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Élite, The Satellite Trilogy Parte II
Élite, The Satellite Trilogy Parte II
Élite, The Satellite Trilogy Parte II
E-book395 pagine5 ore

Élite, The Satellite Trilogy Parte II

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Info su questo ebook

Grant Bradley non ricorda più nulla del proprio passato. Può la forza dell'amore avere la meglio sui limiti della memoria?

Ora che i suoi ricordi sono svaniti, Grant si è affermato come un Satellite dotato ma ribelle e dovrebbe essere in grado di godersi la vita nell'aldilà. Ansioso di dimostrarsi all'altezza delle altre Élite, scopre presto che i problemi per lui sono tutt'altro che finiti. I suoi amici gli stanno nascondendo qualcosa, le sue cicatrici stanno diventando inspiegabilmente dolorose e la vita della donna che deve proteggere sulla Terra sta andando a pezzi.

Élite, l'atteso seguito di Satellite, è il secondo capitolo di una trilogia ambientata in un meraviglioso mondo ricco di speranza. Continua a seguire Grant nel suo viaggio in questo imprevedibile aldilà.

LinguaItaliano
Data di uscita28 feb 2017
ISBN9781507150122
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    Anteprima del libro

    Élite, The Satellite Trilogy Parte II - Lee Davidson

    Élite, The Satellite Trilogy Parte II

    Lee Davidson

    Traduzione di Elisa Acquaviva

    A Nanna.

    Il tuo amore per i libri, i racconti e la scrittura in generale è stato di grande ispirazione.

    Mi manchi.

    Did you never know, long ago, how much you loved me—

    That your love would never lessen and never go?

    You were young then, proud and fresh-hearted,

    You were too young to know.

    —Sara Teasdale, Did You Never Know?

    Prologo

    Jonathan Clement intinge nuovamente la penna nel calamaio mentre scribacchia in un libro, seduto nel suo ufficio ottagonale e senza soffitto. Quando la porta si apre, la penna smette di volteggiare sulla pagina e Jonathan solleva lo sguardo dalla scrivania.

    «È bello vederti, Beaman. Ci sono novità?» chiede Jonathan.

    «Nessuna, signore. Sembra che non ricordi più nulla».

    Jonathan è contento della risposta di Beaman. Prima di replicare, sposta indietro la sedia , prende una barra di ferro dal camino alle sue spalle e marchia la copertina di un libro. «Prevedo degli ostacoli nel suo futuro. Ti dispiacerebbe continuare a tenerlo d’occhio?».

    «Certo. Devo continuare a fare rapporto quotidianamente?» domanda Beaman.

    Jonathan intinge la penna nel calamaio. «Sì, grazie».

    Beaman osserva incuriosito la penna. «Lo sai che siamo nell’era del digitale, vero?».

    Jonathan ride. «Ah, già. Le vecchie abitudini sono dure a morire, a quanto pare».

    1. È tutto ciò che conta

    Willow

    «Volevi vedermi?». Vorrei che la mia cenetta a lume di candela con Troy non fosse stata interrotta.

    «Sì, grazie per essere accorsa tempestivamente, Willow». Jonathan si ferma poco lontano dal corridoio K nel grande atrio di marmo. «Necessito della tua assistenza con un incarico».

    Vengo pervasa dall’ansia: il mio cuore si mette a battere all’impazzata mentre nella mia mente scorrono le immagini di tutte le mie Tragedie. «Di chi si tratta?».

    «Mi spiace dover dire Tatum Jacoby. Si sta allontanando dal suo percorso ancora una volta».

    Tate. Ci avrei scommesso che si sarebbe allontanata di nuovo. Cose come questa succedono spesso quando l’ordine naturale viene alterato. «Ma avevi detto... Non importa. Che le succede?». A parte il fatto che ha cancellato tutti i ricordi di Grant, vorrei aggiungere, ma non lo faccio.

    «La perdita di memoria di Grant è parte integrante del processo» spiega Jonathan, sfruttando la sua snervante abilità di leggere nel pensiero (può negare di averla quanto gli pare, ma non gli crederò mai).

