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Un'altra vita. Storie dai borghi della Presila catanzarese
Un'altra vita. Storie dai borghi della Presila catanzarese
Un'altra vita. Storie dai borghi della Presila catanzarese
E-book264 pagine4 ore

Un'altra vita. Storie dai borghi della Presila catanzarese

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Info su questo ebook

Un’altra vita è quella che molti desiderano, ma che pochi riescono a realizzare.
Ci riesce Felice, che tutti credono morto nei boschi della Sila.
Non ci riesce, invece, Rosa, che circostanze avverse hanno costretto a diventare donna troppo presto. Un’altra vita, diversa da quella dei genitori contadini, vogliono vivere, durante i “favolosi anni Sessanta”, Pino e Rita, giovani  studenti di un paese presilano.
E un’altra sarebbe potuta essere la vita di uno stravagante barone.
Così come anche la vita di Luigi e della sua famiglia sarebbe stata un’altra, se qualcuno non avesse ostacolato la festa a Satana.
Questi ed altri personaggi sono i protagonisti delle dodici storie raccolte nel libro, tutte ambientate in una delle zone più suggestive della Calabria, la Presila catanzarese.
Storie familiari, al limite tra la fantasia e la realtà, narrate con linguaggio semplice e coinvolgente. Storie che si svolgono nell’arco di un secolo, dal secondo decennio del Novecento, fino all’estate del 2020.
LinguaItaliano
Data di uscita28 lug 2021
ISBN9788832281644
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    Anteprima del libro

    Un'altra vita. Storie dai borghi della Presila catanzarese - Costantino Mustari

    dedica

    © Copyright Tralerighe libri

    © Copyright Andrea Giannasi editore

    Lucca, luglio 2021

    1° edizione

    Tutti i diritti sono riservati. Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633).

    ISBN 978-88-32281-64-4

    I lettori che desiderano informazioni possono visitare il sito internet: www.tralerighelibri.com

    Copyright

    Regna il pino silano, albero libero …

    Esso forma cattedrali arboree dai tronchi regolari e fitti,

    che si prolungano talvolta per qualche chilometro,

    avviluppando anche le cime,

    e riempiendo perciò la Sila di luoghi segreti.

    Guido Piovene, Viaggio in Italia(1957)

    La seconda vita di Felice

    1

    Felice Riganello conosceva la Sila, come si suol dire, meglio delle sue tasche.

    Era ancora un moccioso, quando Nicola, suo padre, aveva incominciato a portarselo dietro.

    Il padre era un bracciante agricolo, che veniva chiamato a giornata a zappare, oppure a ricostruire i muretti a secco franati durante le stagioni piovose, e a dissodare terreni su cui i proprietari impiantavano vigneti o uliveti: tutti lavori che si facevano nella bella stagione, da marzo a settembre, con i quali riusciva ad accumulare tante giornate lavorative, lunghe e pesanti, che gli venivano pagate con compensi irrisori, è vero, ma che gli consentivano di sfamare la famiglia, che cresceva da un anno all’altro. Alla fine era riuscito ad avere otto figli, divisi a metà per sesso: quattro maschi e quattro femmine.

