Il mare è soltanto acqua
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Anteprima del libro
Il mare è soltanto acqua - Martino Sgobba
Battitore libero - Collana di narrativa
Titolo originale: Il mare è soltanto acqua
© 2011 Giovane Holden Edizioni Sas - Massarosa (Lu)
I edizione cartacea ottobre 2011
ISBN edizione cartacea: 978-88-6396-177-5
I edizione e-book febbraio 2012
ISBN edizione e-book: 978-88-6396-213-0
www.giovaneholden.it
holden@giovaneholden.it
Acquista la versione cartacea su www.giovaneholden-shop.it
www.giovaneholden.it/autori-martinosgobba.html
Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e av-venimenti sono il prodotto dell’immaginazione dell’autore o, se reali, sono utilizzati in modo fittizio. Ogni riferimento a fatti o persone viventi o scomparse è del tutto casuale.
A mia madre
e a mio padre.
Il mare è soltanto acqua
In questo piccolo campo sottratto all’avversa fortuna che ha portato via tutte le altre zolle della bisnonna, in questo rettangolo di pochi tralci sopravvissuti alla rovina del vigneto e divenuti incerte croci piantate in fosse coperte solo di terra e vermi, in questo agosto che fessura gli occhi e offre il mio sudore alle mosche, in quale tempo sono? Vicino ad un antico fico col tronco segnato da carovane infinite di formiche in cerca dell’avvizzita mammella di un frutto nato per insensata ostinazione, a reverente distanza da un trullo diroccato in attesa dell’ultimo autunno per franare completamente, quale tempo vive in me? Seduto su questo muretto a secco, forse sulle pietre da dove Trento e Trieste, i cani, abbaiavano al vento il ricordo di due figli della bisnonna divorati dalla grande guerra, sono forse fuori dal tempo?
La matriarca, è morta durante la seconda guerra e io, suo pronipote, nato venti anni dopo, non l’ho mai conosciuta, se non attraverso i racconti di famiglia. E le storie tramandate sono davvero tante. Mia madre, bambina, giocando, aveva pulito enormi botti: vi entrava da una finestrella, a cui cercava di appendersi il fratello. Le stive da preparare per il nuovo vino erano lì, alla fine del terreno, dove ora c’è ancora una radura di pietrisco intorno alla torretta di un pozzo, ormai pieno soltanto di buio e umidità. Ho studiato e posso fingere la poesia pietosa di ascoltare la voce di mia madre, di suo fratello, di tutti gli altri e anche quella degli animali. Posso fingere. Ma su quel chiarore di grossolana farina di pietre non c’è nulla; nessuno sostiene ceste, sposta tinozze, allontana galline, gioca con Trento e Trieste; nessuno urla un richiamo o fa finta di non vedere un viandante incamminato a rubare qualcosa al bosco. Una striscia di selva è ancora presente, prigioniera tra questo campo e la strada provinciale, ma le macchie e le querce non dicono più nulla, non nascondono segreti e lontane avventure.
La bisnonna si chiamava Angelina e aveva figliato molto, per dare braccia, gambe, occhi ai suoi campi, ai suoi animali da governare, per nutrire due guerre e per un solo re. L’ultimo figlio è morto alla fine del secolo scorso, ansimando il nome della madre, come sul Carso lo avevano rantolato gli ultimi rossi respiri dei primogeniti. Ora che fra due dita spremo un grumo di terra secca, quale tempo mi abita? Io vengo qui per esistere di più, per esistere meno, per ricordare storie, per inventarne di più vere. I miei genitori stanno andando via da questa terra.
Queste croci di tralcio sanno che la loro pazienza sta per essere premiata: sono stanche, li attendono da sempre, da quando, ad ogni ritorno di vendemmia, rugiadavano per loro grappoli e foglie, pativano il colpo secco delle cesoie, ascoltavano, fino a tarda sera, il martellio dei torchi; stagione dopo stagione, hanno assistito al rinsecchire delle loro mani e all’impolverarsi delle loro voci. Li ho osservati, mio padre e mia madre, girare intorno a questi ultimi sterpi di esausta radice, sfiorarli e mai toccarli, mentre raccontavano di raccolti benedetti e maledetti, di spalle zavorrate da fascine, del furioso padrone della masseria confinante che una volta, pestando gli acini assassinati da una feroce grandinata, aveva gettato nel campo il Cristo e altri santi protettori, affinché anche i loro occhi fossero chiusi dai colpi del cielo. Sorrido sempre quando rammento la vicenda del crocifisso spezzato e delle povere stampe dei santi inseguite nel vento dalla moglie del sacrilego. Il crocifisso era stato poi riparato e l’offesa espiata con la spesa di cento candele nel giorno della festa patronale. Ora qui, quando grandina, non succede nulla, non cadono foglie, non svaniscono fiori, non marciscono frutti: la terra spegne il bianco del ghiaccio, distrattamente.
