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Come petali di ciliegio
Come petali di ciliegio
Come petali di ciliegio
E-book349 pagine4 ore

Come petali di ciliegio

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Info su questo ebook

Isabel Devlin è irlandese, ma da un anno si è trasferita a Tokyo per  studiare tecnica del fumetto. Ha talento, è bella, sveglia e determinata a fare strada nel mondo dell’illustrazione. Vive in un monolocale con Mei, una sua compagna di corso e ha una storia con Tyler, un ragazzo di Seattle che frequenta pediatria. Tyler vive con il suo amico di vecchia data Ryuu, un incrocio genetico tra occidente e oriente, un tipo bello e imperscrutabile. Studente modello di neurologia, ma anche sportivo, colto e profondo, questi si rivela essere un vero esperto di kinbaku, l’arte del bondage giapponese. All’inizio Ryuu dimostra una certa insofferenza nei confronti di Isabel, mentre Ty fa di tutto affinché l’amico accetti la ragazza di cui si sta follemente innamorando. Ma quando Isabel si trova a dover superare un esame di disegno sull’arte erotica della legatura, Ryuu acconsente a farle provare la pratica e questo basta ad accendere in lei il desiderio. Appena slegata corre da Ty per essere soddisfatta, ma presto si rende conto che non è lui che voleva. Tra la gelosia e l’insoddisfazione di Ryuu, il desiderio di Tyler di concretizzare con Isabel e lo spaesamento e l’incertezza di quest’ultima, la storia tra i tre si dipana in un crescendo di erotismo e sensazioni non sempre facili da decifrare...

Tokyo non è mai stata così sensuale

«L’ho adorato dalla prima all’ultima pagina, l’autrice ti trasporta dentro questo mondo senza che tu te ne accorga. Avrei voluto non finisse mai.»

«Tokyo è la protagonista silenziosa di questa storia ambientata tra le sue tipiche case di periferia, gli stretti vicoli del centro,  l’affollato ordine delle stazioni dei treni, i colorati templi buddisti, le imponenti università e i viali fatti di ciottoli e ciliegi in fiore.»

«Se qualcuno mi avesse predetto che mi sarei potuta appassionare dell’arte della legatura erotica non gli avrei creduto. Che viaggio bellissimo è questo romanzo!»

Mia Another
è lo pseudonimo di una scrittrice che vive nel modenese. Classe 1992, introversa, ama gli animali e l’autunno, è un’appassionata di videogames e fumetti. La scrittura è sempre stata al centro della sua vita. Dopo aver lavorato per anni in un web magazine a tema hi-tech, ha iniziato la sua avventura nel selfpublishing nel 2014, pubblicando romanzi di genere New Adult e facendosi strada tra i social.
LinguaItaliano
Data di uscita14 nov 2019
ISBN9788822739629
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    Anteprima del libro

    Come petali di ciliegio - Mia Another

    1

    Amico, tempesta

    Ryuu

    Siamo sdraiati sul tatami, stanchi per l’allenamento e storditi dal sakè, a guardare le stelle che, almeno in questa parte meno inquinata ai confini della città, sono ancora visibili nel cielo notturno. Le luci soffuse che provengono dalla nostra stanza e dal televisore acceso sono le uniche a dare un po’ di vita al sentiero sterrato, insieme al frinire dei grilli e al ronzio di un telegiornale locale. La vista che si staglia davanti ai nostri occhi trasmette tutta la calma della sera: i campi arati da poco e attraversati da un pigro ruscello, il fruscio delle canne di bambù e dell’erba alta, il piccolo capanno in lontananza, l’eco leggero del vento tra le piantagioni.

    Il bello di vivere lontani dal centro di Tokyo è proprio questo. Puoi ancora fingere di essere solo, di non dover affrontare i volti della gente e la metropolitana sovraffollata, le piazze gremite di pendolari e studenti. Puoi respirare aria pulita, sentire i profumi delle piante, della terra umida, e assaporare il silenzio, quello vero, così assordante che ti culla per tutta la notte.

    Sarebbe tutto perfetto, se solo non sentissi sotto il naso la scia di fumo del mio amico.

