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Complotto in riva d'Arno
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E-book297 pagine4 ore

Complotto in riva d'Arno

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Info su questo ebook

Con una sorprendente commistione fra thriller storico e romanzo giallo, Parigi e Sozzi propongono una storia che ha davvero dell'eccezionale, i cui fili si dipanano fra il Seicento e i primi del Novecento. Nella Firenze del 1904 il commissario Ulisse Bellandi e il vicecommissario Alessandro Nocentini indagano rispettivamente sull'omicidio di una spia e di una marchesa. Ben presto, congiungendo le forze in una ricerca che si muove fra ambienti politici scottanti e salotti altolocati, i due si rendono conto che l'intera faccenda affonda inaspettatamente le radici in un evento remoto, avvenuto nel 1611, quando la nave medicea Tuscia era stata teatro, a sua volta, di un duplice omicidio. I territori del Granducato sembravano allora legarsi alla lontanissima Panama, così come gli eventi del 1611 si mostrano ora in contatto con quelli del 1904…
LinguaItaliano
Data di uscita1 dic 2022
ISBN9788728496978

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    Anteprima del libro

    Complotto in riva d'Arno - Riccardo Parigi

    Complotto in riva d'Arno

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 2022 Riccardo Parigi and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728496978

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    Questo libro è frutto della fantasia degli autori.

    Ogni riferimento a fatti, persone e luoghi è puramente casuale.

    A Marcello

    Ad Anna Maria e Siliano

    Personaggi principali

    Passato prossimo

    Ulisse Bellandi, commissario di polizia fiorentino

    Carla Bellandi, sua moglie

    Ada Galluppi, cugina di Carla

    Alessandro Nocentini, vicecommissario di polizia

    Alfredo Bini, Riboni, Costanzi, Bonanno, Torello, agenti di polizia

    Stefano Gandolfi, vicequestore

    Attilio Tortero, studioso seguace di Cesare Lombroso

    Italo Fissi, una ‘formica’

    Adelina Fissi e Gosto Mazzantini, sorella e cognato di Italo Fissi

    Spartaco Sensini, detto Mangano, caporione socialista

    Arthur Forbes, custode del Cimitero degli Inglesi di Firenze

    Adamo Alberti, tappezziere

    Ildebrando Borelli, aristocratico fiorentino

    Caterina Borelli, sua moglie

    Marialuisa Ghetti, sorella di Caterina

    Gina Quercioli, Lotario Lenzi, Remo Galli, domestici di casa Borelli

    Giuseppe Cardone, fattore al servizio dei Borelli

    Corrado Galli, ciabattino, zio di Remo

    Martini, detto Tacchino, responsabile della fabbrica dei Borelli

    Domenico Mariotti, ex muratore

    Antonio Salerno, medico

    Gino Luisi, medico

    Hans Diener, agente tedesco

    Gasperina Catalano, medium

    Giulio Crescenzo, suo marito

    Graziano Valleri, maresciallo dei carabinieri

    Donato Fabbri, maresciallo dei carabinieri

    Renato Pieri, responsabile della sezione politica della questura di Firenze

    Dottor Barrale, medico di Carrara

    Passato remoto

    Saverio Adinolfi, capo dei servizi segreti del Granducato di Toscana

    Giovanni Inghirami, comandante generale dell’Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano

    Silvestro Gambi, comandante del galeone Tuscia

    Belisario Vinta, segretario del granduca Cosimo II

    Lucio Bruni, nostromo della Tuscia

    Cecco Perrone, cuoco della Tuscia

    Giannetto Rizzi, aiutante di Perrone

    Pietro Costello, marinaio

    Julio Cortez, medico

    Antenore Reali, Giovanni Siracusano, Andrea Rapace, mercanti

    Padre Eliseo, padre Costanzo, frati agostiniani

    Ugo Talenti, studioso seguace di Galileo Galilei

    Neno, un indio

    Atikah, una schiava africana

    Richard Steiner, membro del ‘sodalizio’

    Heinrich Turm, orafo

    Raimondo Nordio, spia veneziana

    Manuel de Brito, un portoghese proprietario di imbarcazioni

    1

    Passato remoto

    Livorno, 19 maggio 1611

    Viviamo in un tempo di follia, di violenza estrema, bruciante. In qualità di responsabile del servizio di sicurezza del granduca Cosimo II di Toscana mi è giunto da poco un rapporto dalla Francia. È un dettagliato resoconto di un fatto sconvolgente, accaduto un anno fa, di cui ovviamente ero a conoscenza. Ma la descrizione contenuta in questi fogli aggiunge orrore a orrore. Si tratta della cronaca del supplizio inflitto a Ravaillac, il fanatico che il 14 maggio 1610 ha assassinato re Enrico IV in una stradina di Parigi, rue de la Ferronnerie.