    «Sappiamo entrambi che il modo in cui i suoi ricordi sono stati rimossi non è naturale» ribatto.

    «Nonostante il modo in cui gli sono stati portati via, era essenziale che li perdesse, soprattutto ora che...».

    «Ora che è un’Élite» mormoro, sapendo che Jonathan ha ragione. Forse.

    «Quando si è membri della squadra delle Élite, le distrazioni sul lavoro possono essere pericolose. Non sei d’accordo?».

    Esito un attimo prima di annuire. Gli incarichi di un normale Satellite sono già abbastanza estenuanti. Il ragazzo non ha idea di quanto sia ardua la strada davanti a lui. «Lavoriamo per rendere il mondo un posto migliore» dico con falso entusiasmo.

    Jonathan sorride. «Questo è lo spirito giusto. Vorrei che affiancassi Liam nel suo incarico con Tate finché non riusciamo a farla andare avanti».

    «Suppongo tu voglia che io vada subito».

    Jonathan annuisce a mi stringe una spalla.

    Addio pollo al Marsala e, ancora più importante, alla serata con mio marito.

    «Grazie. Sei una dei migliori, anche se non hai bisogno che te lo dica io».

    Di certo sa come lusingare una persona per farsi perdonare tutto. «Oh, andiamo Johnny, lo dici a tutti i Satelliti» scherzo. «Devo fare un qualche addestramento?».

    «A meno che tu non ne senta il bisogno, credo che tu possa cavartela senza. Se ti serve qualcosa, io sono qui. Buona fortuna».

    «Manderesti un messaggio a Troy per dirgli che lo vedrò alla prossima pausa?».

    Quando Jonathan annuisce, lo ringrazio e rovisto nella mia borsa. Le mie dita trovano la catenina d’oro di Tate e sussurro «Dislocazione», precipitando dal pavimento di marmo dell’atrio. Durante la discesa verso la Terra alla riscossa dell’ennesima Tragedia, penso a Troy. Almeno lui capirà. Dio, quanto amo mio marito. È molto più di quanto una ragazza possa sperare e io sono stata abbastanza fortunata da meritarmi di stare con lui per l’eternità. Questo compensa il fatto di essermi persa un bel po’ di anni della mia vita terrena.

    Faccio un respiro profondo, inalando il vento sibilante, e sorrido. Essere un Satellite è quasi bello quanto stare con mio marito. Mentre mi avvicino sempre più alle case sottostanti, mi sembra difficile credere che esista qualcosa di meglio. Sei mesi fa, prima che mi ricongiungessi a Troy, neanche io ci avrei creduto.

    Liam fa un salto fino al soffitto quando atterro; non riesco a trattenermi dal ridere sotto i baffi.

    «Santo cielo, donna!».

    «Che si dice?» chiedo a Liam, il bell’inglese. È strano vederlo con un’espressione sconvolta sul volto. Dovrebbe sbarazzarsi del cappello: i suoi capelli mossi e biondo ramato sono troppo perfetti per restare nascosti. Sposto lo sguardo su Tate. «Ho sentito dire che la nostra ragazza sta partendo per la tangente».

    Tate sembra abbastanza normale, a parte i jeans neri, la maglietta nera e il trucco nero. Le costole sporgenti non migliorano la vista d’insieme. Non posso biasimarla, poveretta, dato che ha perso il fidanzato e il fratello in pochi mesi. Se solo sapesse che sia Grant che Elliott sono Satelliti e che li rivedrà entrambi, renderebbe il mio lavoro qui molto più semplice. Ma siccome non è così, io e Liam dovremo spingerla verso la retta via. «È ancora in fissa con il nero, eh? Che peccato. Sta così bene con addosso dei vestiti colorati».

    «Il suo umore è nero come i suoi abiti. Non posso credere a quello che sto per dire, ma sono contento che tu sia qui. Un po’ di aiuto mi farebbe comodo».