    «Ehi, Ty».

    «Mhm?»

    «Dai, spegni la sigaretta».

    «Lasciami in pace, l’ho quasi finita».

    «Ty», insisto. «Il mio corpo è un tempio, non inquinarlo con il tuo fumo passivo».

    Ride, mi accontenta, l’odore del tabacco rimane nell’aria ancora per qualche minuto, prima di iniziare a dissiparsi.

    «Per caso hai preso qualche chilo, ultimamente?», mi prende in giro, dandomi un fastidioso colpo sullo stomaco con il dorso della mano. «Perché ho l’impressione che il tuo tempio abbia iniziato a espandersi…».

    «Idiota», bofonchio irritato. «Ho passato giornate intere sui libri senza potermi allenare. Recupererò in fretta».

    «Almeno l’esame è andato bene», risponde, mettendosi le mani dietro la testa a mo’ di cuscino e guardando fuori, verso l’alto. «Quando inizi il nuovo tirocinio?»

    «A fine mese».

    «Ottimo, dovremmo festeggiare! Era una vita che non ti facevi vivo, ti sei praticamente trasferito al dōjō di tuo zio».

    «Lì c’è l’atmosfera giusta per concentrarmi e meditare».

    «Quindi, non hai fatto nient’altro che studiare in questi giorni?».

    Annuisco.

    «E tu?»

    «Solite cose. Sono stato in giro e sto… uscendo con una ragazza», mi confessa, con una punta di imbarazzo. «Una ragazza molto carina».

    «Ma se dici sempre che non ti piacciono le donne giapponesi».

    «Non è giapponese. È irlandese», spiega. «Studia arte, è una fumettista in erba. E i suoi disegni sono…». Scuote la testa, alla ricerca dell’aggettivo adatto, che però non riesce a trovare. «Wow».

    «Ti ha mostrato i suoi disegni?»

    «E non solo quelli».

    «Tyler».

    «Ti ho già detto che è molto carina? Alta, capelli lunghissimi, occhi di ghiaccio, un sedere perfetto».

    «Ty», ripeto. «Dovresti concentrarti sugli studi, sei a un punto importante».

    Mi ignora. Continua a blaterare guardando il cielo e picchiettando sul tatami con le dita, entusiasta come un bambino.

    «A letto è una bomba. Voglio dire, all’inizio è dolce e sensuale, ma poi si scatena e diventa selvaggia».

    «Ci sei già andato a letto?»

    «Be’, ormai è da un mese che ci vediamo, anche se non ho avuto il tempo di parlartene».

    Sospiro.

    «Dimmi almeno che non l’hai portata qui».

    «L’ho portata qui».

    Prima che possa infuriarmi, aggiunge: «Vive in un minuscolo monolocale insieme alla sua coinquilina che non esce mai di casa, non ho avuto scelta. Scusami tanto se ho profanato il tuo rifugio, Ryuu».

    «Esistono i love hotels», sbotto. «Ah, e poi ti stupisci se vado a studiare al dōjō».

    «Non mi è venuto in mente. Scusa».

    E pensare che le regole per la nostra convivenza sono semplici. Questa casa apparteneva ai miei nonni paterni, ed esigo che la sua quiete venga rispettata. Ci è stato concesso di rimanere qui fino al termine degli studi, e dobbiamo mostrarci riconoscenti. Niente feste, niente donne, niente baccano. Se Tyler ha bisogno di divertirsi, può fare un giro tra i locali di Shibuya.

    Abbasso le palpebre, inspiro l’aria fresca della sera. Sono troppo rilassato per arrabbiarmi.

    «Non fa niente».

    «Vuoi dire che posso portarla di nuovo qui?»

    «A patto che tu me lo dica prima, così potrò andare a dormire al dōjō. L’ultima cosa che voglio è sentirti fare sesso».

    «Faresti davvero questa eccezione per me, Ryuu?».

    Sbuffo.

    «Purché non diventi una costante. In fondo, vivi qui anche tu, per ora».

    «Grazie!».

    Sono stanco, ho il torcicollo e mi fanno male le spalle. Sento tutta la tensione che ho accumulato in questi giorni scendere lungo la mia spina dorsale.