    Sapevo naturalmente che il miserabile era stato condannato ad essere squartato dai cavalli, ma quello che è successo supera qualunque slancio di una fantasia perversa.

    Place de Grève, dove si è svolto il supplizio, era piena all’inverosimile: sulle teste dei presenti – secondo quanto afferma qualche testimone con scherno – si sarebbe potuto far rotolare una mela, come su un tavolo.

    L’esecuzione ha avuto tempi lunghi. I tendini di un uomo hanno una resistenza straordinaria e sono occorsi interminabili minuti, riempiti dalle urla spaventose del condannato, prima che gli animali portassero a compimento l’operazione e facessero a pezzi il corpo di Ravaillac.

    E subito si è scatenata la frenesia, l’orgia della brutalità. Una decina di cavalieri sono balzati giù dai loro destrieri e, sguainando le spade, hanno martoriato i resti del monarcomaco. Moltissime persone hanno avvolto nelle loro pezzuole brandelli del cadavere. Si dice addirittura che un legatore di libri, praticamente un invasato, abbia portato a casa dei pezzetti del disgraziato, li abbia fatti friggere e se li sia divorati.

    Questo succede oggi in Europa! Da quando l’Ercole teutonico, il fabbricatore delle 95 tesi, Martin Luther ha fatto esplodere lo scisma religioso, il nostro continente è sull’orlo dell’abisso. L’anno passato si sono formate in Germania due alleanze militari: la Lega Evangelica – foraggiata da Enrico IV, accusato per questo di tradimento dal folle Ravaillac –, che difende gli interessi dei protestanti luterani e calvinisti, e la Lega Cattolica – sostenuta dagli Asburgo di Spagna e dal duca di Baviera –, che vuole tenere alto il vessillo cattolico. In mezzo a tutto questo l’imperatore Rodolfo II di Asburgo. Molti lo considerano un pazzo che si fa raggirare da imbroglioni, presunti maghi, ciarlatani. Si dice che nel suo castello di Praga giungano astrologi e cerretani che millantano di essere alchimisti, di saper trasmutare i metalli vili in oro. Molti disprezzano la sua corte dicendo che è una sentina dove ha accolto personaggi equivoci come John Dee, Edward Kelly, Giordano Bruno. Altri gli rimproverano le spese folli per mettere insieme la Wunderkammer, il suo ‘museo delle meraviglie’ fatto di stranezze e orrori.

    In realtà, dalle numerose notizie e informative che mi giungono dalla Boemia, credo che Rodolfo sia uno dei pochi sovrani ancora assennati che si muovono in questo triste scenario europeo. Con molta concretezza tenta di evitare la guerra di religione, la sua Majestät Brief garantisce la libertà di culto alle varie professioni religiose nei territori dell’impero, ma soprattutto questo sovrano è alla ricerca di risorse per allargare il proprio esercito e fare da contrappeso ai propositi micidiali delle due leghe.

    Ho potuto vedere la riproduzione di un quadro del suo pittore preferito, Arcimboldo: l’artista raffigura l’imperatore, o meglio lo trasfigura, come una singolare divinità etrusca, Vertumno. Ebbene, quest’ultimo, per il popolo della Tuscia, rappresentava il ritmo segreto della natura, lo scorrere delle stagioni, l’intimo equilibrio dei meccanismi della Terra. Credo che Rodolfo aspiri proprio a mantenere in vita questi valori: egli intende opporsi al fanatismo, alla violenza dissennata, alle diatribe dogmatiche, facendo appello all’armonia degli elementi naturali, che è anche una armonia di contrasti.

    Ma per attuare belle concezioni filosofiche, non bastano le parole e le opere di pittori geniali. In questo momento sono necessarie forze adeguate: picche, alabarde, moschetti, artiglieria, bombarde. Ci vuole la forza degli eserciti per imporre intanto un progetto di pace concreta. Ci vuole l’oro per arruolare soldati che costituiscano un buon deterrente. E a causa di questo oro sono stato coinvolto dalle più alte cariche del Granducato in un’impresa che mi fa tremare le vene e i polsi.

