Occhidisole. In cammino
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Una storia che taglia decadi diverse, catturandole non in una piatta organicità descrittiva, ma facendole vivere nella forza di sentimenti pieni, in cui il filtro della distanza, invece di sbiadire, dà alla memoria un calore saturo, come di lomografia.
Le immagini emergono dal passato in un succedersi spontaneo, che quasi si tinge di un visionario da sogno. Dagli anni Settanta, distanti ma vividi di simbologie indelebili dalla sfumatura quasi ancestrale, ai Duemila, fatti della concretezza del quotidiano, che dalla tangibilità di un presente in divenire non escludono un soffio di poesia, passando per gli anni Ottanta, che negli occhi di una bambina hanno messo desiderio e splendore e mutamento – sono grandi costellazioni di personaggi a screziare un vasto cielo di tempo.
La famiglia resta legame fondamentale, ma c’è anche una variegata comunità più prossima, con cui il destino, per il suo disegno curioso, fa intrecciare la vita di ognuno. E sempre forte è il legame con la campagna, un attaccamento emotivo ancor prima che materiale, che radica gli individui, li affratella e li identifica nei cicli della natura, in un respiro che va ben al di là della loro esistenza.
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Anteprima del libro
Occhidisole. In cammino - Marisa Cecchetti
Introduzione
La seconda parte del titolo di questa raccolta, In cammino, è la motivazione di un percorso narrativo che parte dagli anni Settanta e arriva fino a noi.
Cambiano i luoghi e le situazioni di conoscenza nello scorrere della vita, talvolta con una trasformazione così profonda che si stenta a ricostruire i tempi e a riconoscere persone, in quella stratificazione di epoche che ci compone.
Si modifica nel tempo anche lo stile narrativo di chi si dedica alla scrittura.
Questi racconti si propongono di seguire il mutamento, non solo di ambiente, che va dalla montagna, alla pianura, al mare, alla collina, ma anche quello interiore dei protagonisti, con l’occhio e l’orecchio pronti a cogliere i suggerimenti da trasformare in narrazione.
Bisogna fare attenzione a quello che diciamo perché c’è il rischio di finire nelle pagine di un tuo libro,
mi hanno ripetuto più di una volta amici e parenti. Comunque, ho sentito la loro soddisfazione.
È vero. Ma che cosa, più della vita che scorre, può raccontare la vita? Con i suoi scuri e chiari, e con il sole. Soprattutto con Occhidisole.
Marisa Cecchetti
Prima parte
Anni Settanta
Rosanna
Lei era la voce narrante. Ci volle del tempo perché mi facesse conoscere quello che non potevo vedere da sola.
Era Rosanna che ripeteva: Tutti si fermano volentieri a Ca’ d’Onofrio!
Affacciato sulla Val di Setta, a mezza costa, nascosto dietro una curva, c’è un piccolo borgo.
Se ti trovi per caso a percorrere la strada che vi passa in mezzo, conservi un ricordo di orti, di strumenti agricoli sparsi dovunque, di qualche anziano che avanza lento, di galline che attraversano la strada.
A monte si aggrappano vecchie case, fienili, stalle, antiche capanne in pietra. Passaggi pietrosi e ripidi convergono nel punto più ampio, dove si apre uno spiazzo in terra battuta, che diventa fanghiglia allo sciogliersi della neve e rimane improntato dai solchi profondi dei carri. Un’antica chiesetta dalla struttura semplice domina quell’aia dall’alto di pochi scalini ripidi, su cui stanno le donne nella buona stagione. Dietro la cappella cantano i pollai, si affacciano i musetti dalle conigliere, profuma sempre il forno. Più oltre si estendono i prati che vanno verso il bosco, sulla collina.
Quelli di Ca’ d’Onofrio, dicono in paese parlando delle famiglie del borgo, otto in tutto, comprese quelle di quattro fratelli.
Gli uomini lavorano nelle ferrovie – è vicina la Val di Sambro, della strage dell’Italicus nel ’74 – e nelle fabbriche di Prato, oltre l’Appennino; nel tempo rubato al riposo si affannano a strappare qualcosa dall’argilla dei loro poderi che degradano ripidi al Setta sempre ricco d’acqua. Raccolgono orzo, grano, fieno, e un’uva che matura a fatica e dà un vino un po’ asprigno e dissetante.
Nelle stalle mugghiano le mucche da latte, crescono i vitelli. Lungo le viuzze pietrose arriva col vento l’odore di stalle e di porcili.
Tutti si fermano volentieri a Ca’ d’Onofrio. Ha ragione Rosanna. E ci ritornano volentieri.
