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L'isola dei conigli
L'isola dei conigli
L'isola dei conigli
E-book435 pagine5 ore

L'isola dei conigli

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Info su questo ebook

Attraverso uno scambio d’identità a seguito di acquisizione contemporanea delle impronte digitali su due bambini distanti tra loro sia geograficamente che socialmente, assunte tramite sistemi informatici in fase di sperimentazione in dotazione alla polizia scientifica italiana, un bambino italiano si ritroverà catapultato improvvisamente nel corpo di un bambino africano in Senegal, e viceversa. Dall’agiatezza e la ricchezza occidentale all’improvvisa disperazione e povertà del terzo mondo, le vicissitudini e le mille difficoltà che dovrà affrontare Alex, il bambino italiano nel corpo di Amadou, il bambino africano, e il suo viaggio per ritornare a casa, saranno una dura prova. Vivendo in prima persona le tappe migratorie obbligate che dal continente nero approdano fino alle coste del bel paese, Alex affronterà un viaggio quasi mistico che lo porterà a confrontarsi con la disperazione e la speranza di un futuro migliore. Dalle oasi del Sahara fino alle coste libiche, Alex cercherà con le proprie forze di tornare dalla sua famiglia a Torino tra mille difficoltà e avventure, e lo farà attraverso le rotte dei migranti sbarcando sull’isola di Lampedusa, con una carretta del mare.

Fabrizio Sparta è nato ad Alatri (Fr),classe 1973. Scrittore e autore testi canzoni (diplomato scuola C.E.T. di Mogol) è Direttore esecutivo della Sottotetto Records. Ha pubblicato il suo romanzo di esordio “Un’estate con il mostro: vivere, piangere e ridere con la sclerosi multipla” Ed. Il Filo nel 2008, tradotto anche in Ungheria con la casa ed. Medicina, “Piccole note crescono” Ed. Albatros nel 2010. “L’isola dei conigli” è il suo terzo romanzo.
LinguaItaliano
Data di uscita5 apr 2016
ISBN9788899394561
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    L'isola dei conigli - Fabrizio Sparta

    Fabrizio Sparta

    L’isola dei conigli

    Edizioni EVE

    Fabrizio Sparta

    L’isola dei conigli

    Edizioni Eve

    TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI

    Edizioni Eve e un marchio editoriale di Editrice GDS

    Ogni riferimento a cose, luoghi o persone descritte nel seguente romanzo è da ritenersi del tutto casuale.

    Ai miei figli, ai bambini, alla speranza per un futuro migliore.

    Prologo

    Parigi 1910. Università della Sorbona

    Era in ritardo di almeno un’ora e mezzo. Lo stavano aspettando. Svoltò sul boulevard Saint Michel mentre le campane di Notre Dame rintoccavano le dodici. La sua nuova bicicletta sfavillava al sole, era l’ultimo modello della Bianchi. Solida e affidabile, da li a un paio di anni sarebbe stata la bibicletta ufficiale del Battaglione Ciclisti dei Bersaglieri con il modello denominato 1912, avendo la casa costruttrice Bianchi, proprio in quei giorni, vinto la gara d’appalto per la futura distribuzione. E Victor Balthazard si era sempre sentito così: un bersagliere, un esploratore nelle ignote terre della conoscenza.

    Quasi in volata, come fosse un corridore di quel Tour de France che era stato inaugurato solo sette anni prima, superò alcune carrozze per giungere infine a Place de la Sorbonne, proprio sotto l’imponente entrata della Facoltà di Lettere e Scienze dell’Università di Parigi.

    Discretamente atletico per i suoi quasi quarant’anni, vestito di un completo chiaro con panciotto, cravattino e borsa di cuoio a tracolla, salì i cinque gradini d’ingresso della Sorbona sotto lo sguardo severo delle statue incastonate sulla bianca facciata. Giunto nell’androne, lasciò la bici in custodia al portiere ed entrò in biblioteca. A destra e a sinistra, una fila di colonne con capitelli ionici e corinzi: la differenza era difficile da distinguere per un professore di medicina legale con una passione innata per la matematica, quale Victor Balthazard. Attraversando l’ampia sala, alcuni studenti alzarono lo sguardo per salutare il grande e stimato professore: un saluto quasi augurale a quell’innovativa pubblicazione scientifica che si accingeva ad esporre, appena avesse svoltato a destra nella sala riservata. Ed eccolo finalmente davanti alla porta d’ingresso: il viso tirato si rifletté sul vetro, e soltanto allora Balthazard si rese conto di non indossare i suoi soliti occhialetti ovali. Corrucciò lo sguardo: proprio non si riconosceva in quella faccia con i baffi a punta senza le preziosi lenti.

