Il manoscritto di Laneghè: CRONACHE DAL GOLFO
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Info su questo ebook
Storie di ragazzi, di donne e di uomini attraverso lo spazio ed il tempo;
legate tra loro da un refolo color del mare di nostalgia, di allegria, di magia,
di umanità.
Pensate,
se non fossero esistiti i narratori, quanto più difficile sarebbe stata l’esistenza di tutte le generazioni che si sono succedute dall’uso della parola in poi.
E quanto più lungo sarebbe divenuto l’apprendimento, senza basarci sulla co-noscenza di chi ci ha preceduto.
Con l’incedere degli anni matura la frenesia istintiva di tracciare profili di mondi perché tutto non vada perduto nel gran calderone confuso dei ricordi.
Nascono allora frammenti di vita importanti, non solo per chi racconta ma anche per chi ascolta.
Regalare frammenti della propria memoria è sempre un atto coraggioso.
Se si riesce poi a farlo con imparziale distacco e incedere galoppante diventa allora una lettura utile a chi, per andare avanti, ha il coraggio di voltarsi in-dietro.
Bravo, Mecconi!
Marco Buticchi
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Anteprima del libro
Il manoscritto di Laneghè - Beppe Mecconi
COLOPHON
Tutti i diritti riservati
Copyright ©2020 Gammarò edizioni
http://www.gammaro.eu
ISBN 9788899415785
Titolo originale dell’opera:
Il manoscritto di Laneghè
di Beppe Mecconi
Collana * Le opere e i giorni / Letteratura e storia *
diretta da
Vincenzo Gueglio
Beppe Mecconi è nato e vive nel Golfo dei Poeti.
Pittore, scrittore, illustratore di libri per l’infanzia, sceneggiatore, autore e direttore di film-documentari, regista di teatro e recital musicali.
Per 12 anni Presidente e Responsabile culturale del Museo paleontologico nel Castello di Lerici.
Collabora con Projeto Libertade, ONG che si occupa dei disagi dell’infanzia nella favela di Vila Vintèm a Rio de Janeiro.
Ha ricevuto dall’UNICEF il diploma ufficiale del Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia.
Per i marchi Oltre
ha pubblicato:
Per Gammarò edizioni: Trabastìa - Cent’anni di gente comune 2017.
Per Töpffer edizioni: Il polpo campanaro (2018), La notte che mio nonno pescò Babbo Natale (2018).
SOMMARIO
Autore
Che vita avrà avuto Atahualpa?
Addio amore
Elefanti
Il miracolo dei cinghiali e delle formiche - Dalle cronache di don Pannartz
E l’Angelica andava per farina (I)
Il manoscritto di Laneghè - Isola del Mar tenebroso
I 15 della Carmela
I veri proverbi della signora Celide (I)
La fragranza del pane
Vendemmia a Saint-Clément
Mina e i muscoli ripieni
E l’Angelica andava per farina (II)
Adelmo
Pomeriggio perfetto
Famiglia
I veri proverbi della signora Celide (II)
Due amici, il diavolo, la strega - Dalle cronache di don Pannartz
Il Maestro
Ardito, il cavatore di portoro
L’amante segreto
E l ’Angelica andava per farina (III)
Paolo il poeta
I veri proverbi della signora Celide (III)
Il naufragio
A
Emilio, candido poeta di bugie
I veri proverbi della signora Celide (IV)
Il Mandillo Santo - Dalle cronache di don Pannartz
Note al testo
A coloro che ho amato e che amo ancora
A Paolo, che aveva Trabastìa sul comodino
CHE VITA AVRÀ AVUTO ATAHUALPA?
1974
Faceva caldo, erano seduti all’ombra della grande vela bianca che faceva da copertura al bar gelateria sul lungomare di San Terenzo, Giosuè e tutti gli altri amici, amici fin dalle elementari, alcuni fin dall’asilo, che era gestito dalle suore.
Giosuè ne ricordava solo alcune.
Bene impressa nella memoria gli era rimasta suor Dell’Acqua, la sua preferita, anche se non seppe mai se quello fosse il suo vero nome o un appellativo che le avevano dato per qualche mansione specifica. La ricordava dolce e bellissima… Ricordava anche la madre superiora, Caprioli si chiamava, una faccia severa, portamento eretto, altero. Quando sorrideva le si illuminava il viso, ed era un viso bello da vedere, anche quando non sorrideva.