    Ho varcato la soglia di palazzo Vecchio a Firenze pieno di dubbi. Nel cosiddetto Studiolo di Francesco I mi attendevano il segretario del granduca, Belisario Vinta, e il più illustre dei cortigiani dei Medici: Galileo Galilei.

    Galileo è un personaggio davvero notevole, in possesso di un carisma del tutto particolare. Lo conosco ormai da mesi e non posso fare a meno di apprezzarlo. È quanto di più lontano si possa immaginare dalla figura del professore borioso e supponente che pullula a corte o negli studia universitari (ne ho conosciuta di gente di quella risma negli anni passati!). Mantiene nel carattere qualcosa di distaccato, quasi di fanciullesco, e nel contempo sa scherzare, anzi, se è il caso, seppellisce i più contegnosi sotto una raffica di battute taglienti. E poi la sua cultura, mai ostentata con pesantezza, diviene lo strumento duttile di tanti suoi ragionamenti, sia che parli di letteratura, degli amati Petrarca, Dante, Ariosto (che cita con prodigiosa memoria), sia che esemplifichi i princìpi della ‘nuova scienza’, le idee sull’Universo, le scoperte effettuate col cannocchiale.

    E proprio grazie all’instancabile investigazione del cosmo, all’individuazione di nuovi pianeti, all’osservazione strabiliante della Luna, ovvero grazie a tutto ciò che è confluito nel suo Sidereus Nuncius, nel 1610 Galileo è stato nominato dal granduca Matematico e Filosofo di Corte, senza l’obbligo di svolgere lezioni allo Studio di Pisa. È il cortigiano meglio remunerato, con un appannaggio di oltre mille scudi l’anno, e tutti dovrebbero esserne ammirati e felici, mentre ovviamente è fatto oggetto di livide invidie da parte di tanti rivali.

    Ho indugiato a parlare di Galileo perché penso che, sia pure indirettamente, abbia un peso decisivo sulla mia storia: attribuisco un enorme valore ai suoi consigli, ai suoi promemoria venati di ironia, ai suoi schemi e alle sue mappe sotto certi aspetti illuminanti.

    Anche Vinta mostrava un’evidente considerazione per lo scienziato. Gli ha rivolto uno sguardo intenso prima di dirmi nello Studiolo: «Mettetevi a sedere, capitano Adinolfi. Conoscete naturalmente Galilei che, al momento opportuno, vi darà sostanziosi ragguagli. Intanto vi riferisco decisioni importantissime prese dal nostro granduca, decisioni che vi riguardano e che ovviamente non potete discutere.»

    Quindi ha riassunto in modo succinto ed efficace il quadro della situazione europea, la delicata, cruciale posizione di Rodolfo II. «Cosimo» ha spiegato Vinta «intende sostenere in tutti i modi l’imperatore. Se le due leghe prendono il sopravvento sarà il disastro; si profila una guerra che potrebbe trasformarsi in una gigantesca reazione a catena, coinvolgendo l’Olanda e magari la Danimarca, la Svezia. Ma il conflitto divamperebbe anche in Italia. E sa bene, capitano, che il nostro piccolo Stato è stretto tra i due colossi della Spagna e della Francia: rimarrebbe stritolato in questa contesa.»

    Vinta ha fatto una pausa eloquente ricevendo un assenso da Galileo che sedeva in una savonarola, vicino al grande quadro di Eleonora da Toledo del Bronzino. Poi ha ripreso: «Rodolfo ha bisogno di risorse, di oro. E una grande quantità di oro è ammassata in America, presso Panama. Combattenti coraggiosi, legati ai nostri cavalieri di Santo Stefano, hanno, diciamo, sottratto, per una giustissima causa, interi carichi di metallo prezioso a galeoni che battono quelle rotte.»

    Ho tradotto mentalmente l’abile discorso di Vinta: ‘Pirati di varia nazionalità, addestrati e foraggiati dal nostro ufficiale Inghirami, avevano sistematicamente assalito navi spagnole provenienti da Lima… La politica è anche questo.’ Poi ho ripreso a seguire le argomentazioni del segretario: «L’oro è ben nascosto, va riportato in Europa, a Livorno; le nostre banche penseranno a fare le opportune transazioni in favore di Rodolfo. Ma qui entrate in scena voi, capitano Saverio Adinolfi.»