    Prese dal panciotto gli occhiali di riserva, li inforcò, fece un grande sospiro ed entrò.

    Fu subito immerso in una coltre di fumo per le numerose sigarette, pipe e sigari accesi nel frattempo, e dal brusìo che con il suo ingresso si attenuò quasi subito.

    Seduti ai banchi, ad attenderlo da un’ora e mezza, c’erano i più grandi cervelli dell’epoca, nonché i professori più illustri della Sorbona di Parigi.

    «Scusate il ritardo, ne sono rammaricato», disse Victor attraversando l’enorme sala.

    Non fece neanche in tempo a raggiungere il suo posto, che il suo avversario, il professor Poincarè, lo sferzò con la sua solita insolenza:

    «Era ora che arrivaste, professor Balthazard, nessuno di noi scommeteva più nella possibilità che lei venisse davvero a illustrarci la sua fantomatica teoria probabilistica».

    Insieme al professore Jules Henri Poincarè, sedevano ai banchi, illuminati da lampade a olio, i matematici e i fisici più eccelsi del secolo: il collega Marcelle Lambert, i professori Jean Perrin e Jacques Hadamard, il fisico italiano Pietro Blaserna, il professore in fisica Paul Langevin, l’illustre professore di matematica Hermann Weyl, e il giovane professore Albert Eistein dell’Università di Berna, che era in attesa di una cattedra all’Università di Praga. Per ultima, ma non certo in ordine di importanza, la professoressa di origine polacca Maria Sklodowska , meglio nota come Marie Curie, la quale, fin dall’età di ventiquattro anni, aveva lavorato nelle università parigine, vincendo un Nobel per la fisica nel 1903 insieme al marito Pierre Curie unitamente ad Antoine Henri Bacquerel. La Curie, oltre al Nobel per la fisica, proprio in quei mesi era stata candidata per un altro premio Nobel, questa volta per la chimica, grazie alla sua scoperta del Radio e del Polonio enunciato nel trattato sulla radioattività. La Sklodowska Marie Curie è stata la prima donna ad aver avuto il prestigioso compito di insegnare alle nuove menti parigine, proprio presso la Sorbona.

    Victor Balthazard non si scompose né reagì alla provocazione del paffuto professore Poincarè, replicando con un educato:

     «Mi scuso ancora per il ritardo, ma vedrete che non vi pentirete della lunga attesa».

    Poi estrasse dalla cartella di cuoio diversi appunti, e iniziò a parlare:

    «Illustri colleghi, oggi, nove settembre 1910, è un gran giorno sia per la scienza, sia per la matematica applicata, sia per l’antropometria».

    Victor Balthazard, in quello che doveva essere il preambolo, cominciò dalla Comune di Parigi del 1871, per allacciarsi al fatto che tutti i registri di identificazione anteriori al 1859 erano stati bruciati durante le sommosse. Un esempio per spiegare l’importanza, in una società democratica, di riconoscere, e quindi identificare, ogni singola persona con un sistema sicuro, affidabile, veloce e senza margine di errore. In proposito, richiamò il lavoro effettuato, un paio di decenni prima, da un piccolo funzionario di polizia parigina, fotografo e criminologo della Prèfecture de Police di Parigi, chiamato Alphonse Bertillon. Questi, infatti, con il suo metodo potriat parlè, aveva gettato le basi del metodo antropometrico, grazie al quale, unendo la descrizione verbale dei connotati di una persona con le sue impronte digitali, si potevano correlare e riconoscere in maniera analitica i caratteri corporei di un singolo individuo.

    Poi, il professor Balthazard fece un breve e doveroso elogio ai predecessori di Bertillon, e citò Vidocq, Quètelet, Purkinje, gli inglesi William Herschel e il Dott. Henry Faulds. Ma l’elogio più grande lo riservò a Sir Francis Galton e al suo trattato Fingerprint directories, nel quale erano enunciati i princìpi fondamentali dell’unicità delle impronte digitali. Citò anche le innovative tecniche dattiloscopiche del professor Ottolenghi e del professore Gasti e spiegò come Bertillon, senza avere una profonda preparazione matematica nel calcolo delle probabilità, con le sue undici misure corporee, avesse comunque fatto un ottimo lavoro statistico, anche se non sufficiente all’esatta discriminazione di due soggetti, specialmente quando si aveva la necessità di distinguerli in ambito giudiziario.