    «Lo vedo. Hai fatto qualche proiezione durante le pause?».

    «Sì, ma dopo dieci minuti con lei la mia mente non è più tanto rilassata». Mentre Liam sta parlando, Tate alza il volume dello stereo fino a spaccare i timpani. «Ecco che ricomincia» grida Liam sopra il frastuono.

    «Ci penso io» urlo, concentrandomi sulla mia cortina di energia. Quando riesco a formare una bella sfera viola che fluttua davanti a me, dico «Offuscamento» e trasmetto i miei pensieri a Tate tramite la coltre che ci circonda.

    Abbassa.

    Ahi, fa male! Il mio corpo si contorce dal dolore. Spingi, Willow, spingi! Ripensare al parto mi fa focalizzare sull’obiettivo.

    «Blocco». Quando la connessione tra me e Tate viene spezzata, la cortina di vapore cade in mille gocce sul tappeto prima di sparire.

    Nella mia testa, alzo le braccia al cielo in segno di vittoria mentre Tate gira la manopola del volume, abbassandolo.

    Poi, mentre lei sposta l’attenzione verso la foto di famiglia sul comodino, chiedo a Liam: «Elliott ha già perdonato Grant?».

    Liam scuote la testa. «Non posso biasimarlo. Quell’idiota ha offeso sua sorella».

    «Non è che l’abbia proprio offesa. Secondo Clara, Grant avrebbe detto qualcosa del tipo: Tate è una Ribellione, e allora?».

    Come al solito, Liam non cede al mio tentativo di sdrammatizzare la situazione.

    «Okay, forse il modo in cui l’ha detto non è stato dei più gentili».

    «Una Ribellione, Willow. La cosa peggiore che possa accadere a una Tragedia, e Grant ha praticamente detto al fratello della ragazza che non gli importa niente. Non dimenticare che lui e Grant erano come fratelli. È stato insensibile».

    «Capisco Elliott, ma, in difesa del ragazzo, non si ricorda più di lei, quindi non aveva idea di quello che stava dicendo».

    Liam fa un sospiro melodrammatico.

    «Immagino che questo significhi che anche tu sei ancora arrabbiato con Grant?».

    «Devo sopportarlo anche qui, ricordi?». Accenna con lo sguardo a Tate. «Ha infranto ogni regola per stare con lei; ha persino lasciato da sola la sua stessa Tragedia, su cui avrebbe dovuto vegliare!».

    Trasalisco al pensiero che mio figlio sia stato lasciato senza protezione mentre Grant faceva visite illecite a Tate. Liam prosegue camminando per la stanza. «Ha cancellato i suoi ricordi uno alla volta. Ha distrutto tutto ciò che aveva a che vedere con lui: foto, musica, addirittura vestiti».

    «Lo so!». Rimpiango in fretta in mio tono tagliente, ma vorrei proprio che la smettesse di scaricare tutta la colpa su Grant. «Neanche a me è piaciuto il modo in cui gli sono stati portati via i ricordi; di solito non dovrebbero andarsene così, ma ormai non possiamo più farci niente. Il fatto è che ora che non ricorda più niente, com’è giusto che sia e com’è stato per tutti noi. Non è colpa sua e non è giusto che tu ed Elliott vi accaniate contro di lui».

    «È cambiato» dice Liam abbassando la voce.

    «Tutti noi siamo cambiati da quando siamo diventati Satelliti, Liam. È tutto ciò che conta. Tu dimentichi la tua vita, io dimentico la mia. Ecco a cosa serve la Programmazione: a restituirci i ricordi quando i nostri cari si ricongiungono con noi. Neanche tu sei stato molto veloce nel perdere la memoria, mi pare: hai mantenuto molti più ricordi della maggior parte dei Satelliti». Oh Signore, abbi pietà! Vorrei rimangiarmi quello che dico non appena le parole mi escono di bocca.

    Liam strabuzza gli occhi e la sua mano si ferma immobile sul suo cappellino. «Pensi che io voglia ricordare la mia morte?».