    Un rivolo di sudore mi è corso lungo la spina dorsale, già intuivo quello che si annunciava, e infatti Vinta ha proseguito: «Spetta a voi recuperare il carico di metallo prezioso e ricondurlo qua, al sicuro. Partirete da Livorno, fingendovi un mercante di schiavi. Farete tappa a Capo Verde, poi a Porto Bello, in America, e da lì raggiungerete Panama. Qui ci sarà da prendere possesso di quanto abbiamo detto, imbarcarlo e, evitando i controlli spagnoli, giungere di nuovo a destinazione.»

    Ho avuto quasi un attacco di vertigine a pensare all’impresa che mi si parava davanti. Sarei stato all’altezza? Come avrei fatto a risolvere certe difficoltà che sembravano insormontabili?

    Vinta non ha minimamente considerato il mio stato d’animo che doveva trasparire dall’espressione del volto, ed è andato avanti imperterrito: «Riceverete lettere di credito spendibili ovunque; documenti che apriranno molte porte. Abbiamo ovviamente quinte colonne e uomini di assoluta fiducia che usciranno fuori al momento opportuno e che vi saranno d’aiuto. Ma il compito di affrontare l’impresa, di risolvere gli imprevisti e i pericoli spetta solo a voi, capitano. Lasciando Livorno viaggerete insieme a un giovane e valente scienziato, Ugo Talenti, di cui vi parlerà Galileo. Ci saranno a bordo anche due religiosi, agostiniani che si recano nel Vicereame. E naturalmente altri agenti di compagnie toscane che commerciano sfruttando la schiavitù. Qui, in questo promemoria,» e ha indicato sulla scrivania un grosso manoscritto «ci sono indicazioni dettagliatissime sul viaggio. Studiatele e poi fatele scomparire. Ripeto, voi sarete un tranquillo commerciante di schiavi neri in viaggio verso il Nuovo Mondo.»

    Si è rivolto quindi a Galileo invitandolo a prendere la parola. Lo scienziato mi ha sorriso (ed era un sorriso di complicità, ma forse anche un po’ di compatimento) ed ha attaccato a parlare col suo modo chiaro ed affabile: «Non intendo caricarvi di ulteriori ansie, capitano. Vi dico soltanto che Ugo Talenti è un bravo, giovane scienziato che si è fatto valere all’università di Bologna. Potrà esservi di ausilio in molte occasioni. Si mette in viaggio anche per un motivo preciso: vuole prendere contatti con un gruppo di sapienti che operano nelle varie branche del sapere nel Nuovo Mondo, in un villaggio nei pressi di Cartagena, sul mar dei Caraibi, non lontano da Panama.»

    «Chi sono, gli scienziati dell’Atlantide di Platone?» ho cercato di scherzare.

    «No» ha ribattuto Galileo. «Gente che tenta di ricavare frutti proficui dall’analisi del mondo naturale. E pare che abbiano ottenuto grandi risultati. Ma di questo discorrerete con Talenti, il quale ovviamente non conosce la vostra vera missione. Toccherà a voi decidere se e quando metterlo a parte dell’impresa. Per quanto mi riguarda, sollecitato dal cavalier Vinta, ho preparato una documentazione. È in questa borsa di cuoio. Sono umilissimi consigli, informazioni scientifiche, osservazioni sui problemi che dovrete fronteggiare. Niente di risolutivo: tutto è legato alla vostra presenza di spirito, al vostro estro, al vostro coraggio. Ma vi conosco abbastanza e sono certo che, appunto, ve la caverete egregiamente.»

    Ero quasi commosso, sono rimasto in silenzio per qualche attimo quindi ho chiesto a Belisario Vinta: «Tra quando devo partire?»

    «Tra quattro giorni. E dovete venire a capo dell’intera faccenda nel giro di pochissimi mesi.»

    Spagna, porto di Siviglia, 30 maggio 1611

    Sono partito da Livorno il 23 maggio, di lunedì, imbarcandomi su un galeone che la marina granducale ha acquistato qualche mese fa da un genovese, un certo Paolo Vassallo, e rinominato Tuscia.