    Ma Victor era ansioso di illustrare la sua teoria probabilistica, e così si affrettò a spiegare ai presenti i nuovi sistemi di identificazione giudiziaria che univano il sistema foto segnaletico e antropometrico all’acquisizione delle impronte digitali in ambito carcerario.

    Il fatto è che mancava ancora un sistema teorico rappresentabile che certificasse sia matematicamente sia statisticamente tutte queste teorie e i metodi di identificazione, e che fosse scientificamente dimostrabile e riproducibile sia in sede civile sia penale.

    O almeno, mancava finché il professor Balthazard non sollevò il drappo che copriva una grande lavagna al suo fianco.

    «Ed ecco a voi la prima teoria probabilistica dell’unicità delle impronte digitali» sentenziò.

    Un coro di meraviglia si sollevò dai banchi: c’era chi strizzava gli occhi per vedere meglio le formule scritte sulla lavagna, chi si aiutava con l’ausilio di un piccolo binocolo e chi si era alzato e chi con le mani dietro la schiena si stava avvicinando alla lavagna.

    «Ritenuto che un’impronta di tipo complesso può avere circa cento punti di riferimento, la mia formula stabilisce con certezza quanti punti di corrispondenza possono riscontrarsi nel confronto di impronte provenienti da persone diverse e qual è il numero delle corrispondenze necessarie per evitare possibili errori. Considerando che le particolarità più ricorrenti possono ridursi a quattro tipi – biforcazioni in alto e in basso, interruzioni verso l’alto e verso il basso – si può affermare che il numero delle varietà delle impronte, cioè, la casistica di esse secondo la disposizione dei punti che la natura può inserirvi, è uguale alla potenza che ha per base 4 – che sarebbe il numero delle varietà –, e per esponente 100 – ovvero il numero possibile dei punti; e insomma, tenendo conto di quanto ho appena esposto, si arriva alla formula che potete qui leggere».

    Poi fece un passo indietro, e con una bacchetta la indicava, recitandola a memoria:

    «A4 (100) – n = 1

    A (100) – 4n».

    In sala si era fatto silenzio.

    «Supponiamo - riprese Victor Balthazar - che due impronte presentino un numero n di corrispondenze. Bene, l’evenienza che appartengano a persone diverse ha le seguenti probabilità».

    Girò la lavagna, e con voce ferma, lesse:

    «2 corrispondenze possono trovarsi in 16 impronte;

    3 corrispondenze possono trovarsi in 64 impronte;

    4 corrispondenze possono trovarsi in 256 impronte;

    5 corrispondenze possono trovarsi in 1.024 impronte;

    6 corrispondenze possono trovarsi in 4.096 impronte;

    7 corrispondenze possono trovarsi in 16.384 impronte;       

    8 corrispondenze possono trovarsi in 65.536 impronte;       

    9 corrispondenze possono trovarsi in 262.144 impronte;

    10 corrispondenze possono trovarsi in 1.048.576 di impronte;

    11 corrispondenze possono trovarsi in 4.194.304 di impronte;

    12 corrispondenze possono trovarsi in 16.777.216 di impronte;

    13 corrispondenze possono trovarsi in 67.108.864 di impronte;

    14 corrispondenze possono trovarsi in 248.435.456 di impronte;

    15 corrispondenze possono trovarsi in 1.073.471.824 di impronte;

    16 corrispondenze possono trovarsi in 4.294.967.296 di impronte;

    17 corrispondenze possono trovarsi in 17.179.869.184 di impronte;

    18 corrispondenze possono trovarsi in 68.719.476.736 di impronte».

    Fece una pausa e si schiarì la voce, poi continuò:

    «Ne deriva che, anche se non abbiamo censimenti precisi sul numero esatto della popolazione mondiale, è escluso che due persone con 16-17 punti di corrispondenza accertata possano avere le medesime impronte digitali, sia per forma che posizione».

    E così dicendo, tracciò una grossa U sulla lavagna, per poi concludere:

    «Ecco dimostrata scientificamente l’unicità assoluta delle impronte digitali di ogni individuo».

