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L'eresia nel Medioevo
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E-book585 pagine9 ore

L'eresia nel Medioevo

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Storia dell’eresia nel Medioevo, ovvero dall’eresia allo scisma e dallo scisma all’eresia: dai Catari ai Valdesi e dai Patarini agli Arnaldisti. Con Gioacchino da Fiore, Amorico di Bena, Giovanni da Parma, Ubertino da Casale, Michele da Cesena, Guglielmo Occam… Un libro provvisto di una smisurata documentazione. In questa edizione il testo è stato interamente controllato e normalizzato, comprese le ben 877 note (in gran parte in lingua latina e facoltativamente consultabili).
LinguaItaliano
Data di uscita20 nov 2020
ISBN9791220225052
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    L'eresia nel Medioevo - Felice Tocco

    DIGITALI

    Intro

    Storia dell’eresia nel Medioevo , ovvero dall’eresia allo scisma e dallo scisma all’eresia: dai Catari ai Valdesi e dai Patarini agli Arnaldisti. Con Gioacchino da Fiore, Amorico di Bena, Giovanni da Parma, Ubertino da Casale, Michele da Cesena, Guglielmo Occam… Un libro provvisto di una smisurata documentazione. In questa edizione il testo è stato interamente controllato e normalizzato, comprese le ben 877 note (in gran parte in lingua latina e facoltativamente consultabili).

    AVVERTENZA

    Messomi a studiare i rapporti tra la filosofia scolastica e la contemporanea eresia, se non ho trovato quello che a prima giunta supponevo, mi venne fatto in compenso di formarmi un’opinione ben netta sulla genesi e sul corso delle molteplici sètte eretiche. Il risultato di questi studi pubblico nel presente libro, che per conseguenza non è, né vuol essere una storia degli eretici, e molto meno un trattato dogmatico sull’eresia.

    L’ho intitolato Studi sull’eresia del Medioevo , prendendo quest’ultima parola nel senso più ristretto del periodo, in cui domina la filosofia scolastica. L’età di transizione tra la cultura antica e la nuova, in cui fiorisce la Patristica, è affatto estranea al mio compito. Avrei dovuto occuparmi delle sètte contemporanee al moto francescano, che vanno sotto il nome di Flagellanti, Apostolici, Beghini e Guglielmiti, e molti materiali avevo raccolti intorno a questo argomento. Ma la ristrettezza dello spazio m’impedisce di trattarlo anche superficialmente, e mi riserbo di farne uno studio a parte, se i saggi, che ora pubblico, saranno benevolmente accolti, del che dubito forte. La mancanza di spazio m’impedisce altresì di pubblicare nella loro integrità alcuni testi inediti, che si riferiscono all’abate Gioacchino, all’ Evangelo Eterno , ed al moto francescano. Ne ho solo riportati quei frammenti, che più si confacevano al mio scopo. Ho forse abbondato nelle note, ma non me ne pento, ché nelle ricerche storiche la mancanza assoluta o la citazione manchevole delle fonti mi pare un vero danno. Del resto se al lettore piace di saltare le note, e credermi in parola, io gli sarò grato di tanta fiducia.

    INTRODUZIONE

    Il Medioevo, che a torto da amici ed avversari fu detto l’era della concordia e della pace, ebbe a soffrire non meno dell’età nostra profondi e dolorosi travagli. Questa unità delle menti e degli animi, produttrice secondo gli uni di opere grandiose, segno secondo gli altri di fiacchezza e torpore, fu sempre e dovunque vagheggiata, giammai conseguita. Né ci verrà mai fatto di trovarla nei tre periodi, in cui vanno divisi i secoli che corrono da Carlo Magno a Carlo di Boemia.

    I.

    Il primo periodo, che diremo di preparazione, è il più lungo di tutti, protendendosi dal secolo nono sino alla metà del decimosecondo. Vi primeggiano in filosofia le dispute faticose intorno agli Universali, nate da una frase dell’Isagoge Porfiriana, la quale racchiude in germe un problema sempre risoluto e sempre da risolvere. Quel che noi diciamo i generi e le specie, sono forse entità reali, anzi solo la vera realtà, o non piuttosto artifici della mente per non smarrirsi nel laberinto della natura? Alla prima sentenza piegavano i Realisti, i Nominalisti alla seconda; ed il loro dissidio, frutto di una profonda antinomia della ragione, durava ostinato per secoli, e quando pareva che fosse per comporsi, rinasceva sotto altra forma più vivace di prima. Secondo l’intuizione realistica gli individui sono effimere esistenze, le quali, a così dire, nell’istessa ora che nascono, scompaiono. Che siamo noi uomini, presi individualmente? Pulvis et umbra. Consacrati alla morte, un piccolo accidente distrugge in un punto quanti fra noi avevano redata maggior consistenza e vigore. La sola che sopravvive a tante rovine, e sfidando le ingiurie del tempo, per volger di secoli non cresce né scema, è quel che v’ha di universale in noi, l’umanità. E lo stesso che diciamo degli uomini, possiamo ripetere degli esseri tutti. Ché anzi a quel modo che gl’individui umani sono frammenti dell’umanità, questa è una piccola parte di un essere più sterminato di lei, l’animale. E l’animale a sua volta è frazione del vivente, ed il vivente è anch’esso forma fugace di un Essere immenso che è tutte cose, ma nessuna in particolare. Questo solo è ciò che permane immutato, è l’ordito su cui s’intesse la variopinta trama della natura, è l’Oceano che serba costante il volume delle acque, benché sull’immensa superficie s’avvicendino i flutti rumorosi. Questi arditi concetti sono adombrati nel De divisione naturae di Giovanni Scoto Erigena. [1] Così nella prima metà del nono secolo quella Filosofia, che si dice serva del dogma, prende le mosse da un libro, il quale parecchi secoli dopo (nel 1225) da Papa Onorio III verrà condannato alle fiamme. [2]