    Naturalmente le giornate precedenti le ho riservate a lunghi colloqui con Inghirami, l’autentico spiritus rector di questa città di mare fortificata, il comandante riconosciuto dell’Ordine di Santo Stefano, l’astuto persecutore della pirateria islamica. E soprattutto l’ideatore di questa ‘operazione’. Mi ha detto di attenermi alle indicazioni contenute nei documenti di Vinta e di Galileo, confortandomi sul fatto che potrò trovare, al momento opportuno, persone e spie votate alla mia stessa causa. Ha anche fatto riferimento, col suo linguaggio scarno e militaresco, all’equipaggio della nave: «Il comandante Silvestro Gambi è un uomo duro, inflessibile ma tiene sempre in pugno la situazione, ha un’esperienza di mare vastissima. Ti sarà sicuramente di aiuto. Del resto è l’unico che sa della tua vera missione. Potrai fare affidamento su di lui. Tu assumerai l’identità di Andrea Rapace, mercante fiorentino. In casi estremi potrai imporre al comandante le tue esigenze, se sono ovviamente strettamente legate alla missione. Anche il nostromo Bruni è persona coscienziosa ed è reduce da lunghi, difficili viaggi. Ho assunto pure dei carpentieri e degli artigiani che potranno tornarti utili. In quanto alla ciurma, l’ho selezionata personalmente: non avrai tra i piedi delinquenti liberati dalla prigione per essere imbarcati e svolgere i lavori più duri. Sono tutti marinai che dovrebbero comportarsi bene, compiere il proprio dovere. Dovrebbero… perché, come ben sai, su una nave si concentrano spesso grandi tensioni, simili a perturbazioni che in pochi attimi possono trasformarsi in tempesta. Per cui può accadere di tutto, ma confido nella disciplina ferrea di Gambi.»

    «E gli altri tre che saranno miei compagni di viaggio? Gli agenti delle compagnie?»

    «Di Talenti ti ha parlato Galileo, no?» ha tagliato corto Inghirami. «Gli altri commercianti servono a rendere più credibili le ragioni del viaggio. Non ti daranno fastidio: ho parlato con ciascuno di loro e gli ho detto di lasciarti in pace, che hai perso di recente la moglie e una figlia, e che hai una protezione speciale da parte mia poiché siamo parenti alla lontana. In quanto a padre Eliseo e al giovane padre Costanzo, devono avere un bel fegato per intraprendere un viaggio che li porterà a Lima.»

    «O magari hanno fede» ho specificato.

    «Mah, fegato, coraggio… fede… Forse sono la stessa cosa» ha concluso il mio amico assai poco versato nella teologia ma grande spirito pratico.

    La prima parte del viaggio è stata tranquilla, con un vento favorevole che ci ha aiutati a coprire in pochi giorni la rotta verso ovest, sino al porto di Siviglia. Non è stato necessario fare ricorso ai remi sensili.

    Molti dei colleghi mercanti si sono mostrati estremamente discreti e di poche parole, forse per il discorso piuttosto brusco che doveva avergli fatto Inghirami prima della partenza, esortandoli a lasciarmi in pace. Gli unici a intrattenersi talvolta con me sono stati Giovanni Siracusano, un commerciante di origini ebree che vive a Livorno, e Antenore Reali, un tipo grande e grosso, piuttosto estroverso, in possesso di una compagnia a Pisa.

    Talenti si è rivelato invece un giovane simpatico, dalla straordinaria cultura, con cui ho conversato piacevolmente; nel giro di pochissimo tempo abbiamo iniziato a darci del tu.

    Assai più riservati i due agostiniani: l’anziano padre Eliseo, dotato di un fisico robusto e di una notevole gagliardia, e il pacioso padre Costanzo, piuttosto basso, pingue, col doppio mento e dall’aria perpetuamente spaesata e intimorita.

    Eliseo mi ha accennato alla loro missione, alla volontà di dare un piccolissimo contributo alla diffusione della Parola di Dio presso i selvaggi del Perù: «Noi agostiniani abbiamo più di centottanta conventi sparsi in tutta Europa, ma ne stiamo fondando un buon numero anche nel Nuovo Mondo.» Poi con orgoglio ha continuato esaltando la regola del suo ordine: «Castità, preghiera, obbedienza, povertà e spirito evangelico da portare anche negli estremi lidi. La povertà rappresentata dal saio nero, l’obbedienza ai superiori simboleggiata da questa cintura di cuoio che ci cinge i fianchi. Fu la madre stessa di Agostino, santa Monica, a imporla agli adepti del figlio.»