    A questo punto, con un tocco quasi teatrale, provato dalla sua arringa dimostrativa e ansioso di vedere le reazioni dei suoi colleghi, Victor Balthazard prese dal tavolo un bicchiere colmo d’acqua preventivamente versato, e lo bevve con calma, tremando per l’agitazione e per l’imminente reazione che, lo sapeva, non avrebbe tardato. E infatti non tardò. Ma, diversamente da quanto si aspettava, non partirono gli applausi né ci fu alcuna acclamazione. Piuttosto, regnò sovrano per dieci, quindici secondi, il silenzio; almeno fin quando il profesore Poincarè non parlò:

    «Professor Balthazard, come può dimostrare scientificamente la validità di questa teoria, è assurdo! Lei non ha test o statistiche a sufficienza per avvalorare questa tesi: lo studio della dattiloscopia è troppo giovane e non ci sono cartellini segnaletici archiviati nel mondo, neanche per arrivare alla metà dei suoi calcoli esponenziali!».

    Poi, rivolgendosi ai presenti, quasi fosse un pubblico ministero in un’aula di tribunale, il professor Poincarè continuò:

    «Come può pensare di voler pubblicare, con il nostro benestare, questa non fondata teoria? Lei metterà alla berlina il buon nome di questo istituto!».

    Gli animi si accesero: chi era seduto si alzò in piedi e chi era in piedi prese a camminare. Alcuni si misero a ricopiare le formule scritte, quasi a volerle ricalcolare, mentre qualcuno urlava che no, quella del professor Balthazard era una scoperta di eccezionale valore. E poi c’era il Professor Eistein, il quale, rimasto comodamente seduto, controllava se il suo orologio da panciotto funzionasse ancora, portandoselo all’orecchio per verificarne il ticchettìo.

    «Signori, signori, calmatevi!» proruppe una voce elegante e autoritaria. «Vi prego, basta… accomodatevi, vi prego».

    A parlare era Maria Sklodowska Curie.

    «Professori, non mi sembra il modo adeguato di accogliere una nuova teoria! Sono sicura che il professor Balthazard avrà verificato tutte le possibili varianti logaritmiche prima di venire ad enunciare le sue conclusioni. Dobbiamo avere fiducia in lui: certe volte la scienza deve riuscire a proiettarsi nel futuro per permettere lo sviluppo cognitivo del genere umano. Se non apriamo le nostre menti a questo nuovo secolo, rimarremo sempre ancorati a quello vecchio, e se non ci fossero persone come il professor Balthazard, che con le sue intuizioni azzarda ipotesi nuove, in questi anni non avremmo avuto meraviglie tecniche e innovative come il primo volo del dirigibile Zeppelin o la nostra Torre Eiffel. Proprio in questi giorni ho letto su un giornale che è in costruzione uno dei transatlantici più grandi e inaffondabili che si siano mai costruiti… mi sembra che lo vogliano chiamare Titanic. Ma senza andare troppo lontano, abbiamo qui il giovane e brillante Professor Albert Eistein, che proprio in questi giorni ha presentato la teoria sul coefficiente di attenuazione alle fluttuazioni di densità in un gas, come tra l’altro anche il mio trattato sulla radioattività, con il quale spero di ricevere altri riconoscimenti da dedicare al mio defunto marito. Ecco, gentili signori, diamo fiducia al nostro collega: forse fra cento anni questa sua teoria avrà un seguito. Forse sarà smentita, forse verranno scoperte altre forme di identificazione diverse da quelle antropometriche e dattiloscopiche, forse la razza umana si estinguerà, ma fino ad allora dobbiamo accrescere con tutte le nostre forze la conoscenza per dare un domani migliore ai nostri figli, e questa sete di conoscenza non bisogna contrastarla a priori, ma piuttosto aiutarla, amplificarla, certe volte correggerla, ma mai denigrarla o ridicolizzarla, questo mai. Bisogna avere fede. Fede nella Scienza».

    «Grazie Manya» replicò Victor, rivolgendosi alla collega con il nomignolo con cui la chiamavano le persone più intime. «Sono sicuro che da lassù - e indicò il soffitto con un dito - il nostro compianto professor Pierre Curie è fiero di voi per le bellissime parole, per i vostri passati, e spero futuri successi...».

    Il ricordo della recente scomparsa del marito di Maria Sklodowska Curie, avvenuta qualche anno prima sotto le ruote di una carrozza impazzita nelle buie strade parigine nella trafficata Rue Dauphine – ragione per cui Victor Balthazard preferiva spostarsi in bicicletta – fece rattristare e allo stesso tempo imbarazzare tutta la sala, visti i recenti pettegolezzi su una presunta relazione tra lei e il collega lì presente Paul Langevine, sposato con figli, ma innamorato da sempre della bella Marie.