    «No, io...».

    «Pensi che io voglia ricordare l’espressione di mio figlio quando ha tirato fuori il mio corpo dall'acqua?» grida Liam.

    «No! Mi dispiace. Ma che ne dici dell’alternativa, Liam?» gli rispondo urlando, senza riuscire a calmarmi. «Che ne dici di dimenticare del tutto di avere avuto un figlio? Che ne dici di dimenticare di essere morta mentre lui veniva al mondo?».

    Ci ritiriamo entrambi nei nostri angoli, senza più dire una parola.

    «Cerca solo di dare tregua al ragazzo, Liam» dico infine. «Essere un Satellite non è sempre facile. Se lo fosse, saremmo molti di più».

    Mi occupo io di questo blocco, che è meglio di qualsiasi scusa possa rivolgergli. L’espressione riconoscente sul suo viso ne è la prova.

    2. Ora che abbiamo fatto le dovute presentazioni, mettiamoci all’opera

    Grant

    Un singolo colpo alla porta mi risveglia dal mio stato comatoso e mi costringe ad alzarmi dal divano verde vomito. Avevo giurato che avrei distrutto questo atroce divano che mi ha lasciato la mia mentore, ma a dire la verità, è piuttosto comodo. Anche se non lo ammetterei mai davanti a Willow, perché se si desse ancora delle arie esploderebbe come un palloncino.

    Quando apro la porta, non c’è nessuno in corridoio, solo una pergamena arrotolata ai miei piedi, senza dubbio spedita qui tramite la magia di Progression. Mentre vado in cucina, slego la cordicina di pelle e la lascio cadere sul pavimento in legno massello, certo che sarebbe svanito grazie, come ci si può aspettare, alla magia di Progression. L’odore stantio della lettera arricciata viene presto coperto dall’aroma di caffè.

    Caro Grant,

    Siamo onorati di darti il benvenuto nella nostra Élite di Satelliti. Per favore, recati in giardino durante la pausa per iniziare il tuo addestramento. Ti prego anche di cominciare la lettura del tuo incarico. Sai bene che se te lo chiediamo vuol dire che è importante.

    —S

    Scoppio a ridere ripensando a un messaggio simile ricevuto da S, quando non ho eseguito un blocco durante il mio primo (e finora unico) incarico. A quanto pare, i Pianificatori delle nostre vite sono al corrente che non ho ancora iniziato la mia lettura. Pensa un po’.

    In realtà, sto procrastinando per rimandare la conoscenza della mia prossima Tragedia, perché sono troppo agitato riguardo a quello che mi aspetta. Proteggere Ryder non è stato proprio facile; e quello era un comune incarico. Non oso immaginare cosa possa comportare un incarico da Élite.

    Torno sul divano, sorseggiando un caffè extra forte, poi poso la tazza per prendere il libro degli incarichi da sopra la vecchia cassapanca che ora funge da tavolino (un’altra delle folli trovate di Willow). Il libro è molto più pesante di quel che sembra; sicuramente molto più di quello di Ryder. Cerco di non pensare al perché.

    Leggo il mio nome e il titolo Secondo Incarico sulla copertina viola scuro, soffermandomi sulla terza riga: Élite. Riluttante, apro il libro e la rilegatura scricchiola, in atteggiamento di sfida. Passo alla prima pagina e riconosco la familiare calligrafia elegante.

    Caro Grant,

    È con grande piacere che ti do il benvenuto nella nostra Élite di Satelliti. Hai dimostrato di essere un ottimo Satellite. La tua integrità, empatia e gentilezza saranno qualità fondamentali per i tuoi prossimi incarichi.

    Essere scelti per entrare a far parte delle Élite è la più grande onorificenza di questo programma. Mi aspetto che ti guadagnerai il rispetto e l’apprezzamento delle altre Élite.

    Se mai ti servisse la mia assistenza, non esitare a contattarmi.