    Credo che andrò a dormire.

    Mi alzo svogliatamente e rivolgo un ultimo sguardo fuori.

    «C’è la luna piena, stasera», noto, con voce roca e stanca.

    «Mmh».

    Faccio per accostare le porte scorrevoli, mentre una folata di aria gelida mi investe il viso.

    «Si sta alzando un vento freddo. Sarà meglio chiudere».

    «Già».

    Ty è mezzo addormentato, ha le ginocchia piegate e i piedi scalzi poggiati a terra. Ormai mi risponde solo a monosillabi.

    «Resti ancora qui?»

    «Solo altri cinque minuti».

    Il vento sta iniziando a fischiare. Il teru bōzu appeso alla finestra di camera mia oscilla impazzito, la corrente smuove le pagine del libro sulla mia scrivania.

    Non è una notte come tante. Ci sono troppi segni di cambiamento, sta per succedere qualcosa di importante. Terrò gli occhi ben aperti nei prossimi giorni. Sento che si sta avvicinando una tempesta.

    2

    Incontro, scontro

    Isabel

    Non mi divertivo da una vita. Da quando sono arrivata qui non ho fatto altro che studiare e sporcarmi le dita di grafite, imbrattare fogli e cercare di comprendere una lingua che non conoscevo, sopravvivendo in una cultura totalmente diversa dalla mia e mangiando solo snack e surgelati in un minuscolo monolocale condiviso. E poi, è arrivato Tyler.

    Per lui è stato così semplice. È entrato in quel locale, ha ordinato da bere e mi ha rivolto la parola senza pensarci due volte, anche se ero in disparte a sorseggiare un cocktail analcolico con una cannuccia.

    Ha attirato la mia attenzione con una battuta stupida, sorrideva e parlava la mia lingua, aveva un viso amichevole, e poi… ho pensato che fosse il ragazzo più carino che avessi incontrato da quando sono venuta a studiare qui.

    La facoltà di Belle arti della Geidai è davvero durissima, e mi sono promessa di non distrarmi. Ho già saltato qualche lezione a causa sua, ma quando siamo insieme mi sento bene. È una boccata d’aria fresca.

    È la seconda volta che mi porta qui, e penso che questa casa sia fantastica. Lo stile è tradizionale, ci sono le pareti shōji, il tatami sul pavimento e persino un kotatsu. Le stanze sono ampie e piene di luce, tutto intorno c’è silenzio, profumo di campagna e la tranquillità di un quartiere fuori città.

    Stamattina mi sono alzata presto, mi sono rivestita e ho dato una leggera sistemata ai capelli e al trucco, dopodiché sono rimasta rannicchiata sul letto ad aspettare che Tyler si svegliasse. Non ricordavo nemmeno dove fosse il bagno, e per di più avevo una paura tremenda di incrociare il suo coinquilino. Da come me ne ha parlato, sembra una persona scorbutica e intrattabile. Non vuole che si facciano feste in casa, non tollera la presenza delle ragazze di notte e ha vietato la musica a tutto volume: un vero spasso.

    «Accidenti, è tardissimo», dice Ty, dopo aver indossato la sua felpa e aver dato un’occhiata al cellulare.

    «Non fa niente. Non ho lezioni, stamattina», gli rispondo, infilando le mani nelle tasche dei jeans.

    «Io invece sì. Scusami, non penso di fare in tempo ad accompagnarti a casa».

    «Non ce n’è bisogno, Ty. Sono in grado di prendere un treno e raggiungere il mio appartamento da sola».

    «Ok. Andiamo alla stazione insieme, allora».

    Iniziamo a scendere le scale. Il corridoio è stretto e non riesco a vedere nulla oltre le spalle di Ty, ma sento l’odore dolciastro dell’incenso. E poi, il suono di una campana e un battito di mani.

    «Il tuo coinquilino è qui?», chiedo preoccupata.

    «Credo di sì. Di solito esce prima, è strano che sia ancora in casa a quest’ora».

    «Oddio, morirò di vergogna!».

    «Tranquilla, probabilmente non ti guarderà nemmeno. Sarà troppo infuriato con me per accorgersi della tua presenza».