    Accortosi dell’involontario clima di tensione che aveva provocato nel nominare davanti a tutti il defunto Pierre Curie, Victor cercò di cambiare argomento, e rivolgendosi all’unico professore che non conosceva, chiese:

    «Professor Einstein, lei che è un giovane scienziato come me e quindi aperto alle ipotesi più innovative, cosa ne pensa della mia teoria?».

    Dopo un lungo minuto di attesa, Einstein si alzò, rimise l’orologio nel taschino, si avvicinò alla finestra più illuminata della Sala Jacques, e con le braccia dietro la schiena, guardando fuori, rispose:

    «Caro professore Balthazard, il processo di una scoperta scientifica è, in effetti, un continuo conflitto delle meraviglie». E poi, sempre dando le spalle ai presenti, aggiunse: «Certe volte è più facile spezzare un atomo che un pregiudizio. Se dovessi rinascere, farei l’orologiaio».

    Italia - A1 Milano - Napoli

    Area di servizio La Macchia Est

    9 gennaio 2012

    Lo svegliò una frenata, urtò contro qualcosa o qualcuno, sotto di lui sentì stridere in maniera sconnessa le ruote sull’asfalto. La prima cosa che percepì fu un fortissimo odore di urina stagnata, quasi a pungergli le narici. Forse se l’era fatta addosso, e infatti era bagnato, ma anche prima lo era, o forse non era stato lui. Poi il formicolìo alle gambe, alle braccia, il collo che gli faceva male, la schiena dolorante per la posizione: quanto tempo era trascorso?

    Ora erano fermi e non faceva più freddo, e mancava l’aria, che altrimenti entrava attraverso i mal legati teloni laterali del rimorchio. Esplorò il buio intorno in cerca delle altre piccole luci bianche che si aprivano e chiudevano ritmicamente, a coppie di due. Le trovò e le fissò a lungo in cerca di conforto.

    La sosta stava durando troppo: la ragione non poteva essere né un semaforo né un casello autostradale.

    Poi qualcuno sillabò un tremante: «Po-li-ce!», e in lui la paura si confuse con la speranza, anche se di speranza ne aveva avuta fino a morire, senza ottenere alcun risultato.

    Doveva restare calmo, aspettare gli eventi, e mentre aspettava, pensava a tutto quello che gli era accaduto. Non sapeva se poteva ritenersi fortunato. Però, in fondo, se stava lì, significava che forse c’era ancora una speranza.

    Un clangore improvviso lo fece sussultare.

    Qualcuno era salito sul rimorchio.

    Ne sentiva la voce e il tramestìo.

    Poi un fascio di luce s’insinuò tra le fessure delle assi, e alora Alex cominciò a rigirarsi il ciondolo che aveva al collo, sfregando il piccolo cerchio di pelle tra il pollice e l’indice. A testa bassa.

    Città di Torino

    9 Settembre 2010

    Capitolo 1

    «Mamma!Mammaaa!» urlava nel buio della stanza.

    Buio, era troppo buio, e Alex aveva paura.

    Si era svegliato di soprassalto perché aveva sognato la faccia di un ragazzo tutto nero, con gli occhi rossi da diavolo, i denti aguzzi da vampiro e il sangue che gocciolava senza sosta, vestito di scuro con un grande cappuccio che gli scendeva sulle spalle.

    «Mamma, mamma», insisteva. Non aveva il coraggio di scendere, se ne stava nascosto sotto le coperte fino ai piedi del letto. «Mammaaa…» Ma non rispondeva nessuno.

    Alex cominciò a tremare per la paura, ma aveva anche freddo sotto quel copri lenzuolo troppo leggero per un settembre che sembrava già autunno inoltrato.

    Doveva farsi coraggio e riuscire a scendere dal letto per andare ad accendere la luce; poi, sarebbe corso dentro il letto di mamma e papà.

    Il vento incessante che soffiava fuori e lo scricchiolio delle imposte di legno, stridenti tra di loro, amplificava l’effetto castello dei vampiri. Per fortuna, il rumore delle macchine che ogni tanto passavano sotto casa, udibile nonostante l’appartamento fosse al quarto piano, lo riportava alla realtà.

    Forse sono morti, pensava Alex, è stato il vampiro, lo sapevo che non era un sogno.

    Doveva raccogliere tutte le sue energie per riuscire ad alzarsi ed accendere la luce.

    Doveva farlo, la camera da letto dei suoi genitori era troppo lontana per andare fin lì al buio.

