vero samurai dei tempi moderni come lui, assai temibile malgrado i suoi settantacinque anni, non poteva permettersi di indulgere ad alcuna forma di scaramanzia.

      Ripensò ai concetti di fondo sui cui si sarebbe basata la sua conferenza. Doveva illustrare in cosa consisteva  lo spirito del guerriero, la mitica ed emblematica figura del Samurai che racchiude in sé tutta la complessità e nel contempo la semplicità del vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo, nel rispetto della vita e nel disprezzo della morte.

    L’arte marziale orientale poteva essere ritenuta anche una disciplina integrale del corpo e della mente, un’arte a tutto cerchio che, nelle sue varie sfaccettature, poteva servire alla difesa da ogni tipo di attacco da parte di agenti esterni, qualunque essi fossero: aggressioni, malattie, disgrazie, maldicenze, e così via. Un’arte capace di donare benessere fisico e serenità mentale non prevede timori di sorta, e chi la pratica deve diventare acqua nell’acqua, terra nella terra, aria nell’aria e fuoco nel fuoco, erba nell’erba, sasso fra i sassi.

      Era con questo spirito che Albert Moroni si accingeva ad uscire allo scoperto, senza provvedersi di una scorta armata come maggior prudenza avrebbe consigliato.

      Tago e Axel, i due dobermann guardiani, scortarono il padrone fino all’auto, sicuramente vogliosi di salirci con lui, ma il loro compito era quello di affiancare le guardie giurate che proteggevano la villa ventiquattro ore su ventiquattro.

      La Jaguar XJ grigio metallizzato che splendeva al sole come un gioiello, sfrecciò lungo il viale che conduceva al cancello principale della villa. Mentre percorreva quel nastro di terra disteso fra l’erba e due filari di cipressi, di colpo si pentì di non aver informato Helena di quella sua uscita, comunque al momento lei era in Australia a Healesville, impegnata in ben altre e più allegre vicende. Non gli pareva il caso di creale inutili preoccupazioni mentre si trovava dall’altra parte del mondo.

      Quando giunsero al cancello, il sorvegliante si sporse dalla guardiola e scrutando il gesto d’assenso di Masaaki si affrettò ad azionare il meccanismo d’apertura.

      Giunti al parcheggio antistante l’ingresso del Palazzo dei Congressi, Masaaki trasse un sospiro di sollievo per il fatto che durante il viaggio tutto era filato liscio come l’olio senza brutte sorprese di sorta. Buon segno.

          «Io scendo qui all’entrata del parcheggio. Tu intanto trova un posto per l’auto», disse Moroni e fu rapidamente a terra.

      Masaaki assentì con un secco gesto del capo e, poiché al piano terra erta tutto occupato, inforcò la rampa che portava al piano superiore alla ricerca di un posto libero.

    Capitolo 4

      Valle di Ghiza, Egitto,

      mercoledì 21 marzo 820 d.C., ore 10.30

      Il califfo Al-Mamūn si gongolava all’interno del suo baldacchino ben piazzato sul cammello più robusto e mansueto della mandria. L’animale, sebbene avvezzo ai deserti, procedeva cauto su quel terreno impervio fatto di ciottoli e di sabbia.

      Davanti e di dietro marciava la scorta e al seguito l’archi-tetto Yahya Al-Hikma con gli operai e le attrezzature. 

        Finalmente Al-Mamūn poteva realizzare il suo sogno, la sua brama assillante, covata per anni mentre doveva preoccuparsi di politica e di conquiste.

      Aveva ormai consolidato il suo potere riunificando l’impero e affermando il dominio sugli Abbàsidi: fine della guerra civile, pace e prosperità… Ma la brama di potere ora lasciava il posto alla brama di ricchezze e chissà quante ne avrebbe accumulate portando a termine il suo arduo progetto.

      Mentre Al-Mamūn fantasticava su mitici tesori, la grande piramide, grazie alla sua immensa mole, sembrava trovarsi a due passi dalla carovana, ma in realtà sarebbero occorse ore per raggiungerla a dorso di cammello.

      Pareva una collina di pietra e il suo aspetto era affascinante, grazie ai suoi antichi rivestimenti esterni costituiti da lastroni ben levigati e splendenti. Strano che gli mancasse la punta, come se qualcuno l’avesse tagliata via come a un delinquente decapitato.

      Durante quel duro viaggio, nella mente del Califfo turbinavano domande su domande.

      A che cosa poteva servire una tale costruzione? Tanto ingegno e tanta fatica per una tomba? E poi per un faraone di nessuna fama? In apparenza, quell’immensa costruzione sembrava non avere alcun senso, al pari di un’immensa assurdità. Quando fu veramente costruita? Chi poteva aver realizzato quella perfetta montagna di pietra alta quasi trecento cubiti, con una base perfettamente quadrata di quasi quattrocentosessanta cubiti per ogni lato? 

      Cacciò via tutti quegli inutili interrogativi. Per lui, chiunque ne fosse il costruttore o i tempi in cui fosse stata edificata erano particolari che non contavano nulla. Lui era certo di una cosa sola… Una fortezza del genere altro non poteva essere che una straordinaria cassaforte, ideata per custodire inimmaginabili tesori, quelli di cui lui si sarebbe presto impadronito. Tesori ben meritati, dopo tante fatiche sopportate e tanti rischi affrontati a causa di politica e guerre.

      Giunti alla piramide, fu predisposto il cantiere, sistemando a dovere, alloggi, uomini e bagagli.

      Per esplicito ordine di Al-Mamūn, iniziarono subito i lavori, malgrado le fatiche accumulate nel viaggio. L’esterno della piramide fu scrupolosamente ispezionato. Dopo una deludente ricerca della porta d'ingresso sulla cui esistenza correvano antiche voci, il Califfo si decise a far traforare la parete nord della piramide. Dopo un massacrante lavoro di perforazione della pietra calcarea che veniva sgretolata con l'ausilio di sostanze corrosive e di pali di legno d'ulivo infuocato, finalmente gli operai, attraverso quel cunicolo, sfociarono in una specie di corridoio che si dirigeva verso il basso.

      «Questa volta ci siamo!», esclamò il califfo a quella notizia, stringendo il braccio di Abd-Allāh, suo cugino e suo primo consigliere. «Se tutto andrà bene, sarai tu il prossimo governatore d’Egitto».

      Queste ultime parole gli si spensero in gola quando udì delle urla strazianti provenire dal cunicolo aperto nella pietra.

      La sua tenda era piazzata a poca distanza dai lavori e di lì a poco si presentò al suo cospetto un ambasciatore tremante e madido di sudore. Dopo essersi inginocchiato e prostrato in un rispettoso inchino si decise a parlare.

    «Sua Altezza vorrà perdonarmi se non reco buone notizie…».

    «Parla, idiota!», lo esortò irritato il Califfo, volteggiando l’indice sopra la

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