    Né men libera

    ed ardita è la scuola opposta dei Nominalisti. Il concetto dal quale partivano Roscellino e i suoi seguaci, affatto discorde da quello dei Realisti, è il seguente: la sostanza prima è l’Individuo; gli universali sono astrazioni che la nostra mente forma togliendo ed isolando ciò che han di comune gl’individui, e lungi dall’essere la vera realtà, non hanno maggior consistenza del suono che li esprime. [3] Se il Realismo menava dritto al concetto di sostanza unica, di cui gl’individui son gli accidenti, il nominalismo in quella vece di conseguenza in conseguenza riuscire doveva alla dottrina dell’originalità degli individui, o in altre parole all’atomismo. [4] Tali erano i due indirizzi della speculazione di quel tempo, i quali, mutati nomi e fattezze, si sono conservati sino ai nostri giorni. Ma e l’uno e l’altro sistema erano guardati con sospetto dagli ortodossi, cui non sfuggì che sotto l’apparenza dell’accordo si nascondesse un grave dissidio tra la Fede e la Filosofia. Ben fu tentata una via di mezzo tra i due opposti estremi, la quale sembrava s’accordasse meglio con la tradizione; ma il tentativo non ostante la pietà e l’ingegno di Anselmo di Aosta fallì; né a torto gli scolastici posteriori ebbero a temere che l’idealismo dell’arcivescovo di Canterbury non fosse meno avventuroso degli altri sistemi, né sapesse tenersi egualmente lontano dal misticismo degli uni e dal razionalismo degli altri. [5] E questi erano infatti gli scogli, nei quali rompeva la speculazione di quel tempo, in cui i filosofi, non usi ancora a infingersi, come fu stile dei secoli posteriori, traevano dai loro principii, saldi argomenti a trasformare i dommi e le dottrine tradizionali.

    Così i Realisti, al cui misticismo nessun mistero ripugnava, tra le nebbie della credenza popolare s’argomentavano di scoprire le proprie teorie. E restaurando il vecchio metodo dell’interpretazione allegorica, già tanto usato ed abusato dai gnostici, nel dogma della trinità videro simboleggiato un ciclo cosmogonico, e nella redenzione l’eterna durata dell’effetto garantita dal perenne intervento della causa. [6] Ed anche i nominalisti alla lor volta, benché non spiccassero voli così alti e ben lontani si tenessero dal nebuloso speculare degli avversari, non cessavano per tanto dallo studiare i dommi religiosi, né meno uso facevano dell’interpretazione allegorica. Le loro spiegazioni, non elaborate certo nel grande stile dei realisti, erano più piane e sarei per dire volgari, ma meglio confacenti secondo loro a far luce piena dove più s’addensava l’ombra del mistero.

    La setta nominalistica o concettualistica [7] che dir si voglia fu per tal guisa l’iniziatrice del razionalismo, ed il suo più illustre rappresentante, l’infelice Abelardo, ragionatore instancabile e strenuo propugnatore dei diritti del libero pensiero, cadde vittima della sua dialettica. Odiosum me mundo reddidit Logica. [8] Per ben due volte egli fu tradotto davanti a Sinodi provinciali sotto l’accusa di eresia. La prima nel 1121 in quella stessa città di Soissons, dove pochi anni innanzi era stato condannato Roscellino per sospetto di triteismo; [9] la seconda nel 1140 a Sens, dove egli sperava battere con le armi delle sue implacabili argomentazioni l’accusatore suo S. Bernardo. Ma né l’una volta né l’altra gli arrise la fortuna; ché a Soissons fu condannato a bruciare con le sue proprie mani l’Introductio ad Theologiam, e come se ciò non bastasse fu chiuso in espiazione dei suoi falli nel convento di S. Medard. A Sens poi gli sarebbe capitato anche peggio, se l’accorto filosofo, presentito l’imperversar della bufera, non se ne fosse appellato al Pontefice. E ventura per lui che, mancategli le forze lungo il viaggio alla volta di Roma, riparasse nell’abbazia di Cluny, ove fu accolto affettuosamente da Pietro il venerabile, miracolo ed esempio di vera carità cristiana. Se fosse proceduto oltre, non avrebbe trovata eguale accoglienza nel Papa Innocenzo II, il quale non poteva al certo darla vinta al filosofo palatino contro quello stesso S. Bernardo, alla cui opera egli doveva in parte il trionfo riportato sul rivale Anacleto. [10] E d’altro lato come mai quel Pontefice, che l’anno innanzi aveva imposto silenzio all’audace Arnaldo da Brescia, avrebbe ora dubitato di condannare il maestro e la guida dell’abborrito novatore? Non erano forse questi due uomini stretti siffattamente in un pensiero, che agli occhi del chiaravallese l’uno paresse il gigante Golia, e l’altro il fido scudiero? E per fermo lo stesso ardore di libertà scaldava i loro petti. Entrambi volevano la riforma della Chiesa, l’uno spogliandola dei mal tolti beni temporali, causa prima di scandali e corruzioni; l’altro sciogliendola da quelle pastoie dogmatiche che impedivano la libera espansione del sentimento religioso.

    Ed entrambi sono specchio fedele di quell’età turbinosa, in cui infranti nella lotta delle riforme e delle investiture i vincoli dell’antica disciplina, il prestigio della tradizione vien meno, e Papi combattono contro Papi, come nello scisma di Cadalò, di Guiberto, di Anacleto; vescovi contro Papi, Imperatori contro questi e quelli; nulla di saldo e durevole; ed oggi si proclama campione della Chiesa chi domani vien condannato da eretico e fellone. Si comprende di leggieri come in queste lotte incessanti crescesse e si dilatasse lo spirito critico, e quale potere esercitasse sulle giovani menti uno ingegno così acuto come quello di Abelardo, che mise lo scompiglio nella teologia autoritaria con le famose antinomie del sic et non. La sua parola affascinava, la sua dialettica stringeva, e quando si ritrasse nel romitaggio del Paracleto, i discepoli accorrevano a torme alle sue lezioni, contenti di vivere in miserabili capanne, non curanti dello scarso nutrimento, che il deserto luogo concedeva. Confortato da queste prove di affetto, né fiaccato dalle persecuzioni patite, l’intrepido maestro continuava a battere in breccia illum fidei fervorem, qui ea quae dicantur antequam intelligat, credit, et prius his assentii ac recipit quam quae ipsa sint videat, et an recipienda sint. [11] Era naturale che questa critica assottigliasse fuor di misura i dommi tradizionali, e riuscisse alle interpretazioni razionalistiche di un pallido deismo. Le tre persone, ad esempio, sono tre nomi con cui è descritta diligentemente la perfezione del sommo Bene; [12] la creazione non è libera, ma necessaria; [13] il peccato originale non è colpa, ma trasmissione ereditaria della pena che al primo fallo successe; [14] il Redentore è l’esempio dell’uomo perfetto che adempie al dover suo non per timore ma per amore; [15] il cristianesimo in una parola non è altro se non un ritorno alla legge naturale, la quale è certo che fu seguita dai filosofi, mentre la legge mosaica si appoggia su precetti più simbolici che morali ( magis figuralibus quam naturalibus nitatur mandatis) ed abbonda più dell’esterna che dell’interiore giustizia. [16] S. Bernardo, ben consapevole della gravità di questi arditi commentarii esclama tristamente: Omnia usurpat sibi humanum ingenium, fidei nil reservans. Tentat altiora se, fortiora scrutatur, irruit in divina, sancta temerat magis quam reserat, clausa et signata non aperit sed diripit (Ep. 188).