    Tre, due, uno! E fece volare le lenzuola alzandosi di scatto.

    Come punto di riferimento aveva tre stelline fosforescenti attaccate sopra l’interruttore che si sarebbero dovute vedere al buio: sapeva benissimo che c’erano, le aveva attaccate lui stesso, una ad una, ma adesso sembravano essere state inghiottite dall’oscurità. Con le braccia tese e i pugni serrati, girò piano la testa per trovare quelle maledette stellette trovate nei biscotti, ma niente: non c’erano.

    Ecco, lo sapevo che non era un sogno, continuava a ripetersi. Mamma e papà non rispondono, le stelle fosforescenti non ci sono e adesso sono fuori dal letto, al buio.

    Le immagini del vampiro nero gli si proiettavano davanti come in un film dell’orrore, e Alex, come paralizzato, si ritrovò al centro della stanza buia aspettandosi da un momento all’altro l’agguato del demone.

    Un rumore fortissimo gli fece sobbalzare il petto.

    Proveniva dalla strada.

    Assomigliava al rumore del camion dell’immondizia quando solleva il secchione per riversare le buste nel compattatore.

    Non ce la faceva più.

    «Sanno benissimo che devono lasciare la luce accesa e me la spengono sempre, domani compro dei fari da stadio, li metto in camera e l’interruttore lo comando io, così la prossima volta vedremo chi avrà paura».

    Ma la situazione era critica in quel momento e non domani, ed era solo.

    Alzò le spalle così in alto che si sarebbe potuto quasi tappare le orecchie. Avrebbe voluto tapparsele con le mani, ma non riusciva a piegare le braccia perché irrigidite, un pò dal freddo e molto dal terrore che venisse morso alle spalle.

    Alex aveva una fifa irrazionale dei botti, per non parlare di quello provocato dallo scoppio dei palloncini; era la sua fobia da sempre. Non ricordava esattamente da quando: forse dalla volta in cui un compagnetto gli aveva fatto scoppiare un palloncino in faccia, o forse da quando era scoppiato a lui tra le mani. Ma in verità non gliene fregava niente, sapeva soltanto che ne aveva un terrore cieco. Ed in quel momento lo sentì fortissimo; al momento sbagliato, nel posto sbagliato, e con la luce sbagliata. Uno scoppio secco, acuto, gli entrò nelle orecchie, gli scese per la gola e gli arrivò nel petto, e poi una presa angosciante parve mordergli il cuore.

    Se non lo uccideva il vampiro, sarebbe morto per un infarto.

    Il pezzo di sotto del pigiama caldo e umido contrastava con la frescura della stanza.

    Prima di rimanerci secco, fece un ultimo, disperato tentativo.

    «Mamma, papà, mammaaaa!!!».

    Sentì il rumore di una porta che si apriva e poi quello di piccoli, deboli e ravvicinati passi.

    Click.

    Finalmente la luce.

    Città di Torino

    Il primo giorno di scuola

    Capitolo 2

    Le strade, spazzate dal continuo passare delle macchine, erano pulite e sgombere dalle prime foglie di un autunno anticipato. I nuovi libri scolastici, della collana Magicamente insieme della terza elementare, erano tutti nel nuovo zaino di Ben 10 Forza Aliena.

    La merenda era nel solito cestino di Ben Ten prima serie, e un leggero giacchetto verde copriva il grembiule blu con il colletto bianco inamidato che Alex odiava tanto.

    «Mamma…. - disse sbattendo la portiera - ti posso chiedere una cosa?», ed entrò in macchina con lo zaino ancora sulle spalle.

    «Dimmi tesoro…». Erano già le 8:00 passate e mancavano solo dieci minuti all’entrata.

    «Ieri notte...beh, ecco...» Alex si fece coraggio, provava un po’ di vergogna.

    «Ieri notte è successo quello che è successo perché avevo sognato un vampiro. Era tutto nero. Assomigliava ai Mangiamorte di Harry Potter e mi voleva succhiare il sangue. Poi mi sono alzato, vi ho chiamato, era tutto buio, ma voi non mi avete sentito! Perché non siete venuti subito?», e con uno sguardo inquisitorio si levò finalmente lo zaino di Ben Ten, buttandolo tra i sedili posteriori.

    «Era solo un sogno, un brutto sogno. Forse eri agitato per il primo giorno di scuola. Rivedere i compagni, iniziare nuovamente i compiti, rispettare gli orari e le regole, restare seduti dietro ad un banco per ore: forse tutte queste cose ti hanno fatto fare quel brutto sogno. Non ci pensare, è passata».