    Nell’autunno e nell’inverno, però, Nicola non se ne stava con le mani in mano: e come avrebbe potuto, con quella squadra di figli che aveva sulle spalle? E così si dava da fare diversamente: i mesi di ottobre e di novembre li dedicava alla raccolta di funghi. Era abilissimo nella ricerca, uno specialista e un impareggiabile conoscitore delle varietà fungine che nascevano nei boschi della Sila: porcini, rositi, nasche, galletti e gallinelle, vavusi e cucuddritre, prataioli e sottobosco. Sapeva dove spuntavano, qual era il periodo buono per andare a cercarli a colpo sicuro e li riconosceva a distanza. Ne raccoglieva tanti. Buona parte li vendeva: c’erano, a Taverna e nei paesi vicini i signori che amavano le prelibatezze fungine, ma che preferivano dormire, tranquilli e al caldo nei loro letti la mattina, e neppure sporcarsi le mani, tanto c’era chi lo faceva e a loro bastava soltanto scucire qualche soldo per comprarle. C’erano anche i compratori all’ingrosso, che tutte le sere, in alcuni crocevia fissi, aspettavano i cercatori e acquistavano i funghi, per poi rivenderli in città o fuori della Calabria, spedendoli addirittura in Lombardia e in Piemonte. E i funghi che Nicola non vendeva servivano per i pasti quotidiani e per le provviste che la moglie Grazia, abilissima, sapeva preparare: li sbollentava e metteva sott’olio con aglio, menta, prezzemolo e peperoncino; oppure li metteva ad uno ad uno, e uno sull’altro, appena scottati, in salamoia in capienti vasi, con la mazzera di sopra: durante l’inverno e nella primavera successiva bastava metterli qualche minuto sotto l’acqua corrente e tornavano come freschi; i porcini li essiccava all’aria, su dei graticci fitti o su delle reti, facendo attenzione che non prendessero molto sole e diventassero scuri; alcune varietà, come i galletti, le vesce, le trombette dei morti, gli anicini, le cucinava in padella, senza olio, assieme ad ortaggi, uno spicchio d’aglio, qualche ramo di sedano e una foglia di lauro e poi le metteva in vasetti di vetro che faceva cuocere a bagnomaria. Era tutto cibo assicurato per tanti mesi, quello, fino all’estate successiva, e anche ottima merce di scambio, che, sempre Grazia, un paio di volte al mese, con la cesta di vimini in testa, portava nei paesi vicini, barattandola con cose e con viveri che non possedeva e che servivano alla famiglia: patate, fagioli, olio, farina e anche panni usati per i figli.

    Trascorso il periodo dei funghi Nicola andava nel sottobosco silano a cavare nodi e radici d’erica, zomme le chiamavano in zona, che poi portava agli artigiani che ne ricavavano pipe artistiche, molto ricercate, e soprammobili di pregio.

    Felice andava col padre, sia per imparare, perché questi mestieri si imparano da quando si è ancora piccoli, e sia per non essere di fastidio alla mamma. Come figlio più grande, inoltre, toccava a lui aiutare il padre. A scuola era andato per quanto era necessario:

    Ha fatto la seconda elementare, sa mettere la sua firma, riesce a farsi i conti per non essere imbrogliato e questo gli basta diceva Nicola, a quelli che, veramente in pochi, gli chiedevano perché non lo mandasse a scuola, almeno fino a prendere la licenza della quinta classe.

    Aveva otto anni quando veniva svegliato dal padre allo scampanio del mattutino, scandito dall’orologio della chiesa di San Domenico, e, subito dopo: scarponi chiodati ai piedi, pantaloni di velluto grosso o di fustagno, giacca di lana su un maglione pesante, cappello con paraorecchie in testa, gerla sulle spalle ancora deboli, usciva di casa schiaffeggiato dall’aria fredda, che inalava e lo svegliava definitivamente, e, col fiato che diventava bianca nuvola, si inerpicava dietro al padre.

    Salivano attraverso sentieri che lambivano orti e campagne, si incuneavano in mezzo agli alberi: lecci, castagni, querce, pini e poi abeti e faggi, per arrivare sul posto che papà Nicola aveva in mente già dalla sera prima e che cambiava ogni giorno: la Bastarda, Torre di Ponte, Trepidò, i Rinosi, il Gariglione, le Catananne, Nervo, I Guerci, Ariano, Caporosa, Savuto, Cappello di Paglia e tanti, tanti altri posti ancora.

    Siamo in questo posto, che si chiama…; da questo sentiero, attraversando il bosco, si arriva a… gli diceva Nicola. E Felice osservava, guardava, cercava di fissarsi bene i sentieri in mente, per poterli riconoscere e per poter trovare la strada di ritorno facilmente, se si allontanava dal padre.

