Giuda mio padre
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Anteprima del libro
Giuda mio padre - Miriam D'ambrosio
Ultra
collana diretta da
Gianfranco Angelucci e Mauro F. Minervino
Miriam D’Ambrosio
Giuda
mio padre
Proprietà letteraria riservata
© by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy
Edizione eBook 2016
Isbn: 978-88-6822-375-5
Via Camposano, 41 (ex via De Rada) - 87100 Cosenza
Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672
Sito internet: www.pellegrinieditore.com - www.pellegrinilibri.it
E-mail: info@pellegrinieditore.it
I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.
A mia madre
"Decisero in consiglio di comprare,
con quel denaro, il campo del vasaio,
destinandolo alla sepoltura degli stranieri.
Per questo quel campo si chiama
fino ad oggi Campo del Sangue".
(Matteo, cap. 27, vv. 7-8)
Giuda mio padre
Quello fu il suo ultimo, lungo viaggio. Partì da Efeso e attraversò la Panfilia, si imbarcò a Mira, costeggiò la Cilicia, sfiorò Cipro e scese nel porto di Sidone. Da lì, proseguì giù seguendo il Giordano e arrivò a Gerusalemme, la città in cui era nato e che non ricordava più.
Fece il suo ingresso da est, dalla Porta delle Acque, si bagnò nella piscina di Siloe, uscì dalle mura per la Porta dei Cocci, camminò con passo sicuro, schiena dritta, sguardo fiero, reso meno scuro dal velo degli anni. Era proprio lì che voleva terminare quel racconto che lo aveva accompagnato per la vita.
Lì, nel cimitero di tutti gli stranieri che popolavano quella città grande, brulicante, gialla. Gli abitanti, nel loro dialetto, chiamavano quel posto Akeldamà, il Campo del Sangue. Il sangue di chi? Dei morti, dei vivi? Il sangue innocente, colpevole?
Stanco, si sedette sotto l’albero di fico dove, ottantatre anni prima, un giovane uomo si era impiccato dopo aver vagato per buona parte della notte. Nemmeno dell’alba si era accorto e, poco prima di mezzogiorno, a metà di quel 14 Nisan senza luce e pieno di vento, se ne andò. Poche ore dopo, un altro giovane uomo moriva, appeso anche lui a un legno.
E il viaggiatore stanco guardò i rami robusti del fico, chiuse gli occhi e pensò che, finalmente, aveva avuto il coraggio di mettere piede in quel campo, a ottantasei anni, per accettare la sua radice senza vergognarsi, senza maledire.
La mente tornò indietro negli anni, molto indietro. Il sole si era alzato da un po’ e c’era tanto tempo prima del tramonto. Allora, i ricordi si affollarono e lui li ordinò.
Dei primi anni dell’infanzia gli tornava addosso l’odore forte delle reti appese ad asciugare, il rumore delle onde sulla riva, i capelli ricci e neri di una donna che lo cullava, i capelli in cui affondava le piccole dita per accarezzarli o tirarli per dispetto. Non ricordava più il volto di quella donna, solo la dolcezza dell’abbraccio, il bianco del suo vestito e una collana di diaspro rosso con cui aveva giocato sulla spiaggia, da solo, mentre alcuni uomini scaricavano il pesce dalle loro barche.
Alcuni anni dopo, qualcuno che l’aveva conosciuta, gliela descrisse: chioma vorticosa di capelli ricci color della pece, occhi carbone, pelle color dell’ambra e una nota struggente in quella sua voce sottile che entrava nella testa e non usciva più. Si chiamava Tabitha ed aveva proprio la grazia di una gazzella. La sua intera figura, le sue movenze, il modo leggero di camminare, rispecchiavano il significato del nome. Era nata a Gaza, suo padre faceva il pescatore, sua madre era morta dando alla luce una bambina, entrata a quattro anni tra le onde per inseguire gabbiani, una mattina in cui era sfuggita al vigile occhio di Tabitha.