    Ti auguro il meglio,

    Jonathan Clement

    La pagina seguente si intitola «L’Inizio» ed elenca le solite istruzioni per ritardati. Mi raddrizzo e faccio come indicato, posando il palmo sulla pagina. Il contorno della mano disegnata mi calza a pennello.

    All’inizio sento solo un leggero strattone, ma subito dopo ho la sensazione che il braccio mi si stia staccando il braccio dal corpo. Quando vengo risucchiato all’interno del libro, strizzo gli occhi mentre passo attraverso l’opprimente vortice nero. So bene che non mi conviene neanche provare a respirare. Al contrario, faccio di tutto per concentrarmi su altro che non siano i mille aghi invisibili che mi trafiggono il corpo.

    Finalmente atterro sul pavimento polveroso della sala circolare che assomiglia all’interno di un pozzo e mi calmo inspirando l’aria umida. Però l’oscurità sopra di me mi fa sentire a disagio. «Beh, si parte» dico ad alta voce, desideroso di uscire da questa claustrofobica prigione piena di porte arrugginite.

    GPS Jeanette, la voce personalizzata di Progression, cinguetta nella stanza: «Benvenuto, Grant Bradley. Per favore, resta in attesa mentre configuro il tuo incarico».

    Dopo un rimbombo, il muro circolare comincia a ruotare in un turbinio grigio. Mi concentro sui miei scarponi e sul suolo coperto di polvere, felice che almeno loro rimangano immobili.

    Il muro si ferma con un ding, presentandomi un’unica porta davanti. «Il tuo incarico inizia nell’anno 1976, con la nascita della Tragedia Meggie Ann Lotashey. Per favore, procedi attraverso la porta davanti a te» mi guida GPS Jeanette.

    Respiro inalando l’odore di terra. La porta mostra il numero «1976» in caratteri di ferro. Quando giro il pomello, una scarica elettrica mi attraversa da capo a piedi. Vengo accolto nella stanza dall’odore pungente di antisettico e luci abbaglianti. Ogni volta che espiro, il mio fiato rimane sospeso nell'aria come fumo, anche se la temperatura è come quella di Progression.

    Sei dottori in camice e mascherina blu sono riuniti intorno a un tavolo. Essendo più alto, mi affaccio oltre le spalle di due di loro per vedere cosa attira la loro attenzione, ma poi mi ritraggo, sconvolto.

    «Aspirazione» dice una voce maschile, seguita dal suono di un risucchio d’aria che si trasforma in un gorgoglio.

    Probabilmente perché sono un ragazzo, sono affascinato dalla vista del sangue, quindi mi volto per dare un’altra occhiata. Un cuoricino delle dimensioni di una noce sta pulsando dentro a una minuscola cassa toracica.

    «Pinze» chiede il dottore, prima di trafficare nell’area interessata con lo strumento argentato.

    Distanziandomi dal gruppo, afferro i bordi del piano di acciaio e deglutisco. Il sangue è un conto; altra cosa è il fatto di infilare degli strumenti nel corpo di un neonato. Non avrei mai potuto fare il medico.

    Dopo aver dato qualche altro ordine, alla fine una voce maschile esclama: «Buon compleanno, Meggie. Penso proprio che diventerai una combattente». Fa un passo indietro e si abbassa la mascherina. «Ricucite. Avete fatto un buon lavoro».

    Mi sento mancare il terreno sotto i piedi e cerco un appiglio in aria mentre vengo scaraventato via dalla stanza. I miei scarponi toccano il suolo polveroso e la porta di metallo si chiude con un tonfo.

    Il muro di pietra ricomincia a vorticare intorno a me. Quando l'ormai familiare ding annuncia l’arresto della rotazione, invece di dire: «Puoi ora muoverti liberamente per la cabina» GPS Jeanette mi comunica «Per favore, procedi verso l’anno 1980» con voce sinistramente calma.

    Spingo la porta, mi riprendo dalla scossa ed entro in una cucina dai muri gialli. La stretta sala è piena di palloncini e persone.