    «Sembrava reale, mamma, e poi voi non venivate, io vi chiamavo, ma voi niente».

    «Amore, era solo un incubo, non devi aver paura. Ci sono anche sogni bellissimi, chissà quanti ne avrai fatti e quanti ne farai…», e mise in moto la sua nuova Fiat 500 color bianco opaco.

    Inserì la prima, uscì dal parcheggio e, attraversata Piazza Statuto, si diresse verso Corso Palestro. Dopo aver svoltato a destra in Via Cernaia, imboccò a sinistra Corso Vinzaglio, nel completo e imbarazzante silenzio.

    Era usanza passare sotto la Questura della Polizia e salutare l’ufficio di papà con un ciao papà, buon lavoro.

    Alex fece anche il loro saluto segreto: il saluto vulcaniano alla Spock, visto nella serie tv di Star Treck. Non era semplice, ci voleva allenamento. Si doveva formare uno spazio a forma di V con le dita, unendo l’indice, il medio e l’anulare con il mignolo, e ripiegando il pollice sul palmo.

    Quello era il saluto segreto tra padre e figlio, una cosa sacra.

    Lo facevano per darsi il buongiorno, prima di andare a dormire, per sancire gli sguardi di complicità, per fare pace o come segno di semplice affetto, e nessuno glielo avrebbe tolto o fatto scordare mai, neanche fra cento anni.

    Ogni tanto Cristina distoglieva gli occhi dalla strada per sbirciare il figlio. Non voleva ammetterlo con se stessa, ma era un po’ preoccupata e si sentiva in colpa. Era da molto tempo che Alex non si faceva la pipì sotto: doveva essere successo qualcosa che lo aveva impaurito molto, e lei doveva rassicurarlo.

    «A proposito, Alex, sai che la puzza di pipì è un deterrente per i vampiri, come l’aglio e le croci?».

    Alex si voltò a guardare la madre.

    «Io sono una psicologa, è il mio lavoro e ti assicuro che farsi la pipì di notte alla tua età è normale, basta che la fai fuori dal letto così non cambio le lenzuola...».

    «Io vi chiamavo, ma voi non siete venuti subito. Dovevo fare la pipì e non trovavo la porta del bagno perché era tutto buio. E insomma, per dispetto me la sono fatta sotto, così la prossima volta imparate a non spegnere la luce!».

    Poi, raddrizzando la schiena, aggiunse:

    «Non era certo per la paura dei vampiri o del buio e gné gné gné», e, incrociate le braccia, inarcò le sopracciglia cercando di fare il duro.

    «E poi ho giocato mille volte a quel gioco di Harry Potter alla Nintendo e non me lo sono mai sognato! Siete voi che non siete venuti subito perché non ve ne importa niente di me!». E puntò lo sguardo sul cruscotto lucente senza muovere un solo muscolo.

    Cristina si voltò di scatto verso il figlio, cambiò marcia e rispose con fermezza:

    «Lo vuoi davvero sapere cos’è successo? È stato quel maledetto Nintendo Ds con quei giochi pieni di violenza e sangue. Lo avrò ripetuto mille volte a tuo padre che non ti doveva… cioè, gli avevo detto che forse sarebbe stato meglio farti portare un altro regalo da Babbo Natale; non so: un paio di pattini, una bicicletta magari. Ma lui mi ha risposto che nemmeno un poliziotto può avere la meglio con Babbo Natale. Non abbiamo neanche le sue impronte digitali, mi ha detto...».

    Ad Alex sfuggì un sorriso e tributò un saluto vulcanico al padre. Se l’era meritato.

    «Quest’anno - continuò la madre - chiedi a Babbo Natale di portarti una bella bicicletta rossa, così non passerai tutti i pomeriggi a smanettare con quel coso che ti fa venire gli incubi».

    «Veramente, per il prossimo Natale volevo chiedergli la Wii», e unì i palmi delle mani come se stesse pregando, ma al contempo inarcò un sopracciglio.

    «Sì, ci manca soltanto la Wii adesso, così andiamo tutti al manicomio» rispose la madre, e inserì la marcia con fare nervoso, non tanto per la richiesta, ma per la spesa che avrebbero dovuto affrontare o la delusione se non avessero potuto permettersela.

    «E se poi finisco al manicomio, mamma!» ribatté Alex, «poi mi aggiusti te, vero ? È il tuo lavoro no?».