E poi la suora che faceva da mangiare, e nel naso a volte gli ritornava il profumo del suo minestrone. Grassa, bassa e sempre allegra, sembrava lo stereotipo della suora buona. Sopra la veste indossava un grembiule immancabilmente con delle piccole macchie d’unto e di sugo; la rivedeva con un mestolo in mano e le guance rosse per il calore dei fornelli… Il nome l’aveva scordato. Sicuramente ce n’erano altre, ma non gli tornavano in mente.
Erano le Pie Madri di Ovada, gestivano quell’asilo infantile fin dal 1925, l’anno della fondazione. Era stato costruito dopo la terribile esplosione del forte di Falconara, che aveva causato tutti quei morti, mutilati e orfani nel paese.
Nel ’69 dovettero lasciarlo e tornate alla Casa Madre, non c’erano più vocazioni, erano rimaste solamente loro.
All’asilo – dal quale si vedeva il mare e dove nel muro di pietra del cortile, in un incavo che voleva sembrare una piccola grotta, c’era una madonnina vestita d’azzurro che sorrideva quando i bambini le correvano davanti ridendo e giocando – c’erano andati (tranne Ale e Corrado) praticamente tutti: Cavallo, Fabri, il Faridaz, Frank e anche Natale, e Saetta, Giampi, Henry il Cileno, Marco… per qualche tempo anche il Mora, sicuramente Achille e Giosuè.
Insomma, erano tutti lì al bar a bighellonare e avevano diciotto anni; qualcuno aveva terminato le scuole, qualcuno no, qualcuno in autunno avrebbe iniziato l’università, altri già lavoravano.
Era un tardo pomeriggio d’estate, la spiaggia, appena aldilà della strada dove ininterrottamente passavano corriere e auto che cercavano invano un posteggio, era gremita – loro al mare ci andavano all’una o dopo le 19, quando i bagnanti, per la maggior parte parmigiani, tornavano alle case affittate o nelle pensioni a mangiare. In quegli intervalli la sabbia sollevata dal nuoto e dai giochi di quelle centinaia di persone si depositava e l’acqua tornava limpida, perfetta per un tuffo o una nuotata, e potevano anche scalmanarsi giocando a pallone o alla baleta
¹ sulla spiaggia semi deserta senza dover litigare coi foresti –; qualcuno leccava un gelato altri bevevano, chi una birretta, chi una bibita, chi una granita, e furono proprio le granite a riportarli ad Atahualpa.
«Ma voi l’avete mai più rivista?» Chiese Fabri.
No, nessuno ne aveva saputo più nulla. Seguì un silenzio denso di pensieri, con gli occhi aperti persi nel vuoto ognuno inseguiva il proprio ricordo di lei; infine il Mora alzò il suo bicchiere e disse: «Ovunque tu sia, divina Atahualpa, noi ti auguriamo dal profondo del cuore la vita migliore che tu possa avere, e che senza dubbio ti meriti.» Tutti si unirono al brindisi.
Era una storia di qualche anno prima e quasi dimenticata; seconda, terza media, quando iniziavano a scandagliare le meraviglie degli innamoramenti e del sesso. La maggioranza di loro scopriva la sofferenza e la gioia degli innamoramenti, pochi altri, essenzialmente Cavallo, il sesso.
Alla marina, da anni, sotto al piccolo castello e vicino alle barche tirate in secca, nei mesi estivi aprivano due baracchini che vendevano gelati, caramelle, focaccia e granite, erano gestiti da famiglie del paese.
Quell’estate, di quando erano alle medie, quello dove andavano più volentieri, perché la padrona, la Dina, metteva più sciroppo nelle granite, era stato affittato a persone che venivano da Spezia, mai viste prima; marito, moglie e figlia.
Lei, la figlia, era di una bellezza travolgente!
Aveva i loro stessi anni ma già era sbocciata come solo certe ragazze di quell’età sanno fare, quelle che nei libri fanno impazzire i professori quasi quarantenni e nella vita vera potrebbero, se volessero, fare impazzire chiunque.
Avrebbe potuto benissimo essere la protagonista di un romanzo, e Giosuè, l’autunno successivo, ché non riusciva a togliersela né dagli occhi né dalla mente, la descrisse così in quaderno dalla copertina verde, una specie di diario: "Una cascata, fin quasi a metà schiena, di boccoli castano scuro dai luminosi riflessi le incorniciava l’ovale perfetto del viso dove scintillavano le scaglie d’oro degli occhi verdi, grandi e profondi e forse un poco tristi.
Le labbra, rosa come i petali delle più belle rose selvagge che a maggio fioriscono a volte tra i rovi delle more, erano carnose e lucide e si schiudevano, mostrando una collana di perle perfette, in un sorriso insieme ingenuo e involontariamente malizioso.