Con gesto largo e preciso, Angelina ha seminato il grano; con cadenza regolare ha impastato figli, fino a quando ha potuto covarli: è solo per una pigra abitudine della specie che le contadine come lei hanno partorito e non hanno deposto uova. Quando è morta davvero? Ha cominciato nel 1918 sul Carso; e poi è morta altre volte, per figliuova mai schiuse o schiuse troppo presto, per animali azzoppati, per il grano ammuffito: infine, poggiò la testa sul tavolo e non l’alzò più, senza dar fastidio di avvisaglia, senza dar corda all’agonia. E poi morì ancora, quando gli altri figli se ne andarono e non se la ricordavano nemmeno più o, per nostalgia, la confondevano con un tronco di ulivo, di quelli larghi, scavati dal vento, capaci di reggere rami attraversati da irruenti rigagnoli di olio. Dov’è sepolta Angelina? Dov’ è divenuta terra la sua carne? Lì, alla fine dello sguardo, dove, se fosse sera, brillerebbe il cimitero; ma anche in Emilia, in Romagna, in Lombardia, nel Lazio, dove era la palude, e forse in Libia, dove un altro figlio è stato per troppi anni per non pensarlo mentre fugge via da un gemito di colore diverso. La bisnonna è morta anche nell’ultimo anno del secolo, insieme all’ultimo figlio; continuerà a morire ancora in questo nuovo tempo, che sta per interrare i nipoti e poi lancerà la lama verso i pronipoti e una ucciderà me. Poi vivrà ancora in chi verrà qui, come me oggi, a ubriacarsi di geometria e storia. Sì, annuso la distanza, mi soffoca l’altezza del sole, mi attrae l’altro confine del campo, ma è la memoria che mi sta entrando negli occhi, mi soffia nelle narici, mi risuona nelle orecchie, mi piega le braccia. Sono uno spaventapasseri vestito con mille abiti di epoche diverse; se fossi capace, per ogni panno scagliato via, scorrerei il passato come i grani di un rosario. Angelina era fatta di paglia, di terra, di concime e, se i raccolti avessero potuto fare a meno del sole e della pioggia, avrebbe considerato inutile il cielo, perché troppo lontano dalle mani. Provava diffidenza anche per gli alberi, perché sempre pronti a prendere la direzione del vento, quasi a voler spiantarsi. Si fidava soltanto degli ulivi, perché erano incatenati alle radici.
Mi son seduto su una pietra, appoggiato alle rughe di un tronco di quercia scheletrita, un albero di margine, un residuo di bosco, una traccia di selvaggeria dove il campo si pietrifica per offrire riparo alle lucertole. Il sole scende senza ostacoli sulla mia testa. Chiudo gli occhi. Ora potrei lanciare un urlo potentissimo e nessuno mi ascolterebbe, tanto meno quei ciclisti della domenica che sfrecciano colorati come farfalle. Oggi molti cercano la fatica, perché confusamente ne sentono la mancanza, perché intuiscono che una giornata senza il rantolo dell’agonia non ha senso, come una luce che non lambisca mai il confine dell’ombra. Il grido si frantumerebbe, sanguinando, contro quel mucchio di pietre impreziosite da rovi e more protette da spine che non hanno più conosciuto mani così esperte. Sicuramente Angelina le raccoglieva con le sue dita dure come sterpi secchi per sporcare il muso dei nipoti, prima di mandarli a prendere qualche secchio, a mungere qualche pecora, a riprendere qualche attrezzo, prima di spedirli a letto dopo aver concesso loro, d’estate, di ascoltare qualche parola degli adulti seduti nell’aia. Nella grande casa vivevano nonni, padri e madri, nipoti, Trento e Trieste. Angelina comandava, perché era nata padrona e sapeva farsi obbedire dagli animali e dai cristiani. Versava vino nei bicchieri per ravvivare le vene dei contadini e far sciogliere il pane duro nelle bocche sdentate. La casa non c’è più; anzi è ancora laggiù, verso la strada: è stata stuprata da un architetto, per accogliere il sabato e la domenica un avvocato di città e le sue donne, impaurite anche da anonimi insetti o da un filo d’erba che si struscia alla caviglia. Ho chiesto di visitare le stanze e non è mancata la cortesia dell’accoglienza, ma ho attraversato quelle camere come un cieco, con gli occhi feriti da tanta bruttezza prodotta da un restauro orientato a spietata funzionalità. Credono di venire a passare qualche giorno in campagna e non sanno che meriterebbero di essere gettati fuori alla prima grandinata. La luce mi forza gli occhi e vedo scorrere frammenti di vicende rammendati dai ricordi di mia madre e di mio padre. Sono storie cucite con ago grosso e fili di orgoglio per un passato di presunta maggiore fortuna. Scelgo quella di Angelina che non aveva mai visto il mare e la ripeto per le formiche che si avventurano sulle gambe e sulle braccia: qualcuna di esse sarà spinta via prima che arrivi il finale, ma le altre potranno poi andare in giro a narrarle ad altri brulicanti pubblici.
La bisnonna si stava rimpicciolendo, la fede nuziale era diventata larga e non era stato complicato toglierla per donarla al Duce insieme ad altri ori. Non si allontanava più dalla casa. Dirigeva i lavori, attribuendo al tramonto gli incarichi per il giorno dopo. Si era stancata di respirare, non per noia, ma perché semplicemente aveva percorso tutto il suo cammino. Conosceva tutti i campi, tutti gli alberi, tutti gli animali e pensava che le stagioni sarebbero tornate sempre, più o meno uguali. Aveva diviso i beni fra i figli, senza alcuna speranza di evitare futuri