    «Ah, non lo sapevo» gli ho detto. Avevo letto comunque del fervore, dell’attenzione zelante, dell’impegno continuo profusi da Monica per fare emergere, in tutta la sua caratura, la personalità di Agostino. E devo dire che ho sempre ringraziato il cielo di avere avuto come madre una donna equilibrata e di buonsenso piuttosto che una personalità straripante, seppur venerabile e pia, come la santa genitrice del vescovo di Ippona.

    Padre Costanzo parlava pochissimo. Sempre impacciato e schifiltoso, non riusciva ad abituarsi al fatto che il suo pagliericcio, che si trovava nei cubicoli del castello di poppa, fosse invaso da pidocchi e cimici. Naturalmente in breve è divenuto lo zimbello di gran parte della ciurma e vittima di qualche scherzo. Uno di questi ha avuto effetti drammatici.

    Ma intanto devo ricordare che quando siamo arrivati in prossimità di Valencia il tempo è peggiorato e si è scatenata una brutta tempesta (anche se, per fortuna, non terribile), con flutti così violenti da far ballare la grande imbarcazione. Io ho resistito abbastanza bene, benché non abbia avuto lunghe esperienze di navigazione. Ma Talenti, Eliseo e soprattutto Costanzo hanno vomitato anche la loro anima eterna. Eliseo, a un certo momento, mi ha implorato di andare nel suo piccolo alloggio a cercare in un baule una polverina che i suoi confratelli gli avevano consigliato come potente antiemetico. Mi sono precipitato nel cubicolo e ho rovistato nella cassa di legno: in mezzo alla poca biancheria, a un messale, due Bibbie, un crocifisso di legno e uno d’avorio, un paio di sai e cinture ho finalmente trovato una scatolina contenente delle erbe. Dopo averle messe a macerare in un contenitore pieno d’acqua, ho portato l’infuso ai miei disgraziati compagni, mentre le onde continuavano a strapazzare il galeone: non l’avessi fatto! La voglia impellente di svuotare lo stomaco, di rimettere il cibo che in realtà era già stato da molto tempo rigettato, si è per così dire decuplicata: lo scienziato e i due religiosi roteavano gli occhi, si stringevano con le mani la pancia, parevano sul punto di piombare morti sul ponte. Tutta questa poco sacra rappresentazione ha fatto ridere i marinai che intanto stavano dietro agli ordini gridati da Gambi. Per fortuna la violenta tempesta si è placata nel giro di poco più di tre ore e tutto è ritornato tranquillo.

    Prima di arrivare alla foce del Guadalquivir e approdare nell’immenso porto di Siviglia, è accaduto però un fatto terribile che ha lasciato, per quanto mi riguarda, delle impressioni sconcertanti e aspetti ancora oscuri.

    Giannetto Rizzi, uno degli aiutanti del cuoco Perrone, una sera ha voluto giocare uno scherzo pesante a padre Costanzo, lasciandogli cadere nella ciotola del rancio un grosso scarafaggio. Il religioso, quando se ne è accorto, ha emesso uno strillo impressionante e ha avuto un malore. Subito Gambi è venuto a conoscenza del fatto e, dopo aver costretto il cuoco a confessare e aver accertato chi fosse il colpevole, ha ordinato a Bruni: «Date venti frustate al buontempone.»

    Bruni è impallidito. «Capitano, una punizione così dura per…»

    «Mettete in discussione un mio ordine?» ha detto secco Gambi. Con un tono che non ammetteva neppure un accenno di replica.

    Le urla di Rizzi, mentre lo fustigavano, hanno reso plumbeo l’umore dei marinai; lo stesso Costanzo era sconvolto. «No, no, fermateli» mi diceva il frate quasi piagnucolando. «In fondo è stato uno scherzo innocente. Rischia di morire, quel poveretto!»

    In realtà Giannetto Rizzi non è morto ma è rimasto per due giorni sottocoperta in condizioni pietose e, a quanto pare, covando un risentimento forte nei confronti del cuoco che lo aveva inguaiato con la sua confessione. La cosa purtroppo ha avuto uno strascico tristissimo e, ripeto, con implicazioni assai poco chiare, ancora cariche di mistero.

    Due sere fa il cuoco è stato assalito presso la scala che porta alla sentina. Un marinaio genovese, Costello, ha intravisto nel buio denso di quell’ambiente un uomo che trafiggeva Cecco Perrone con uno strano coltello, dalla lama stretta e affilata. Non è riuscito a fermare l’assassino, ma subito le ricerche si sono appuntate su

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