    Mi appoggio al muro e mi sfugge una nuvoletta dalla bocca; guardo oltre l’ingresso, dove c’è una stanza addirittura più piccola di questa, sommersa da una marea di fiocchi rosa, decorazioni e pacchi regalo.

    La folla in cucina finisce di intonare «Tanti auguri, cara Meggie, tanti auguri a te» e la bambina seduta al tavolo dimostra la sua approvazione facendo un sorriso a trentadue denti.

    «Dovresti stare allo zoo» canta un ragazzino seduto di fianco a lei quando Meggie tenta di soffiare sulle quattro candeline per spegnerle, sputacchiando dappertutto. È alto e largo il doppio di lei, ma ha gli stessi capelli biondo platino. Se il bambino al lato opposto di Meggie non indossasse una maglietta rossa invece di una blu, giurerei di vederci doppio.

    «Max e Ryan!». Venti dollari che la signora è mamma orsa, perché nessun altro qui dentro ha i capelli tanto biondi quanto i tre bambini.

    Meggie fa la linguaccia ai gemelli.

    Vengo spinto via, seguito dal suono di un tuono metallico. Quando il muro rotante si ferma, GPS Jeanette mi suggerisce di passare all’anno 1984. Entro nel salotto che alcuni istanti fa era pieno di regali. Nell'aria c’è odore di qualcosa di rancido. Un grido acuto mi fa trasalire e sbatto con la schiena contro il muro accanto al divano.

    «Sei un’inutile donna!». La voce proviene da un dongiovanni in camicia che ritengo essere la probabile causa di questo tanfo. La faccia imperlata di sudore spiega le orribili chiazze sulla sua camicia Si fionda su mamma orsa mentre lei si china su Meggie per farle da scudo.

    Mi viene l’istinto di bloccarlo, ma poi mi ricordo che questo è il passato: cercare di bloccarlo sarebbe come tentare un blocco su una scena di un film.

    I capelli di mamma orsa sono intrisi di sangue e le sue spalle fanno dei piccoli sobbalzi al ritmo dei suoi singhiozzi silenziosi. La piccola Meggie, invece, non cerca neanche lontanamente di placare i suoi strilli. Stringo i pugni mentre l’ubriacone sputa sul muro. Esce dalla stanza come un elefante goffo e traballante.

    Mamma orsa sussulta quando la porta sbatte facendo tremare i muri. Le fotografie sopra il divano oscillano. Dandomi le spalle, la donna si alza, diffidente. Fa segno a Meggie di rimanere dov’è e attraversa il salotto in punta di piedi, tenendo una mano sulla parte bassa della schiena. Dà una rapida occhiata all’ingresso prima di sparire in cucina.

    Mi viene un nodo allo stomaco e rivolgo l’attenzione su Meggie per quasi un minuto. Mi volto verso l’entrata per vedere perché ha gli occhi spalancati.

    Mi copro la bocca con una mano, ma, anche se soffocato, il mio grugnito si sente forte. Ogni parte di me vorrebbe trovare quell’uomo, fargli rimpiangere quello che ha fatto a questa donna.

    «Mamma?» squittisce la piccola Meggie.

    Sento mancare il terreno sotto i piedi e cado su un pavimento duro, piegato in due. Vomito e si alza una nuvola di polvere; poi il mio pranzo scompare. L’immagine del viso di mamma orsa, malmenato come da un batticarne, è impressa nella mia mente.

    Il muro deve aver già completato la rotazione, perché GPS Jeanette sta dicendo: «Per favore, procedi verso l'anno 1989». Mi pulisco la bocca con il dorso della mano, contrariato all’idea di dover varcare un’altra porta. Faccio un respiro profondo e giro il pomello, riluttante.

    Il bip di un macchinario mi fa venire la pelle d’oca sulle braccia e sento una stretta allo stomaco. Quanto odio gli ospedali. Meggie sta dormendo sul lettino. Sua madre, il cui volto è rovinato da un occhio nero e una profonda cicatrice sulla guancia, è seduta accanto a lei. I gemelli sono stravaccati su due sedie dall’altra parte del lettino.