    «Si dice ti curo, signorino, non ti aggiusto», lo corresse. Poi lo guardò teneramente e gli scapigliò i capelli.

    «Sì, va be’… ti curo, ti aggiusto, l’importante è che Babbo Natale mi porta la Wii. Ce l’hanno tutti i miei compagni».

    «Vedremo, ma dovrai prendere tutti 10 a scuola fino a Natale».

    «Vedremo», la sfidò Alex.

    Erano arrivati davanti alla scuola Emilio Salgari.

    Cristina si fermò in doppia fila, e senza scendere dalla macchina, allungò un braccio per recuperare lo zaino del figlio.

    «Ora vai - gli disse - e fai il bravo».

    Alex annuì, le diede un bacio e scese dalla macchina.

    Guardò a destra e a sinistra per attraversare, poi ci ripensò e tornò indietro. Infilò la mano in una tasca del giacchetto e tirò fuori un foglio di carta. Picchiettò sul finestrino.

    «Mamma, questo l’ho fatto per te, ti voglio bene».

    Poi, senza aspettare la risposta della madre, attraversò la strada per perdersi tra la folla del cortile.

    Cristina aprì il foglio. Era un disegno a colori pastello: c’erano due bambini che si davano la mano, e accanto a loro, ai due lati, due figure più grandi. Nel cielo azzurro, riluceva un grande sole con i raggi, mentre pecore simili a elefanti brucavano l’erba tra gli alberi. Un lungo fiume scendeva da picchi di montagne verdi e gialle.

    Cristina era interdetta. Alex aveva disegnato la sua famiglia: lei, per esempio, era quella a sinistra. C’erano i capelli che non lasciavano dubbi di sorta: erano lunghi e biondi, e le labbra erano impiastricciate di rosso. Il rossetto. Anche se lei il rossetto non se lo metteva quasi mai; mentre quello a destra era suo marito. Irriconoscibile, certo. E poi c’era lui, Alex. Ma l’altro bambino aveva un punto interrogativo al posto della testa.

    Non vorrà mica un fratellino!

    Regione di Kaolack. Senegambia

     Il cerchio

    Capitolo 3

    Amadou girava e rigirava la ruota arrugginita di un cerchione di bicicletta. Con un pezzo di ramo, faceva girare il cerchione nell’unica strada che divide in due il villaggio.

    In quella lingua di terra che, fin dai tempi antichi, miliardi di passi avevano reso dura come l’asfalto, eleggendola così a strada principale, i suoi piedi si confondevano con la terra rossa mista a sabbia.

    Era il suo gioco preferito: far percorrere alla ruota, nel minor tempo possibile e senza farla cadere, la distanza dalla sua capanna fino ai cinque alberi.

    Grazie alla costante presenza dell’ombra, i cinque alberi avevano rappresentato da sempre un luogo di ritrovo per la gente del villaggio, ottimale per mantenere e sviluppare il senso di comunità, e tramandare attraverso storie e canzoni, le vecchie leggi, la lingua e le tradizioni del loro gruppo etnico: il Wolof.

    I cinque alberi erano situati appena fuori dal mucchio di capanne, ed erano alberi di Karitè alti quindici metri, cresciuti, forse, grazie a un affluente sotterraneo che per un certo periodo di tempo doveva essere passato nel sottosuolo.

    Nonostante la crescente desertificazione avvolgesse tutta la regione, mangiando di anno in anno la savana, i cinque alberi di Karitè avevano ancora le foglie verdi. Forse le radici affondavano fino all’unico e sempre più prosciugato pozzo del villaggio, che si trovava proprio nel mezzo di quella scuola improvvisata, o forse, nonostante non si sprecasse neanche una goccia d’acqua quando si riempivano le taniche da dieci litri sotto le loro fronde, sentivano e si alimentavano di quell’unica fonte.

    Gli antenati avevano delimitato i cinque alberi con grossolani mattoni di fango e sterco di mucca essiccato e, a sua volta, protetto il muro con una recinzione di rovi appuntiti che giungeva fino all’altezza del capo villaggio dell’epoca, per impedire ai leoni, ai ghepardi o alle antilopi, in cerca di cibo e acqua, di scavalcarlo. E quando si parla di cibo, si include anche la carne umana.

    L’altezza dei rovi non poteva superare l’altezza del capo villaggio, perché nessun animale della savana salterebbe più in alto del suo sguardo: questa era una credenza tramandata dagli antenati e giunta fino a oggi, se è vero che quell’altezza

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