Le belle spalle sorreggevano il florido seno che, palesemente, e senza nulla che lo sorreggesse, mirava senza vergogna alcuna a confutare la più nota di tutte le teorie di Isacco Newton.
Le gambe lunghe e abbronzate sembravano quelle prese a modello per le Grazie del Canova e da lui stesso tornite, ma senza dubbio più morbide, e tiepide.
I fianchi stretti, elegantissimamente modellati, si allargavano armoniosamente in una aurea curva fino ad approdare ai glutei i quali, definitivamente e inconfutabilmente, rivelavano a ognuno, credenti o meno, l’esistenza degli dei".
Il primo di loro che la vide fu il Faridaz, era andato al baracchino con la voglia di una granita tamarindo e orzata ed era tornato con un triste pacchetto di caramelle all’orzo in mano perché non era riuscito a dirle una parola e aveva finito col comperare, in un silenzio assoluto e imbarazzante, la prima cosa che aveva davanti. Ancora senza parole e con lo sguardo perso nel nulla restò qualche interminabile minuto davanti al gruppo che cercava, senza successo, di capire cosa gli fosse capitato, infine si scosse e con un filo di voce disse di essere perdutamente innamorato.
Così andarono a turno a vederla, in coppia, spavaldi (le calde e lunghe sere d’estate li avevano addestrati a fare la corte alle ragazzine di Parma scese per le vacanze al mare, ed erano, chi più chi meno, abbastanza spigliati), ma davanti a quello splendore mai neanche immaginato di bellezza e sensualità acerba ma gloriosamente manifesta, perdevano tutti quanti la baldanza. Restavano senza parole, lì, a guardarla.
Avevano inconsciamente compreso di essere davanti al sacro, all’eterno femminino; di trovarsi al cospetto di una manifestazione di Afrodite, di Ishtar, di Ashtarot; il loro giovane inconscio aveva intuito che di fronte avevano un’emanazione della Dea della bellezza, dell’amore, della sessualità, della lussuria.
Da quel giorno si limitarono ad ammirarla da lontano, seduti sul muretto della passeggiata, e andavano a comprare ghiaccioli e granite all’altro banchetto.
Per tutta quella lunga estate abitò le loro fantasie e i loro sogni, ma mai nessuno riuscì a parlarle.
Non sapevano neanche il suo nome, così qualcuno la chiamò Atahualpa, pensando fosse il nome di una leggendaria sinuosa divinità femminile sudamericana.
Soltanto molti anni dopo scoprirono che era il nome dell’ultimo sovrano Inca, garrotato in nome di Dio nel 1533.
NOTE
1 Si gioca sulla battigia con i giocatori (il numero ideale va dai 5 ai 9) distanziati tra loro a formare un ampio cerchio. Si colpisce con forza una pallina (sui 10/15 cm di diametro) con il palmo della mano scagliandola ad un altro giocatore e così via, cercando di non farla cadere, con tuffi acrobatici sia in acqua che sulla sabbia.
ADDIO AMORE
1963
Da un lungo e particolareggiato articolo, a cura della redazione spezzina, apparso il 13 febbraio del 1963 sulle pagine del quotidiano Il Telegrafo.
§
… I 23 scritti qui di seguito riportati, ognuno scritto a matita e in bella grafia sui fogli di un piccolo bloc-notes dalla copertina bianca, sono stati rinvenuti nella tasca interna del cappotto di S. P. la donna di 30 anni morta suicida …
Su altre pagine del medesimo taccuino, intercalando i testi, vi sono alcuni disegni eseguiti con ottima tecnica.
24 dicembre – Addio Amore, probabilmente queste sono le ultime righe che ti scrivo, spero non sia così. Dipende da te.
Ci siamo scelti e amati come mai era accaduto né a me né a te, forse a nessuno mai.
Abbiamo sfidato il mondo con coraggio, il coraggio di chi si è infine ritrovato, dopo essersi cercato per ere e galassie.
Siamo stati ovunque, e ovunque ci siamo amati, con una irrefrenabile e mai placata passione.
Abbiamo riso tanto e siamo stati complici, amici sinceri, abbiamo condiviso paure e dolori. Abbiamo pianto insieme.
Ci siamo donati totalmente l’una all’altro perché non poteva essere che così.
L’universo lo voleva, ne aveva necessità, perché il nostro amore rischiarava le tenebre.
Mi curavi come un fiore; ne ero così felice… e in quella felicità sono stata incapace di vedere le pene del tuo cuore. Questo sarà il mio tormento per l’eternità.