    Se non che era vano sperare che con la punizione del filosofo si potesse soffocare la libertà del pensiero, la quale in quella vece si levava più fiera e minacciosa dalle violenze patite. Con la morte di Abelardo non perì l’indirizzo razionalistico, e Bernardo Silvestre trova nel platonismo inteso a modo suo la soluzione dei problemi religiosi; [17] Guglielmo di Conches attacca la superstizione come la peggior nemica del progresso intellettuale; [18] persino Gilberto Porretano; [19] dal 1142 vescovo di Poitiers, costruisce una dottrina della trinità così poco ortodossa, che vien costretto a ricredersene innanzi al concilio di Rheims del 1148.

    Contro il mal dissimulato razionalismo di questi filosofi seguita sempre a combattere S. Bernardo, e non meno fieramente di lui i Vittorini Ugo Riccardo e Gualtiero. Quest’ultimo principalmente non perdona né a filosofi, né a teologi, ma nello stesso biasimo coinvolge con Abelardo e col Porretano, i due dottori Pietro Lombardo detto il Maestro delle sentenze, ed il discepolo Pietro di Poitiers, [20] che raccolsero in trattati scolastici ed in forma dialettica esposero la somma del sapere teologico. [21] Se non che l’opposizione di questi mistici è una ben debole diga contro l’irrompente fiumana. Realisti e nominalisti seguitano a battagliare, e tra gli opposti estremi nascono tanti sistemi intermedi, che a noverarli tutti si stanca Guglielmo di Salisbury. E sovra tutti mira ad innalzarsi quest’uomo singolare, questo discepolo di Abelardo, che pare appartenga ad altra epoca, ed assai prima del Petrarca professa come un culto per l’antichità [22] classica, ed in mezzo al cozzo di tanti dogmatismi vorrebbe rinnovare l’antica Accademia. Così al primo periodo della scolastica non manca neanche la nota critica. E non più due indirizzi soli si contrastano il dominio delle menti, ma quattro, il realistico, il nominalistico, il mistico, lo scettico.

    II.

    Prima che s’aprisse il secondo periodo della coltura medievale, la guerra tra l’Impero e la Chiesa s’era rinnovata con maggiore violenza, e tre antipapi l’un dopo l’altro contesero per venti anni la tiara ad Alessandro III (1158-1178). E durante queste lotte si rinvigorirono le sètte ereticali dei Catari, Valdesi ed Arnaldisti, e accanto a loro si fecero strada gli avversari di ogni credenza positiva, gl’Indifferenti, che riconoscevano a lor capo il grande filosofo arabo Averroè. Questi sosteneva che tutte le religioni hanno egual valore innanzi agli occhi della ragione. Son tutte vere perché tutte hanno tal forza morale da infrenare il ribelle volere delle masse; tutte false, perché la schietta verità filosofica v’è ottenebrata da immagini ed allegorie. Certo l’importanza e la perfezione relativa delle religioni è diversa secondo le varie condizioni dei tempi, ma ciò mostra che il criterio di valutazione delle religioni vuole essere storico, non speculativo. [23] Questo nuovo nemico era al certo molto più temibile dei precedenti, poiché tra i filosofi ed eruditi arabi si conservava la più ricca tradizione della coltura ellenica; né solo la maggior parte delle opere aristoteliche conoscevano, ma benanche i più importanti interpreti, Alessandro di Afrodisia, Temistio, Porfirio, Ammonio. Onde Avicenna nei primordi del secolo undecimo ed Averroè nel duodecimo scrissero i più estesi commenti allo Stagirita. I quali commenti voltati ben per tempo in ebraico, e dall’ebraico in latino furono accolti con trasporto dai filosofi d’occidente, che in tanta venerazione tenevano Aristotele, per quanto scarsa conoscenza avessero delle sue opere. Se non che lo studio di Aristotele attraverso questi infidi espositori non era senza pericolo; perché l’interpretazione più che al testo di Aristotele si confaceva alle chiose neoplatoniche, onde il teismo aristotelico si tramutava per tal via in un panteismo mistico, quale è svolto, ad esempio, nel Fons vitae dell’Avicebronio. [24] Gli effetti di questi agenti dissolutori si vedono chiari in due filosofi che vissero tra la fine del secolo XII ed il principio del XIII, Amorico di Bena e Davide di Dinan, condannati entrambi come eretici in religione e panteisti in filosofia. [25]

    Ma la Chiesa oramai era uscita più vigorosa dalla lotta sostenuta con Federico. Alessandro III, che seppe trovare un efficace aiuto nella forza giovane e rigogliosa dei Comuni, aveva disfatto il suo potente rivale così che neanche il matrimonio di Enrico VI con Costanza di Sicilia valse a restaurare le sorti dell’Impero. Ché anzi nuovi danni si maturavano alla causa imperiale, quando morto in fresca età l’ardimentoso Enrico, del fanciullo erede assumeva la tutela una donna debole e bigotta, la quale non seppe trovar migliore protezione all’infuori del Papato, al cui soglio veniva in quel torno levato uno dei maggiori uomini del tempo, Innocenzo III. Questi procede con insolito vigore contro gli avversari della Chiesa. In danno degli infelici Albigesi bandisce nel 1209 una crociata, che dopo lunghi anni di guerre e calamità distrugge l’eresia, ma spegne con essa il fiore della coltura provenzale. Nello stesso anno un sinodo provinciale, tenuto a Parigi, decreta che venga tolto alla pace del sepolcro, e gettato in terra non benedetta il corpo di Amorico, morto due anni innanzi; che siano degradati e condannati a carcere perpetuo parecchi ecclesiastici, convinti di eresia; che vengano consegnati al vescovo di Parigi i quaderni del maestro Davide di Dinan; infine che sia proscritta da Parigi la lettura delle opere di Aristotile. Nec libri Aristotelis de naturali philosophia, nec commenta legantur Parisiis pubblice vel secrete. Et hoc poena excommunicationis inhibemus. [26]