    Mi sento un po’ ansiosa. Non ho mai visto questo tizio, e non posso fare a meno di immaginarlo come un cane rabbioso pronto a mangiarmi la faccia.

    «Oh… Scusa, Ryuu. Non volevamo interromperti».

    Tyler avanza, e riesco a scorgere la figura del suo coinquilino. È inginocchiato davanti a un tradizionale altare per i defunti, ha le mani giunte e le palpebre abbassate. Spegne la candela agitando una mano e fa per alzarsi.

    Mi guarda brevemente, e io faccio altrettanto. Ha l’abbigliamento tipico di uno studente modello della Tōdai, il classico figlio di papà irreprensibile e con la media da record. I suoi lineamenti sono evidentemente giapponesi, ha i capelli scuri e folti, un po’ lunghi sul collo, zigomi alti e occhi talmente neri da non poter distinguere la pupilla dall’iride. Sembrano due voragini profonde e piene di indignazione.

    Nonostante sia visibilmente infastidito, il suo atteggiamento trasmette una calma esemplare.

    «Ho finito», mormora, scambiando un’occhiata con Ty.

    Ripensandoci, non credo che questo ragazzo sia del tutto giapponese. È molto alto, ha un fisico imponente, il mento pronunciato, e parla con l’accento di Seattle. Deve essere un hāfu, come dicono da queste parti. Un ragazzo di sangue misto. Mi sorprende pensarlo, ma questa combinazione di tratti lo rende davvero molto bello.

    «Come mai il rituale?», riprende Tyler, arricciando il naso. «È l’anniversario della morte dei tuoi nonni, o qualcosa del genere?».

    Ryuu gli rivolge un’occhiata pungente, colpendolo con un silenzioso rimprovero.

    «Qualcuno doveva pur mostrare un po’ di rispetto in loro memoria, dato che voi avete profanato la loro casa», lo fulmina. «Avresti dovuto avvisarmi, avevamo un accordo».

    Adesso sì che mi sento in colpa. Vorrei dire qualcosa, ma temo che qualsiasi mio intervento potrebbe solo peggiorare la situazione.

    «Lo so, ma è stata una cosa improvvisa, tu stavi dormendo e non ho voluto disturbarti», gli spiega allegramente Ty, riuscendo a smorzare un po’ la tensione. «Comunque, lei è Isabel».

    Abbozzo un inchino formale, come quello che fanno le mie compagne di corso quando si presentano. Ce la sto mettendo tutta per fare una buona impressione, ma Ryuu sembra già detestarmi. Mi fissa con severità, come se fossi una sgradevole intrusa.

    «Ha ragione, siamo stati scortesi», ammetto.

    Provo ad avvicinarmi al piccolo altare, mi inginocchio. Non so esattamente come funzioni questo rituale, ma voglio rimediare. Giungo le mani, guardo la foto vicino all’incenso: sono due simpatici vecchietti che sorridono fieri davanti a un campo coltivato. Chiudo gli occhi e sussurro delle scuse.

    «Perdonateci per la nostra invadenza».

    «E per la testiera del letto!», mi fa eco Tyler sgraziatamente e a voce alta, rovinando le mie intenzioni.

    Sospiro, mi rialzo. Il suo coinquilino è ancora più indignato, e io vorrei solo sparire sottoterra. Credo di averlo offeso profondamente con il mio tentativo mal riuscito di mostrare rispetto ai nonni defunti. Accidenti, che figuraccia.

    «Io vado al dōjō. Ci vediamo più tardi», dice seccato, afferrando una tracolla poggiata sul tavolo e voltandosi per uscire di casa. Fuori, vicino all’ingresso, è appeso un campanello di metallo scuro con una cordicella rossa, che suona investito da una folata di vento forte. Prima di allontanarsi, Ryuu si ferma e mi rivolge un’ultima occhiata obliqua.

    «Wow», esclamo non appena rimaniamo soli, lasciando uscire l’aria che ho trattenuto nei polmoni finora. «Credo che mi detesti».

    «Mi dispiace per i suoi modi, Isabel. Non farci caso, non ce l’ha con te. Ryuu è solo…». Fa spallucce. «Be’, lui è fatto così».