    La madre di Meggie si alza quando un uomo di mezza età con indosso una cravatta dalla fantasia stile dalmata entra nella stanza. Apre una cartellina e dà un’occhiata a una delle pagine. Trenta secondi dopo, si rimette la cartellina sotto il braccio e annuncia: «Sono molto soddisfatto dei risultati delle analisi riguardo alla salute del cuore di Meggie. So che queste crisi possono far paura, soprattutto perché Meggie ha già subito un’operazione, ma il suo cuore è sano e normale come quello di una qualsiasi tredicenne. È una buona notizia». Il dottore prende una penna e un taccuino dalla tasca e scrive qualcosa mentre spiega. «Le sto prescrivendo dei sonniferi che dovrebbero aiutarla».

    La madre di Meggie si volta verso la figlia annuendo a malapena. A voce bassa, dice: «Non importa quante volte io le dica che lui non tornerà, lei ha sempre gli incubi».

    I miei piedi perdono l’appoggio e vengo rispedito nella sala di pietra. Dopo la solita procedura, varco controvoglia la porta del 1992, ma non mi ritrovo in una stanza.

    Il mio fiato forma delle nuvolette che riempiono la parte posteriore di quello che si direbbe più un go-kart che un’auto. Mi porto le ginocchia al petto e resto lì come una sedia pieghevole.

    Il ragazzo nel sedile del passeggero di fianco a Meggie ha un pomo d’Adamo notevole e una voce più profonda di quando mi aspettassi. «Ora, lascia la frizione e spingi l’acceleratore. Piaaaaano».

    La macchina sobbalza e veniamo spinti in avanti così forte che sbatto il mento sulle ginocchia.

    Meggie corruga le sopracciglia biondo platino come per chiedere scusa. «Meglio?».

    Il ragazzo scoppia a ridere. «Non proprio, ma ce la farai... oppure farai impazzire la mia frizione. In ogni caso, mi devi una cena».

    Dopo aver fatto saltare la macchina in avanti altre tre volte e averla fatta spegnere una volta, il ragazzo sorride. «Che ne dici di fingere di non essere un coniglio?».

    Riderei se non fossi così raggomitolato.

    Meggie gli dà una pacca sul braccio. «Brody, non sei d’aiuto!».

    Vengo risucchiato fuori dall’auto e atterro nella stanza polverosa, felice di poter finalmente stendere le gambe. Dopo la solita routine, appare la porta «1994».

    Un accumulatore seriale avrebbe una crisi d’identità in questa stanza. Poster e fotografie coprono ogni centimetro della parete. Lo stereo, con il volume al minimo, è quasi grande quanto la camera.

    Brody, il cui corpo è ora proporzionato al suo pomo d’Adamo, è riuscito a trovare uno spazio libero tra i vestiti sparsi a terra. Meggie è seduta sul letto dietro di lui e gli sta massaggiando le spalle. È più alta e più snella, ma non allampanata. I suoi capelli chiarissimi sono più lunghi e raccolti in una coda alta laterale.

    «Qual è il problema? Rifai il test» dice Meggie.

    «Il risultato non migliorerà» replica Brody, guardando il pavimento.

    «Perché no?».

    «Perché non sono come te!».

    Meggie scivola indietro sul letto e si accovaccia in un angolino. Un secondo dopo, Brody è in piedi, chino su di lei, il che la fa rannicchiare ancora di più quasi nella posizione che avevo assunto nel sedile posteriore qualche minuto fa.

    «Ehi». Brody le mostra i palmi delle mani come se stesse cercando di tranquillizzare un cavallo selvaggio. «Mi dispiace».

    Negli occhi azzurri della ragazza si scorge la sua paura mentre lui le si avvicina pian piano. «Mi dispiace» ripete, poi scatta in avanti. Lei sparisce nel suo abbraccio mentre lui le parla nei capelli. «Io non sono lui. Va tutto bene, io non sono lui. Non ti farei mai del male».