27 dicembre – Il mio amore per te fu potente e puro fin dal primo bacio a fior di labbra.
Mi spaventai. Non mi era mai successo.
Immediatamente dopo mi lasciai travolgere, da quel bacio, da te.
E da allora, e sarà per sempre, neanche per un istante ho voluto altro nella vita. Né mai vorrò.
29 dicembre – Mi hai fatto entrare nella tua vita, nel tuo cuore, mi hai permesso di renderti felice, di sciogliermi nel tuo sguardo innamorato, di sentire la tua vitale risata, di vedere vagare il tuo sguardo mentre inseguivi un’idea, di vederti dormire con il pugno chiuso davanti alla bocca; di amare/venerare il tuo corpo, di vedere le tue lacrime, mi hai permesso di guardarti mentre ti allontanavi sui tuoi sentieri, di colorare la nostra torre di blu, di dormire al tuo fianco, mi fatto comprendere la bellezza del far l’amore, mi hai visto piangere, mi hai permesso di piangere per te, di litigare come mai, di farti entrare nei miei segreti, di conoscerne qualcuno dei tuoi, di tenerti e carezzarti la mano al cinema; mi hai fatto follemente innamorare, mi hai permesso di viaggiare fianco a fianco, di realizzare qualche tuo sogno, di farmi sentire importante con un tuo sorriso, di baciare le tue labbra e la tua pelle, di sentire il tuo calore e vedere la tua luce, di amare e apprezzare la meravigliosa/complicata persona che sei, di riscoprire il tuo odore su di me; mi hai regalato la tua gelosia, mi hai fatto scoprire quant’è potente la mia, mi hai permesso di intravvedere i tuoi mari di melanconia, mi hai permesso di entrare nel tuo cuore… e ora vorrei non uscirne più.
31 dicembre – Sono infinitamente triste.
Mi ero assopita nella sicurezza del nostro amore.
Mi hai svegliato, e mi trovo in un orribile mondo di assenza e di dolore.
1° gennaio – Sai, non è quello che ci siamo dati che mi mancherà, ma quello che avremmo potuto, dovuto, darci ancora.
12 gennaio – Ho sempre amato la vita, con tutte le sue più esasperate emozioni, lo sai; e ora mi scopro a odiarla.
Non ci credo più, in te solo credo. In te che te ne vai.
Solo fra le tue braccia esisto. È dentro i tuoi occhi, nei nostri corpi uniti che non mi spegnerò mai.
Tutto il resto è solo una grande miseria e, per quanto mi riguarda, può all’istante smettere di esistere.
13 gennaio – Mi scrivi: Vivo alla giornata, e sto bene in questo oggi.
È una bella frase, sono felice per te. Davvero.
Ma spero con tutte le mie forze che questa giornata passi in fretta, e vedrai allora, quando tornerai, quanto sarà migliore lo stare con la nuova Me. Nata dal dolore che mi hai donato…
Non starai bene, starai in un paradiso di attenzioni e amore e passione, senza neanche più un attimo di incertezza.
15 gennaio – La scorsa notte ho rivisto chiaramente un momento di noi: stavi per raggiungermi a letto. Eri in piedi, completamente nudo, splendevi. Mi parlavi sorridendo. È stato un istante.
Ti ho guardato, e ti ho amato così tanto, ho amato il tuo corpo con una tale tenerezza… Non era passione. Era l’altra cosa.
Quella che mi fa sentire che ogni centimetro di te è così prezioso per me; le tue spalle, la tua pelle calda e profumata, le tue gambe che adoro, la finitezza del tuo sesso, la tua splendida schiena muscolosa ed elegante. La tua bocca, che non sopporto venga sfiorata neppure da un soffio di vento.
17 gennaio – Lo sai, abbiamo ancora tutto davanti, potremo vivere grandi cose e belle. Ho una gran fede in noi; e il mio amore per te è ora così perfetto che sono qui, ferma, ad attenderti. Con l’anima posata ai tuoi piedi.
21 gennaio – Portami dove vorrai. Io ti seguirò ammirandoti, e ti guarderò volare, semplicemente amando la meraviglia che sei.
23 gennaio – "Mi hai fatto soffrire". Ti chiedo perdono con tutto il cuore, che è grande, lo sai. Ci hai fatto il nido, ci abiti, per sempre. Ma il tuo cuore è migliore.
No, sbaglio; il mio è più bello, perché dentro ci sei tu.
24 gennaio – Non ti farò soffrire mai più, e renderò la tua vita luminosa e piena di passione, di bei sogni e bei pensieri.
Torna da me amore mio, torna da me. Costruiremo insieme la