    Insofferente di opposizioni Innocenze taglia quei nodi che non può sciogliere, e della supremazia dell’autorità sua su tutte le podestà della terra ha tale coscienza, da costringere a ribellarglisi la sua stessa creatura, l’Imperatore Ottone IV. Né per ostacoli che incontri, vacilla quell’animo gagliardo; ma dalle nuove opposizioni attinge maggior forza; onde radunato nel 1215 un solenne concilio nel Laterano, vi scomunica l’Imperatore al quale oppone il suo pupillo Federico; spoglia dei suoi legittimi possessi il Conte di Tolosa, investendone Simone di Monforte, ricondanna solennemente l’empio Amorico e tutti gli altri eterodossi in qualunque modo si chiamino, [27] non dubita infine di tenere per decaduti dal trono quei principi che non svelgano col ferro e col fuoco l’annoso tronco delle eresie. [28]

    E strumenti di tali implacabili persecuzioni dovevano essere quegli ordini religiosi dei minoriti, che appunto in quel torno nascevano coll’obbligo di non restarsene isolati e neghittosi nel silenzio del cenobio, bensì di vivere in mezzo al popolo, accattare da lui giorno per giorno la sussistenza, dividerne le gioie ed i dolori, spiarne i più segreti pensieri, onde non sfuggisse al loro acuto sguardo il più lieve indizio di opinioni e tendenze ereticali. Né tutto questo bastava. Le misure preventive e repressive, per quanto accorte e vigorose, non potevano eliminare i più profondi bisogni della ragione. Il credo ut intelligam di S. Anselmo restava sempre come insegna delle menti superiori. Era dunque necessario che le menti più elevate della Chiesa si mettessero a scoprire la via di una conciliazione tra la ragione e l’autorità, e che si ristudiasse da capo il problema filosofico per metterlo d’accordo col religioso. E come il grande filosofo era tuttora indiscutibilmente Aristotele, bisognava esaminare se il commento e l’interpretazione araba fosse proprio quella che meglio rispondesse al pensiero dell’autore. Questo è l’intendimento dei maggiori filosofi del secondo periodo della scolastica, Vincenzo di Beauvais, [29] Alessandro di Halès, Alberto Magno, Tommaso d’Aquino, i più grandi raccoglitori del sapere contemporaneo che condensavano nelle lor enciclopedie e nelle lor somme, libri chiusi, cui non occorreva aggiungere o toglier verbo. [30] Ma quale fu il risultato di tanti sforzi generosi? Valga per tutti S. Tommaso che nell’inferno dantesco dipinto nel camposanto pisano [31] è rappresentato come il vincitore dei tre nemici della chiesa, Ario capo degli eretici, l’Anticristo seminatore dello scisma, ed Averroè principe dei filosofi increduli.

    III.

    La prima cura del Dottore Angelico, come del suo maestro Alberto Magno fu di comporre il dissidio tra nominalisti e realisti che travagliò il periodo precedente. Concedevano ai nominalisti l’universale non essere un’entità a sé, [32] e indipendente dall’intelletto che lo forma per il noto processo di astrazione o eliminazione; [33] ma nel contempo davano ragione ai realisti in quanto che la formazione dei concetti di generi e specie non è punto arbitraria, ma ben fondata sulla natura delle cose. In una parola l’Universale non è sostanza separata, ma legge di natura. Per ben intenderci dunque bisogna distinguere l’universale ante rem, in re, post rem. [34] L’ ante rem sono le idee di Dio creatore; quello in re il divino pensiero, divenuto legge delle cose; il post rem infine il concetto o volgare o scientifico, che noi uomini acquistiamo dopo un lungo lavorio di astrazione. O per dirla con un noto esempio, l’universale ante rem è il concetto che l’artista vagheggia nella sua mente; l’ in re è l’attuazione di quello nel marmo o nei colori; il post rem la sua riproduzione nella mente dello spettatore e del critico. Posto termine in tal guisa agli interni dissidi, si sperava di raccogliere in un fascio tutte le forze contro l’eterno nemico, Averroè, il quale di qui innanzi diviene il rappresentante dell’incredulità pervicace. Ed a prostrare un avversario così formidabile, S. Tommaso non risparmia nessun’arte; né contento di combatterlo nelle opere generali, scrive contro di lui trattati speciali, come ad esempio il celebre opuscolo: De unitate intellectus contra Averroistas. [35]

    La questione dell’Intelletto nacque, come è noto, dalle oscurità della psicologia aristotelica. Nel terzo libro del De Anima lo Stagirita aveva distinto l’intelletto passivo dall’attivo, e l’uno aveva fatto mortale, l’altro eterno e separato. Cosa intendesse Aristotele per questo doppio intelletto è difficile dire; [36] ma secondo il principio fondamentale della psicologia aristotelica che le potenze inferiori sono grado ed avviamento alle superiori, il Nous passivo doveva significare un intelletto non ancora sviluppato o in potenza, e l’attivo un intelletto pervenuto al suo più alto grado di energia. [37] Se non che i caratteri, che separano i due intelletti, sono così spiccatamente opposti, che le loro differenze più che di grado si dovrebbero tenere invece per specifiche; onde quell’Essere che è fornito dell’Intelletto attivo non potrebbe identificarsi con l’Ente fornito di solo intelletto passivo. [38] In altre parole l’Intelletto attivo sarebbe estrinseco al passivo; e più che il supremo grado della mente umana sarebbe invece l’intelligenza divina, ovvero quella Νόησις νοήσεω che nel XII della metafisica si confonde col Motore immobile. Tanto vero che uno dei più sottili e fidi interpreti della dottrina aristotelica, Alessandro, che pure ha la tendenza di eliminare ogni elemento mistico dalla filosofia peripatetica, mentre considera l’intelletto passivo come il compendio e l’integrazione delle potenze inferiori dell’anima, pervenuto all’intelletto attivo cangia metro, e lo dice tutt’uno con Dio, e lo pone fuori dell’uomo. Qual meraviglia dunque che i filosofi arabi, dominati dalle intuizioni neoplatoniche, non pure accettino questa interpretazione, ma la guastino e complichino fuor di misura? Era conforme all’indirizzo del loro filosofare l’accrescere il numero delle entità intermediarie tra l’Unità suprema e il mondo sensibile; onde a quel modo che Aristotele aveva moltiplicato tante volte il motore estrinseco, per quante sfere celesti gli offriva l’astronomia del suo tempo, nella stessa guisa i filosofi arabi moltiplicano l’intelletto attivo, e per ciascuna sfera ne immaginano uno, che ha la doppia funzione di muovere la sfera ed illuminare le menti degli abitatori. Né questo è tutto, ma ben altra stortura conviene aspettarci. Avicenna (980-1038) aveva tenuto come sostanza separata il solo intelletto attivo, il quale aderisce o serve all’anima razionale siccome la luce all’occhio. [39] Averroè (1126-1198), come se ciò non bastasse, dichiara esterno anche l’intelletto passivo, che per tutti i suoi predecessori era stato tenuto come intrinseco all’anima umana, o per meglio dire, come la sua funzione più alta. Se è esterna, egli dice, la sorgente luminosa, esterni sono anche i raggi che da quella piovono su le cose. E come la sorgente s’agguaglia all’intelletto attivo, ed i raggi all’intelletto passivo; ragion vuole che l’uno e l’altro si tengano per esterni all’anima umana; e l’uno e l’altro siano un solo e medesimo intelletto per tutti gli uomini. [40] E se volete sapere che cosa sia questo intelletto unico, che illumina le nostre inferme fantasie, è subito detto. È il motore dell’ultima sfera celeste, che secondo l’antica astronomia è quella della luna; onde non a torto Astolfo sale fin lassù per pescarvi il senno di Orlando. [41] Le conseguenze di questa dottrina sono facili ad intendere. In quel tempo le prove, che si adducevano dell’immortalità dell’anima, erano tutte cavate da questo concetto, che l’anima, avendo attività o funzioni sue proprie, affatto separate dalle corporee, debba essere di una sostanza diversa da quella del corpo, ed agevolmente separabile. Il quale ragionamento sarebbe venuto meno quando fossero state accolte le dottrine averroistiche. Poiché se l’intelletto, da qualunque aspetto si consideri, è estrinseco all’anima, a lei non restano di proprio se non le funzioni del senso e dell’istinto, le quali, come che legate indissolubilmente coll’organismo, cessano quando questo si dissolva, e traggono nella loro rovina il soggetto stesso senziente.