    «Vi conoscete da molto?»

    «Da quando eravamo bambini». Abbassa la testa, sorride tra sé e sé, si passa una mano tra i corti capelli biondi. «È una storia lunga».

    «Raccontamela. Abbiamo tempo durante il tragitto».

    Lo seguo, incrocio le mani dietro la schiena e insieme usciamo di casa. La macchina di Ty è parcheggiata nel vialetto, ma da qui ci conviene raggiungere la fermata degli autobus a piedi, dato che è vicinissima.

    «Dunque…», sospira, camminando accanto a me. «Il padre di Ryuu è il cardiochirurgo che mi ha operato quando avevo cinque anni. Potrei definirlo l’uomo che mi ha salvato la vita, suppongo».

    Sorride sereno, ma io spalanco gli occhi e lo fisso stupita.

    «Santo cielo, hai subìto un’operazione al cuore?».

    Avevo già intravisto quella sottilissima linea chiara sul suo petto, mentre si spogliava, ma ho fatto finta di niente. Una cicatrice può significare molte cose: una rissa, un taglio, un incidente, brutti ricordi. Ho preferito non fare domande.

    «Una forma grave di soffio cardiaco», mi dice tranquillo. «E non preoccuparti, adesso sto bene», mi rassicura, prima di riprendere il suo racconto. «Comunque, il dottor Hirai si affezionò in modo particolare a me, perché ero il suo paziente più giovane, e avevo la stessa età di suo figlio. Così, un giorno portò Ryuu in ospedale per farmelo conoscere, e da allora siamo rimasti in ottimi rapporti. Ci siamo iscritti allo stesso liceo, e dopo il diploma abbiamo deciso entrambi di studiare medicina, anche se abbiamo optato per due specializzazioni totalmente differenti», spiega, gesticolando un po’. «Suo padre ci teneva a fargli frequentare l’Università di Tokyo, e in qualche modo ha convinto anche me a cimentarmi nei test di ammissione. Non immaginavo che sarei riuscito a superarli, ma mi sono ritrovato qui, dall’altra parte del mondo. I suoi genitori ci hanno messo a disposizione questa casa per il periodo degli studi e… Be’, è stata l’opportunità più grande della mia vita. Non potrò mai essergli abbastanza grato».

    «Che bella storia», rispondo assorta.

    «È il tuo turno», mi sprona Ty. «Raccontami qualcosa di te».

    Ed ecco che mi succede di nuovo. Le idee, le parole, i ricordi, si accumulano nella mia testa formando una nebulosa confusionaria dalla quale non riesco a tirar fuori nulla. Vorrei parlargli di me, raccontargli i miei sogni, dirgli quanto sono felice di studiare arte a Tokyo, ma non riesco a mettere insieme un discorso sensato.

    «Io non ho molto da raccontare. Voglio diventare una fumettista e ho scelto il posto migliore per studiare arte. Tutto qui».

    C’è un vento fresco che si è alzato all’improvviso e mi sferza le guance. Sento il suono dei campanellini a vento provenire dalle case nei dintorni, trasportando con sé i fruscii del fogliame e il profumo dei campi. Questo posto è magico.

    3

    Acqua, vento

    Ryuu

    «Sveglia!».

    Sapevo che avrebbe approfittato della mia assenza per farlo. È collassato ubriaco prima di riuscire a togliersi le scarpe. Dorme a pancia in giù sul futon, sui suoi abiti ci sono i segni di una scorpacciata di yakitori, i capelli lunghi e trasandati gli coprono la faccia e nella stanza c’è puzza di alcol.

    Lo smuovo dandogli una leggera pedata sul fianco, lui brontola qualcosa ma non si sveglia.

    Questo vecchio pigrone mi farà arrivare tardi a lezione.

    «Sveglia, Koji!».

    Mi guardo intorno: c’è un bicchiere pieno d’acqua proprio ai miei piedi, sul tavolino.

    «Vecchiaccio irresponsabile».

    Lo prendo e faccio cadere l’acqua direttamente sulla sua testa.