    Mi sento il cuore in gola quando vengo trascinato nella sala di pietra. La porta si chiude sbattendo e il tonfo riecheggia nella stanza circolare.

    «Grazie, Grant. La tua prima sessione termina qui. Per favore, ritorna dopo la pausa» mi istruisce la voce di GPS Jeanette. Vengo lanciato in alto, attraverso l’oscurità, quando ancora non sono pronto. I miei polmoni si comprimono per la pressione e mi sforzo di respirare.

    Quando il libro mi sputa fuori, atterro pesantemente, ma almeno sono ancora in piedi. La rilegatura cade sul pavimento di legno con un tonfo e il libro si chiude. In questo momento, il mio calimetro si mette a squillare, indicandomi che è iniziata la pausa.

    Mi passo una mano tra i capelli e mi chiedo se mi ci abituerò mai, sia a questi viaggi alternativi che allo sbirciare nel passato delle Tragedie.

    *******

    Con una tazza di caffè al seguito, prendo l’ascensore diretto giù, all’immenso atrio di marmo. GPS Jeanette, della quale ne ho già avuto abbastanza per oggi, mi augura una buona giornata mentre esco dalla cabina dorata.

    Lancio uno sguardo al Benson sulla strada per il giardino, desiderando entrare e unirmi al mio gruppo. Vengo quasi persuaso dal pensiero, ma immagino che Jonathan non sarebbe contento se arrivassi in ritardo al mio primo giorno di addestramento.

    Il mio battito cardiaco accelera (dal nervosismo, suppongo) quando arrivo davanti alla portafinestra del giardino nell’atrio. La porta colossale mi dà il benvenuto nel paradiso di ogni amante del verde. Nell’aria aleggia il profumo dei denti di leone, anche se non ce n’è traccia sul prato perfettamente curato.

    In fondo al sentiero di pietra e oltre il campo di addestramento, un gruppetto di Satelliti sta chiacchierando. Il cuore mi batte all’impazzata non appena realizzo che non ho pensato molto (anzi, che non ho pensato per niente) all’addestramento. Mi torna alla mente Willow e la sua folle voce che mi dice «Di nuovo» più e più volte, durante l’addestramento per imparare il blocco. Mentre vado verso il campo tremo e mi sforzo di raddrizzare le spalle.

    Jonathan è uno dei cinque sul prato, vestito come sempre in modo casual. Probabilmente per un gruppo così ristretto non c’è bisogno di un formale raduno sulle tribune. Quando sorride, la serietà svanisce dal suo volto. «Benvenuto, Grant».

    Riconosco gli altri quattro da Élite Force Seven, il videogioco più gettonato qui in giro. Mi chiedo se da adesso ci sarò anche io nel gioco. Il solo pensiero è orripilante.

    Jonathan mi indica una ragazza semplice, ma molto carina. I suoi folti capelli rossastri sono legati a casaccio in uno chignon grande quanto il Texas. «Vorrei presentarti Trina. È nella nostra squadra da sedici anni».

    «Come Satellite o come Élite?» chiedo, a nessuno in particolare, mentre le stringo una mano tanto delicata quanto il suo fisico, facendola sparire nella mia.

    «Come Élite» risponde Jonathan. «E poi c’è Reed. Trentatré anni».

    Guardo di sfuggita i suoi capelli appuntiti e i vari piercing mentre gli stringo la mano, ripensando al nostro incontro mesi fa e all’utile consiglio che ha suggerito a Willow riguardo al mio problema con la proiezione. Ora che la proiezione mi viene praticamente in maniera naturale, è quasi imbarazzante pensare che una volta non ci riuscivo.

    «Grazie per avermi aiutato con quel problema» gli dico, così per parlare.

    Gli occhi di Reed sfrecciano su Jonathan e poi, quando tornano di nuovo su di me, cambia espressione e mi guarda come se fossi lo scemo del villaggio. Normalmente questo mi darebbe fastidio, ma trattandosi di un tizio che ha lo stesso stile di Willow (Dio la benedica), non

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