    Era ben naturale che i dottori della Chiesa, i quali s’adoperavano a metter d’accordo la scienza con la fede, si volgessero a combattere questo punto dell’averroismo. Ed Alessandro e Alberto Magno e S. Tommaso si fecero a dimostrare esser le teoriche di Averroè non pure false in sé medesime, ma in aperta contraddizione con le dottrine aristoteliche. Né si può negare che la interpretazione più conforme allo spirito dell’aristotelismo è quella appunto, che abbraccia l’Aquinate, secondo la quale l’intelletto attivo ed il passivo sarebbero bene una stessa cosa, stante che l’uno è in potenza quello che l’altro è in atto; ma e l’uno e l’altro s’han da tenere come funzioni dell’anima: onde lungi dall’essere unico l’intelletto, o attivo o passivo che sia, si rompe in quella vece in tanti intelletti singoli, per quante anime dar si possano. [42] Se non fosse così, l’anima umana non sarebbe gran fatto diversa dalla parete su cui cadono i raggi luminosi; e come la parete, benché illuminata dal sole, non vede, così l’anima nostra benché rischiarata dall’Intelletto agente non intenderebbe nulla di nulla. E se non è lei che intende, così neanche è lei che vuole e opera, ma quell’Essere dal quale spiccia la fonte della intelligibilità. [43]

    È indubitato dunque che S. Tommaso vide molto più addentro dei commentatori neo-platonici ed arabi. Ma quel pericolo che crede di sfuggire da un lato, gli si presenta dall’altro. Poiché a quel modo che l’intelletto attivo s’identifica col passivo piuttosto secondo lo spirito che la lettera della psicologia aristotelica, così pure s’ha a dire lo stesso dell’intelletto passivo rispetto alla fantasia ed alla percezione sensibile. E come Aristotele dice che senza il fantasma non potrebbe svolgersi l’intelletto, [44] così è impossibile che l’anima abbia funzioni e vita propria, ove mai si sciolga da quel corpo che in lei ingenera sensazioni e fantasmi. Lo Stagirita senza dubbio tenne per mortale l’intelletto passivo, e ove mai l’attivo ed il passivo son la medesima cosa, con qual diritto affermeremo dell’uno ciò che dell’altro si nega? All’acume dell’Aquinate non sfugge questo pericolo, dal quale s’argomenta di scampare, ammettendo nell’anima una misteriosa tendenza verso il sensibile, la quale perdura sempre anche quando s’infrangono i lacci corporei. [45] Questa tendenza è come un corpo interno, del quale l’anima non si sveste mai; onde né il sentimento né i fantasmi le verranno mai meno, ed è per sempre assicurata la base su cui poggiano le più alte potenze intellettive e pratiche. Teorica questa, strana quant’altra mai, e per giunta non nuova ed attinta a quella stessa fonte neoplatonica, dalla quale rampollava la teorica degli intelletti, separati, che S. Tommaso ripudia. [46] Se non che ella era un espediente inevitabile non solo per sottrarsi alle conseguenze estreme della teorica dell’unità degl’intelletti; ma per conciliare altresì l’immortalità dell’anima con la teorica dell’individuazione.

    Questo problema dell’individuazione fu il pomo di discordia tra le scuole realistiche del secolo XIII, come quello degli universali travagliò i secoli precedenti. Abbiamo già detto che i Realisti concordemente ammettevano oltre l’universale ante rem, che esiste solo nella mente di Dio, ed il post rem, che sta nella mente umana, anche un altro universale, che essi dicevano in re, vale a dire insito nelle cose stesse. Ora le cose tutte, secondo i concetti aristotelici, constano di materia e forma, in che dunque è riposto l’universale nell’uno o nell’altro di questi fattori? Aristotele stesso s’era posto in qualche modo questo problema, quando si faceva la domanda opposta, cioè che cosa fosse l’individuo. Ed egli dopo lungo contrasto venne nella conclusione: l’individuo non esser né la materia, né la forma, ma l’unità di entrambi, il sinolo, come egli diceva, dei due universali. [47] Se non che ammessa pure questa soluzione aristotelica, il problema rinasce sempre sotto un’altra forma. Dei due fattori, il cui intreccio costituisce l’individuo, quale dei due è il determinante e quale l’indeterminato, o in altre parole dove sta il principium individuationis? Per un certo rispetto sembra che il principio individuante stia nella materia: perché la forma, secondo le stesse parole di Aristotele, è un tipo unico, il quale si riproduce in tante differenti impressioni per quanto diverse sono le materie in cui s’impronta. E questa fu la dottrina seguita da Alberto Magno e dall’Aquinate; [48] ma non senza gravi e ben fondate opposizioni da parte delle altre scuole. Come mai, si diceva, sarà la materia il principium individuationis, ovvero la radice di tutte le distinzioni, e specificazioni quando essa medesima è qualche cosa d’indistinto? Che cosa è la materia destituita di forma? Non è forse l’indeterminato, la potenza pura direbbe Aristotele, la quale appunto per opera della forma acquista limiti e contorni? Il sostrato universale dunque è la materia, e la forma è il principio che da questo fondo comune cava fuori le specie e gl’individui. [49] Sembrano discussioni bizantine queste, e lo stesso Jourdain così dotto nella filosofia scolastica rimprovera S. Tommaso di esservisi cacciato dentro. Ma siamo giusti. Non è forse un profondo bisogno di qualsiasi filosofia realistica la deduzione o costruzione, che dir si voglia, dell’individuo? Il problema era dunque inevitabile, e più che a porlo sarebbe occorsa molta industria per schivarlo. Comunque sia, egli è fuor di dubbio che il problema dell’individuazione servì a crear sul finire del secolo XIII due nuove scuole, che si combattevano non meno aspramente delle antiche, e che dai loro fondatori tolsero il nome di Tomisti e Scotisti. [50]