    Koji si sveglia di soprassalto, ansima, scatta a sedere sul futon con gli occhi arrossati e spalancati.

    «Come mi hai chiamato?».

    Si passa una mano sulla testa, spingendo all’indietro i capelli bagnati. I baffi e il pizzetto sono ancora appiattiti dal cuscino.

    Cerco di trattenere il respiro, perché il suo alito ha appestato la stanza.

    «È mattino, tirati su».

    Si mette in piedi, barcolla un secondo, mi punta un dito contro e si avvicina. È come respirare sopra una botte aperta di vino inacidito.

    «Non puoi rivolgerti così a tuo zio, Ryuu! Si dà il caso che io sia…».

    «Dovresti dare il buon esempio! Che cosa penserebbero i tuoi allievi se ti vedessero in questo stato?».

    Koji si interrompe, serra le labbra e inizia a grattarsi il mento barbuto, guardandomi indispettito alla ricerca di una risposta.

    «Sei incorreggibile. E io ho troppi impegni per badare anche a te, perciò rimettiti in sesto, fai una doccia e da’ una ripulita a questo posto prima che sia ora di pranzo».

    Richiudo i bottoni della mia giacca, nel frattempo mio zio si stiracchia, e sento le sue ossa scricchiolare.

    «Sei peggio di tuo padre!», si lamenta.

    Sollevo lo sguardo, scuoto la testa e gli rivolgo un’occhiataccia. Sono stanco di rimproverarlo.

    «Mio padre è convinto che suo fratello sia ancora un rispettabile maestro di aikido. Cosa pensi che farebbe se gli dicessi che sei un alcolizzato depresso che non si prende cura del suo dōjō, e che rischi di diventare lo zimbello della famiglia?».

    Koji mi si avvicina ancora, sfiorandomi la spalla con l’indice che mi sta puntando contro.

    «Io non sono né alcolizzato, né depresso».

    «Fidati, lo sei».

    «Non tutti i giorni», ribatte indispettito.

    Sospiro, metto un piede fuori dalla sua stanza e gli rivolgo un cenno.

    «Non dare da mangiare alle carpe, ci ho pensato io», lo avverto. «Ci vediamo dopo».

    Sbadiglia, si strofina gli occhi, si massaggia le tempie e prende un lungo respiro. Sembra aver recuperato un po’ di lucidità.

    «Grazie, Ryuu. Ma la prossima volta non buttarmi dell’acqua fredda addosso».

    Lascio la stanza di mio zio e percorro il corridoio per poi uscire. L’appartamento di Koji si trova sul retro del dōjō e dà su un giardino incantevole e curato, con viottoli di pietre larghe che lo attraversano e che collegano l’entrata della casa, quella della palestra e il cancello d’ingresso. Al centro c’è un laghetto artificiale dove cinque carpe koi sguazzano incuranti di tutto ciò che succede, all’ombra di un grande pino nero. Una è color oro, e ultimamente sembra stanca di nuotare. Se Koji non tornerà a occuparsene come un tempo, dubito che vivrà ancora a lungo.

    Mio zio era una persona molto diversa, un paio di anni fa. Aveva una condotta esemplare, degna di un maestro di arti marziali e della nostra famiglia. Poi le cose sono degenerate a causa di una relazione andata male. Una donna l’ha deluso, e lui non si è più ripreso.

    È ridicolo.

    Forse dovrei fregarmene, lasciare che il dōjō vada alla deriva e che quei pesci muoiano, ma non ci riesco. Ho un attaccamento viscerale verso questo posto. È il mio rifugio, il mio luogo di quiete.

    Il vento scuote le cime degli alberi e solleva gli angoli della mia giacca, costringendomi a tenerla chiusa sul collo con le mani. Sento in lontananza il suono del futaku appeso all’entrata. È un campanello di metallo identico a quello che c’è nella casa dei miei nonni, con una striscia di carta e la cordicella rossa.

    Rossa come i capelli appariscenti di quella ragazza, ondeggianti come fiamme vive. Il futaku ha suonato non appena si è presentata, e di nuovo quando mi ha rivolto la parola. Un cattivo presagio. Un incendio sul punto di divampare.