Il mare era tutto per gli abitanti di Gaza. Il mare dava, prendeva, restituiva o rapiva per sempre. Davanti al mare, spesso, giocavano i bambini, rincorrendosi sulla spiaggia vicino alle baracche dove padri, nonni, fratelli, custodivano vecchie reti da riparare, da intrecciare a mano, con pazienza e sapienza, in cui loro si avvolgevano rotolandosi e ridendo, suscitando l’ira delle donne rimaste ad accudire.
Tabitha era cresciuta alimentandosi del dolore della perdita, era cresciuta sotto lo sguardo spietato di suo padre che aveva chiuso il cuore il giorno in cui la spuma aveva ingoiato la piccola Zahel.
Così, una sera, era fuggita da Gaza per raggiungere Gerusalemme, la grande città piena di promesse, dove puoi costruire ciò che vuoi, dove scegli chi frequentare, dove ti guardano e non sanno cosa hai fatto, perché ti sei distratta quel giorno mentre cuocevi sulla brace il pesce cosparso di aromi, sicura che Zahel giocasse all’ombra dell’ulivo.
A Gaza, la donna dai riccioli neri era tornata solo una volta per far respirare a suo figlio il luogo in cui era nata, per poterlo tenere tra le braccia a lungo e vestirsi di una tunica di lino bianco, semplice, tanto diversa dagli abiti che era abituata a indossare.
Un altro ricordo lontanissimo si affacciava nella mente e sostava negli occhi del vecchio venuto da Efeso. Il buio della notte, le sue braccia nutrite attorno al collo della stessa donna che correva affannata, sudata, con i piedi feriti dalle pietre aguzze. Voci, pianti e un lamento lungo, straziante. Tabitha era arrivata dove voleva, e sull’uscio di una casa si era abbandonata alla stanchezza della fuga.
Un ragazzo assonnato aveva aperto la porta, lo ricordava vagamente quel momento. Quel ragazzo, poi, gli era diventato familiare, era stato un padre, un fratello, un amico. Il suo nome era Giovanni.
In quella casa profumata di pane d’orzo condito con olio d’oliva, lui, bambino di tre anni, si era addormentato sul petto di sua madre che parlava sottovoce a un’altra donna vestita di nero che abitava lì. Parlarono a lungo.
La donna accarezzò il viso di Tabitha, asciugò le sue lacrime, le diede acqua e piccole polpette di ceci. La invitò a riposare ma lei rifiutò. Aveva fretta di andare. Allora Maria, così si chiamava l’ospite gentile, prese il bambino dalle braccia di sua madre, addormentato. Lo guardò: su una guancia paffuta si erano impressi i grani della rossa collana di Tabhita.
Giovanni accompagnò la fuggiasca alla porta e si abbracciarono piangendo. Maria strinse a sè il bambino che socchiuse gli occhi, lo guardò con un sorriso e lo chiamò, quasi in un sussurro: Fanuel...
.
* * *
Maria tesseva la lana nell’ombra fresca della casa, con l’uscio aperto a far entrare piccole folate di vento. Erano trascorsi cinque anni dalla notte dell’arrivo di Fanuel e, adesso, lo guardava giocare con le biglie e con un cavallino di legno d’ulivo che lei aveva portato con sé sempre, persino nella casa che Giovanni abitava da anni nel quartiere Betzada o Bet–Hesda, come lo chiamavano in aramaico, la casa della misericordia, la punta nord est di Gerusalemme, vicino alla Piscina dai Cinque Portici.
A Fanuel il cavallino di legno chiaro era piaciuto da subito. Maria ricordava bene il giorno in cui il suo Giuseppe, il carpentiere di Nazareth, lo aveva costruito per Gesù, incantato e attento nel seguire il lavoro scrupoloso del padre. Rivedeva il viso di suo figlio e come gli brillavano gli occhi quando Giuseppe gli consegnò il lavoro finito.
E Maria sorrideva perdendosi nei suoi pensieri che avevano un assoluto protagonista. A Gesù piaceva raccogliere gli scarti del legno, i trucioli, e giocava anche con quelli, impastandoli con