L’avevo incontrata per la prima volta, Rosanna, una sera di fine estate – una delle prime estati che vivevo laggiù. Era scesa fino a casa mia alla guida di una vecchia Millecento color sangue, da cui uscì un nugolo di ragazzini, i nipoti, come seppi in seguito.
Poteva avere la mia età.
Era venuta ad affiggere manifesti per uno spettacolo di beneficienza. La rividi a primavera quando fui coinvolta con i miei figli nello stesso evento.
Così scoprii il borgo che divenne per me un punto di riferimento, e quella di Rosanna una estensione della mia famiglia.
Agli occhi di qualsiasi osservatore il borgo si presentava subito nella sua organizzazione perfetta, quasi una comune.
Lì il senso dell’ospitalità che caratterizza la gente emiliana si unisce a una umanità profonda, a un altruismo semplice, spontaneo. Il tempo che ha portato a restaurare gli esterni delle abitazioni, che le ha dotate di confort all’interno, non ha cambiato l’animo di quelli di Ca’ d’Onofrio.
La prima ad aprire la porta al mattino era la Beppa. Viveva in una casetta bassa, poco più di una capanna, con una cucina affumicata, una camera grigia e un gabinetto. Oltre gli ottanta, aveva sepolto tre mariti. Rotonda, bassa, la faccia larga scavata di rughe e illuminata da un sorriso sdentato, pochi i capelli bianchi rimasti. Appena sentiva qualche voce all’esterno, lei si affacciava e si avvicinava, scarpe deformi ai piedi, le mani ciondoloni sui fianchi.
O Beppa, cantaci qualcosa, le diceva Rosanna. Allora sorrideva più largo e recitava uno stornello o cantava un canto popolare con la soddisfazione di una bambina; le parole grasse le facevano brillare gli occhi e rideva di gusto e faceva la graduatoria dei mariti, se erano stati bravi o no sotto le lenzuola.
Brava Beppa, la lodavano le donne, allora lei tornava a sedersi fiera davanti all’uscio di casa, tra i gerani che spuntavano dai barattoli di latta, con le mani in grembo, lo sguardo vuoto ma l’orecchio teso.
Tre volte al giorno, seduta sullo scalino, consumava il suo pasto in una vecchia ciotola, poi la sciacquava nel lavatoio e tornava a sedersi.
Sua figlia vorrebbe entrare in casa per pulire e farle un bagno, mi raccontava Rosanna.
Ma era un’impresa impossibile. Quando ci riusciva, si sentiva la Beppa piangere disperata e a fine supplizio andava per il borgo a lamentarsi dell’ingiustizia patita.
Appena l’ombra scendeva sulle case lei si chiudeva, la luce si spegneva, tutto taceva fino all’alba.
Presto, al mattino, il borgo si animava, le donne scendevano al pozzo e sentivi lo sbatter dei panni sulla pietra, si aprivano le stalle, si governavano maiali, chiocce, pulcini.
Nel giorno del pane c’era un affrettarsi vivace a preparare l’impasto, a raccogliere i bacchetti per il fuoco e ammucchiarli davanti al forno: le cognate si dividevano il lavoro e le pagnotte. Quando cominciava ad alzarsi nell’aria il profumo del pane, le altre donne del borgo sapevano che era il momento di portare al forno le ciambelle dolci preparate per il fine settimana, quando, non si sa mai, può capitare un parente o un amico, o comunque per il pranzo della domenica. Una di loro rimaneva a controllare la cottura, altre si organizzavano per fare la spesa: Rosanna tirava fuori l’auto dal garage e partivano tutte insieme.
Lei era la più giovane delle cognate. Era arrivata, sposa giovanissima, da Rasora, un paesino attaccato a mezzacosta sotto i castagni sulla via per la Toscana, un pugno di terra gettata da Dio in un momento di rabbia, le dicevano gli amici per provocarla. E lei rideva.
Nel cimiterino, lassù, aveva lasciato la madre giovanissima, e in paese era rimasto il padre con la seconda moglie, ma lei da Rasora aveva cercato di portare via anche il cuore, e diceva: la moglie di mio padre, il figlio della moglie di mio padre, quella donna, senza mai pronunciarne il nome.
L’aveva cresciuta la nonna, ma il rapporto era rimasto distaccato, senza la tenerezza di una madre, così Rosanna era riservata e teneva ben chiusi i suoi problemi, la gelosia, le curiosità. Con un forte senso del dovere, portava l’impronta della rigida educazione ricevuta e quasi