    A rinfocolare le ire avrà contribuito senza dubbio l’antico livore tra Domenicani e Francescani; ma il problema intorno a cui disputavano non era meno grave di quello degli universali, e qualunque soluzione si accettasse veniva a rompere contro le barriere della teologia. In verità lo Scotismo, che, mettendo il principio d’individuazione nella forma, [51] ha l’aspetto di un Realismo più compatto, cade in quelle conseguenze panteistiche, che vedemmo non scompagnarsi mai dalle intuizioni realistiche. Né il Dottor sottile se ne dissimula il pericolo, ma aperto e risoluto gli va incontro dichiarando di tornare alla posizione dell’abborrito Avicembronio, e rappresentandosi il mondo tutto come un albero bellissimo, la cui radice e seme sia la materia prima, le foglie gli accidenti, le fronde e i rami il creato corruttibile, il fiore l’anima umana, ed il frutto la natura angelica. [52] Ma neanche è mondo di peccato il Tomismo, nel quale le dottrine filosofiche solo per via di espedienti artificiosi son messe d’accordo coi dommi tradizionali. Così ad esempio se Averroè seguendo Aristotele dimostra l’eternità del mondo, S. Tommaso non ardisce di provare il contrario, ma s’argomenta di mettere in salvo la fede con lo stabilire che non tutto ciò che si crede debba essere dimostrabile e conoscibile. [53] Parimenti egli non sconfessa le conseguenze della sua teorica dell’individuazione, ed interpretando a suo modo la tradizione, ammette che la natura angelica, come che destituita di materia non sia capace di differenze individuali, bensì delle sole generiche e specifiche. [54] Ma dell’anima umana non osa dire altrettanto, e per salvarne ad ogni costo l’individualità escogita quella teorica della tendenza al sensibile, di cui abbiam fatta parola. A tale doveva ridursi una mente eletta, come quella dell’Aquinate; segno evidente che il dissidio tra il contenuto filosofico ed il dogmatico è ben superiore alla volontà degli uomini, e quel semirazionalismo, che vuol comporre in armonia le più opposte tendenze, riesce invece a dirimerle di vantaggio. Onde alcuni contemporanei si argomentarono di battere una via diversa dalla tomistica.

    IV.

    E primo e più geniale fra tutti è S. Bonaventura (1221-1274), che venne a ragione chiamato Doctor Seraphicus. Animo profondamente mistico non crede che nelle materie comuni alla fede e alla filosofia il ragionamento possa aggiunger nulla di forza al convincimento religioso. E la ragione stessa ha un ufficio affatto secondario, come che serva solo di guida per elevare la mente per vari gradi alla contemplazione beatifica di Dio. Ma pervenuti a quest’alta cima, lo splendore dell’infinita luce ne abbaglia la vista; la forza del nostro argomentare si fiacca, e l’anima dimentica di sé stessa, si smarrisce nell’oggetto della sua contemplazione e dell’amor suo. [55]

    Fra gli oppositori del Tomismo si potrebbe annoverare anche l’altro francescano Raimondo Lullo (1235-1315), strano miscuglio di capestrerie cabalistiche ed astrologiche e sconfinate pretensioni razionalistiche. Nel Lullo si rovescia affatto la relazione che pone Bonaventura tra la fede e l’intelletto. Per Bonaventura l’intelletto è il mezzo, e la fede o la visione beatifica da lei somministrata il fine; per Lullo invece la fede è il mezzo per elevarci a Dio, e l’intenderlo, il conoscerlo razionalmente il fine. La fede può bastare agli uomini volgari, ai contadini, agl’ignoranti, ai mercenari; ma quelli forniti di più alto intelletto non se ne contentano, e fan bene perché la ragione non è impotente a svelare i più alti misteri; e col nudo magistero della ragione il Lullo s’affida di distruggere non solo le false filosofie, ma benanche le false religioni e le eresie. Escogita anzi a questo fine una tal macchina ragionatrice, una specie di tavola pitagorica, coll’aiuto della quale senza scomodarsi molto, si può scoprire e dimostrare qualunque verità. Si sente in lui il filosofo del Rinascimento, [56] come in un altro francescano ed oppositore del pari si ravvisa già il precursore dei tempi moderni.

    Intendo parlare di Ruggero Bacone (1214-1294), di quel genio solitario ed infelice, che scontò con le più crude sofferenze il grave peccato di richiamare sulla buona via le menti smarrite dei suoi contemporanei. Straniero all’età sua egli ben seppe scoprire dove stessero i veri impedimenti, e come egli dice maxima comprehendendae veritatis offendicula, che sono la falsa autorità, l’abito inveterato, l’illusione del senso, il bisogno di nascondere con le lustre di un falso sapere la propria ignoranza. Ed al falso metodo delle deduzioni arbitrarie egli vuol sostituire quello di una ben regolata esperienza, ed ai commenti sui libri naturali degli antichi uno studio diretto della natura, integrato e compiuto dalle costruzioni matematiche. Povero Bacone! La tua voce suona nel deserto, e correrà molto tempo prima che un tuo omonimo riprenda e seguiti con migliori auspicî l’opera da te intrapresa. Il secolo XIII era per fermo immaturo a tanta riforma, ché per quante opposizioni gli si movessero, il tomismo pur sempre dominava le menti, ed alle sue dottrine s’informavano non pure la teologia, ma benanche le lettere di quel tempo. [57]

    V.

    Una splendida prova del dominio del pensiero filosofico di S. Tommaso sulla letteratura è senza dubbio la Divina Commedia, nella quale con immagini, spesso nuove, sempre felici, sono chiarite le più astruse dottrine dell’Aquinate. Valga per tutti il xiii del Paradiso, in cui Dante mette in bocca a S. Tommaso stesso la dottrina dell’universale ante rem, o pensiero divino e dell’universale in re, raggiamento della divina luce.