    È meglio tenerla lontana, e non guardare troppo a lungo dentro i suoi occhi cangianti, di quella tonalità indefinita tra il grigio e il verde. Quella ragazza non può portare altro che distrazioni dallo studio, e Ty dovrebbe imparare a non farsi trascinare troppo dai sentimenti per qualcuno che conosce appena. Altrimenti, mi ritroverò con un altro zio Koji di cui occuparmi.

    4

    Abbracci, minuti

    Isabel

    Le stazioni, per me, sono sempre state un luogo caotico e spaventoso. Rumori forti, annunci incomprensibili, un vociare infernale e confusionario. Ti ci puoi perdere, puoi annegare tra la gente, rimanere desolata davanti al treno che parte senza di te, e non sapere quando riuscirai a trovarne un altro per tornare a casa. Sei trasparente, nessuno ti guarda o si ferma per aiutarti, nessuno si chiede se saprai cavartela da sola, se sai dove stai andando, se c’è qualcuno che ti aspetta. Ho sempre detestato le stazioni. Forse è per questo che, quando vengo qui insieme a Ty, mi aggrappo al suo braccio e tengo lo sguardo fisso sullo schermo del mio cellulare. Preferisco non vedere niente, non perdermi nel marasma. Preferisco rialzare gli occhi solo quando sono esattamente dove dovrei essere, e poi salire sul mio treno, sedermi in un angolo e non pensarci più.

    Sono qui da meno di un anno. Sto studiando il giapponese, ma faccio ancora fatica a comprendere i discorsi delle persone per strada, i diversi accenti e i cartelli pubblicitari più complessi. Non sono brava a orientarmi e non so mai dove diavolo mi trovo, ma per Tyler è diverso. Si è trasferito in Giappone sei anni fa, conosce la zona della stazione come le sue tasche, sa parlare perfettamente con tutti, ed è talmente sicuro di sé da riuscire a rincuorarmi, almeno un po’.

    Mi piacerebbe portarlo con me ovunque. Anche se sarebbe un vero problema trovare dello spazio per lui nel monolocale per criceti in cui vivo.

    «Abbiamo ancora sette minuti per salutarci», mi avverte, e fa un cenno al tabellone delle partenze di fronte a sé.

    Lo osservo e mi sfugge un sospiro. In questa stazione grigia, piena di persone che camminano velocemente e a testa bassa, Tyler sembra un fotomontaggio. I capelli biondi, perfettamente spettinati, insieme a un filo di barba incolta e dorata, incorniciano un volto gentile, con gli occhi azzurri e le ciglia lunghe, l’espressione cordiale e quell’accento sexy. L’unica cosa che stona è la sigaretta tra le sue dita, e lui sembra saperlo, perché tiene la mano orientata verso il basso, vagamente nascosta dietro la schiena, come se si vergognasse.

    «E se butti subito la sigaretta, ne avremo sei per baciarci», ribatto.

    «Ehi, un attimo di pazienza. L’ho quasi finita».

    «Certo che sei un tipo strano. Dove si è mai visto un medico che fuma?»

    «Sto cercando di smettere», mi spiega, gettandola nel posacenere più vicino. «Non è semplice».

    Si china verso di me, mi sfiora la guancia con la punta del naso e respira vicinissimo al mio viso. Riesco a sentire l’odore del tabacco, del suo profumo e della sua pelle, mentre poggia lentamente la bocca sulla mia, accarezzandomi le labbra.

    Ha un modo di fare così sensuale che ogni volta che mi bacia avverto un formicolio tra le costole. Vorrei saltargli addosso, stringerlo, farmi toccare come sa fare lui, ma da queste parti le effusioni in pubblico sono ritenute indecorose, e Ty non passerebbe inosservato se mi strizzasse il sedere come fa quando siamo soli.

    Non mi considero una persona molto espansiva o affettuosa, e non mi piacciono i ragazzi appiccicosi, ma da quando mi sono trasferita il mio bisogno di contatto umano ha raggiunto un livello incontrollabile.

    In un posto come questo, dove sei del tutto invisibile, può venirti il dubbio di essere diventata un fantasma senza accorgertene. E le

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