    Ciò che non muore, e ciò che può morire

    Non è se non splendor di quell’idea

    Che partorisce amando il nostro Sire.

    Ché quella viva luce che sì mea

    Dal suo lucente, che non si disuna

    Da lui, né dall’Amor che in lor s’intrea,

    Per sua bontate il suo raggiare aduna,

    Quasi specchiato, in nove sussistenze,

    Eternamente rimanendosi una.

    Quindi discende all’ultime potenze,

    Giù d’atto in atto, tanto divenendo,

    Che più non fa che brevi contingenze;

    E queste contingenze essere intendo

    Le cose generate, che produce

    Con seme e senza seme il Ciel movendo.

    La cera di costoro e chi la duce

    Non sta d’un modo, e però sotto il segno

    Ideale poi più e men traluce:

    Onde egli avvien che un medesimo legno

    Secondo spezie, meglio e peggio frutta.

    E voi nascete con diverso ingegno.

    Se fosse a punto la cera dedutta

    E fosse il cielo in sua virtù soprema,

    La luce del suggel parrebbe tutta.

    Ma la natura la dà sempre scema

    Similemente operando all’artista

    Che ha l’abito dell’arte, e man che trema.

    Nelle ultime terzine è sfiorato il problema dell’individuazione, e la cagione della varietà dei frutti di uno stesso albero vien posta parte nella materia, o nella cera, in cui s’impronta il segno ideale, e parte nella scarsa efficacia delle cause seconde. Poiché Dante, come ogni buon aristotelico, attribuisce la creazione delle individualità terrestri non direttamente al primo motore, ma a quella che Aristotele chiama natura, analoga in un certo senso all’anima del mondo di Platone. Seguitiamo: Se la materia è il principio individuante, non si può dare una materia non specificata, come sostenevano gli Scotisti. Questo cosiddetto sostrato universale è una astrazione filosofica; in realtà:

    Forma e materia, congiunte e purette

    Usciro ad atto che non aveva fallo

    Come d’arco tricorde tre saette.

    ( Parad., xxix, 22).

    Ed a quel modo che la materia non può essere staccata dalla forma, il corpo non può del tutto separarsi dall’anima, e l’integrità della persona umana sta appunto nell’ intrinsecazione dei due elementi. Onde Salomone dice nel Par. xiv, 43:

    Come la carne gloriosa e santa

    Fia rivestita, la nostra persona

    Più grata fia, per esser tutta quanta.

    Ed è quindi ben naturale che gli spiriti eccelsi affrettino coi loro voti il giorno della risurrezione, ché anche nelle loro anime pure v’è quella tendenza irresistibile verso il corpo, che ammetteva l’Aquinate:

    Tanto mi parver subiti ed accorti

    E l’uno e l’altro coro a dicer amme,

    Che ben mostrar disio dei corpi morti.

    ( Ivi, 61).

    Il corpo dunque non può essere considerato come talmente estrinseco all’anima, che ella se ne possa spogliare o vestire come d’un abito, e debbono andar messe tra le fole le utopie platoniche e neoplatoniche della preesistenza e trasmigrazione delle anime, se pur sotto il velame di questi miti il grande filosofo non abbia voluto far trasparire una verità più peregrina.

    Quel che Timeo dell’anima argomenta,

    Non è simile a ciò che qui si vede,

    Perocché come dice par che senta.

    Dice che l’alma alla sua stella riede,

    Credendo quella quindi esser decisa,

    Quando natura per forma la diede.

    E forse sua sentenzia è d’altra guisa

    Che la voce non suona, ed esser puote

    Con intenzion da non esser derisa.

    ( Parad., iv, 49).

    Né questo solo è l’errore dei platonici, e degli interpreti platoneggianti di Aristotele, ché non contenti di avere così decisa o staccata l’anima dal corpo, dividono ancora l’anima stessa in parti tanto opposte fra loro, che, in luogo di frammenti di un tutto solo, sembrano al contrario diverse totalità, o anime separate. I fatti più ovvi della esperienza psichica stanno contro questo

    error che crede

    Che un’anima sovr’altra in noi s’accenda;

    E però quando s’ode cosa o vede,

    Che tenga forte a sé l’anima volta,

    Vassene il tempo e l’uom non se ne avvede.

    ( Purg., iv, 5).

    Per lo che alla teoria psicologica fondata sulla separazione assoluta delle facoltà, bisogna sostituire quella più giusta di Aristotele e S. Tommaso, che fa svolgere le facoltà superiori dalle inferiori; essendo la radice di queste potenze

    un’alma sola

    Che vive e sente e sé in sé rigira.

    E perché meno ammiri la parola,

    Guarda il calor del sol che si fa vino

    Giunto all’umor che dalla vite cola;

    ( Purg., xxv, 74).

    E se tutte le facoltà dell’anima si svolgono le une dalle altre, anche l’intelletto passivo segue la stessa legge, né v’ha teorica più assurda dell’averroistica che

    fe’ disgiunto

    Dall’anima il possibile intelletto:

    ( Purg., ivi, 64).

    Come pure è assurda la dottrina delle idee innate e la reminiscenza platonica; perché

    Esce di mano a lui che la vagheggia

    Prima che sia, a guisa di fanciulla

    Che piangendo e ridendo pargoleggia,

    L’anima semplicetta che sa nulla,

    Se non che, mossa da lieto Fattore,

    Volentier torna a lui che la trastulla.

    ( Purg., xvi, 85).

    Potremmo continuare per un bel pezzo a notare le più evidenti coincidenze tra le teoriche tomistiche e le dantesche e non pure in metafisica, ma in etica, in teologia, in esegesi biblica. In un sol punto Dante discorda dal suo maestro, nelle questioni politiche, dove il dissidio è tanto più aperto per quanto più pieno fu l’accordo nelle altre dottrine.

    L’antica e tragica lotta tra l’impero e il papato s’era già da un bel pezzo rinnovata con maggior vigore da Gregorio IX in poi. Non orpelli, non infingimenti da una parte e dall’altra, ma franca e solenne dichiarazione delle loro dottrine e dei loro fini. Gregorio afferma apertamente il diritto del papato alla signoria suprema su tutti i principi e popoli della terra, perché lo stato non ha un valore intrinseco, ma quello solo che gli viene dall’autorità pontificia; [58] e dal canto suo Federico II, anticipando i tempi moderni, difende l’autonomia dello stato, l’indipendenza dalla podestà ecclesiastica ed il dritto e dovere di ridurre il papato alla povertà gloriosa dei primi secoli. [59] S. Tommaso prese parte alla disputa che ferveva animosa tra i giuristi imperiali, e i canonisti; e traendo le ultime conseguenze dai suoi presupposti filosofici sostiene apertamente le ragioni dei papi. Come l’anima esercita un assoluto dominio sul corpo, così il pontefice sui principi tutti della terra. Egli solo, rappresentante di Dio, è la fonte dell’autorità; e di seconda mano da lui la debbono ricevere tutte le altre potestà. Il pontefice sta all’imperatore come la splendida luce del sole al pallido chiarore della luna, e la spada che egli brandisce è di tanto più formidabile di quella che mette in pugno all’Imperatore, di quanto lo spirito vince la materia; e gl’interessi celesti sovrastano alle meschine gare della terra. [60] A queste dottrine, che sotto la sembianza di pietà religiosa nascondevano le più smodate passioni mondane, non sapeva acconciarsi l’anima fiera del gran fiorentino, e nella Divina Commedia e nel De Monarchia sdegnosamente vi si ribella. Strano contrasto tra i due sommi! S. Tommaso, del gentil sangue dei conti di Aquino, pronipote del Barbarossa e cugino del secondo Federico, rompendo con le tradizioni degli avi suoi, si caccia nel fitto della mischia, paladino di quella corte pontificia, che aveva giurato e inesorabilmente compiuto lo sterminio di casa sveva. Dante, che da giovane combatté nelle file dei guelfi, ricredutosi per tempo dell’errore suo, si converte alla fede ghibellina, ed il dominio temporale e le cupidigie e le ambizioni della corte romana sfolgora nelle tremende invettive del poema sacro. A quel genio divinatore ben presto si discoperse l’assurdo ed il danno della mistione dei due poteri, e con argomenti che calzano anche ai nostri giorni, sostenne arditamente l’autonomia dello stato, o per dirla col linguaggio del tempo, l’indipendenza dell’impero. [61]

    Ma non a torto egli protesta di far parte da sé, ché le sue dottrine politiche, non del tutto conformi a quelle dei ghibellini, [62] s’inspirano a quello spirito umanistico, che fra non molto farà rinascere la tradizione ed il culto dell’antichità. Per Dante la storia antica non era chiusa peranco, né poteva chiudersi giammai; poiché la Provvidenza affidò al popolo romano il primato su tutto il mondo, né altra gente per alte virtù e gesta gloriose se ne rese più degna, né accadrà mai che questa veneranda compagine dell’antico stato si dissolva. Al popolo romano dunque appartiene di diritto l’imperio, ed egli solo può commetterne a Cesare l’esercizio. Non il pontefice, non i principi tedeschi sono di diritto gli elettori dell’imperatore, ma solo il popolo di Roma. [63] Questa teoria bastava a combattere tutte le pretensioni guelfe; poiché se l’imperatore non deve al papa la elezione sua, non è obbligato a riconoscer da lui la sua autorità. Ma essa non era nata soltanto da un intendimento polemico, né si può dire che sia un sogno da poeta. Fra non molto Ludovico il Bavaro, convocata un’assemblea popolare nel Campidoglio (11 gennaio 1328) chiederà la corona imperiale, che per solenne plebiscito gli sarà conferita. E più tardi campione dei creduti diritti di Roma si leverà un uomo singolare, il quale assunto il dimenticato nome di tribuno, affermerà l’autorità sua e il non vano suo potere di contro al papa e all’imperatore. E gli uomini più celebrati del suo tempo gli crederanno, ed il padre dell’umanismo, gl’indirizzerà una delle sue più belle canzoni, [64] e gli scriverà lettere di calda ammirazione, e per causa di lui si raffredderà coi Colonna, vecchi suoi amici e protettori.

    Ma benché nel De Monarchia aliti questo spirito classico e democratico, pure il fondo del ragionamento è schietto medievale, ed affatto tomistiche le premesse che Dante pone per trarne conseguenze affatto opposte a quelle dell’Angelico. Anche egli, come tutti i filosofi di quel tempo, non sa concepire l’ideale se non incarnato in una meschina ed angusta realtà; onde stabilita la necessità dell’unificazione delle genti, la quale soffochi il germe di guerre intestine, vien di conseguenza che quest’unità si debba impersonare in un corpo politico, l’impero, ed in un uomo, l’imperatore. [65] Ma altri avrebbe potuto inferire il vero regno unico e cristiano esser la Chiesa, e la suprema autorità delle genti il Papa. Per toglier le conseguenze faceva mestieri di negare le premesse, e dimostrare come l’unità del genere umano sia solo ideale, ed a tradurla in realtà vi si opponga non pure l’ordine delle cose, che vieta uno stato così mostruosamente sterminato; ma benanche le profonde ed insuperabili differenze che la natura e il corso della storia hanno poste tra le nazioni. Per siffatta guisa si scalzava quel falso realismo, che dando corpo alle ombre, popolava il mondo di realtà immaginarie. Ma opera siffatta non poteva essere tentata se non da un riformatore della filosofia, il quale in verità era già nato e negli ultimi anni della vita di Dante aveva acquistata non poca fama nell’insegnamento. [66]

    VI.

    Con Guglielmo Occam, (morto intorno al 1349) il vigoroso restauratore del nominalismo, s’apre l’ultimo periodo, o vogliamo dire, la dissoluzione della Scolastica. Il Realismo, travagliato dalle interne scissure di tomisti e scotisti, battuto in breccia da opposti lati per opera dei mistici e degli sperimentalisti, era già un edifizio scrollato, quando l’ardimentoso minorita gli dette l’ultimo assalto. Non bisogna, egli diceva, moltiplicare gli Enti senza necessità [67] né attribuire un’esistenza sostanziale ai concetti della nostra mente. [68] La realtà può venir colta soltanto dalla diretta intuizione; [69] ciò che supera i confini della percezione immediata, o non può da quella essere mediatamente raccolto, non è argomento di scienza; onde mal s’appongono i realisti di ragionare di Dio, e del modo come egli pensi, e delle idee che in lui si accolgano; mentre il nostro circoscritto intelletto non può penetrare i misteri dell’Essenza divina. [70] Né meno assurdo è domandare il principio dell’individuazione, perché l’individuo è posto fin dall’origine tale qual è, né acquista per via le note individuatrici. [71] Questo audace filosofo seppe al pari di Dante sostenere le teoriche ghibelline, e

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