    Questi ogni tanto, come punto di riferimento dove potessero ritrovarsi, qualora si fossero separati e distanziati uno dall’altro, metteva un segnale: un panno colorato su un ramo, oppure rompeva una frasca e la faceva pendere, o collocava, al margine del sentiero, in una posizione particolare, un grosso sasso: chi dei due sarebbe arrivato prima, avrebbe aspettato l’altro.

    Il padre gli aveva anche insegnato a osservare il percorso del sole.

    Se ti perdi, per trovare il punto da dove sei partito, appena sbuchi in qualche radura, oppure se lo puoi vedere attraverso gli alberi, vai in senso contrario a come si muoveva il sole nel momento in cui hai cominciato a camminare, gli aveva insegnato.

    Al ragazzo era capitato una volta di smarrirsi, poichè aveva camminato a testa bassa per cercare funghi, ma poi, dopo aver girovagato tra gli alberi per un bel po’, aveva ritrovato i segnali lasciati al mattino e da lì, finalmente, aveva potuto ricongiungersi con Nicola. Una seconda volta il pericolo era stato maggiore, perchè, all’improvviso, si era alzata una nebbia sottile e rapida che aveva coperto tutto. Per tanto tempo aveva chiamato a voce alta il padre, ma la voce gli veniva restituita dai tronchi degli alberi. Era scivolato lungo un dirupo, si era graffiato le mani nel tentativo di sorreggersi, ma in nessun momento si era fatto prendere dal panico. Fu dopo un pezzo, abbastanza lungo, proprio mentre le ombre della sera rendevano la nebbia ancora più impenetrabile, che udì la voce del padre che chiamava: Felice, Felice. E lui rispondeva: Papà, papà e le voci si avvicinavano. Ma ce ne volle perché si incontrassero, mentre all’uno e all’altro il cuore batteva forte e il loro ansimare copriva il rumore del vento che sibilava tra le cime alte degli alberi.

    Era riuscito, però, in tutte e due le occasioni, a salvare i funghi che teneva nel paniere.

    Il padre gli insegnava a come comportarsi nel bosco, a riconoscere le tante varietà di funghi, a saperli ricercare e a raccoglierli in maniera corretta, senza deteriorarli e senza danneggiare il terreno.

    Nel bosco non sai mai cosa ti può capitare, perché le insidie sono sempre tante. Perciò non dimenticare di portare con te una borraccia piena di acqua, anche se la Sila abbonda di sorgenti, una piccola colazione e il necessario per poter, all’occorrenza, fare luce e mandare qualche segnale. Gli diceva.

    Per raccogliere i funghi non devi andare mai con secchi, ma solo con uno zaino che abbia piccoli fori o con un cesto o con un paniere di vimini, perché i funghi che ci metti dentro devono lasciare cadere i semi mentre cammini, così possono riprodursi per il prossimo anno. Raccogli soltanto i funghi che conosci, e non quelli per i quali hai dei dubbi, perché così dai la possibilità di raccoglierli ai cercatori che passano dopo di te dallo stesso posto e li conoscono bene. Quelli velenosi non devi mai calpestarli o distruggerli, perché servono tutti per mantenere fertile il terreno.

    Felice ascoltava, non rispondeva, ma gli camminava a fianco e osservava con attenzione quello che il padre faceva o gli indicava di fare e imitava e obbediva: imparava.

    Così aveva imparato a riconoscere le condizioni e i posti dove è possibile trovare le principali specie di funghi mangerecci: i porcini e i galletti nascono ai piedi dei faggi o poco discosto da essi e alcune qualità sotto i pini; i prataioli negli spazi ampi e soleggiati; le cucuddritre dove si sdraiano le vacche e ai margini delle strade interne; i rositi nelle liberine, cioè nelle radure che quasi all’improvviso si aprono tra un bosco e l’altro di pini; i vavusi sotto i pini; i funghi dell’inchiostro in prossimità di giardini erbosi, i sottobosco sotto tappeti di aghi di pino.

    Alcune varietà si scorgono e si riconoscono da lontano; per altre bisogna avere l’occhio allenato gli diceva il padre.

    E così ben presto Felice imparò che appena vedeva un piccolo rigonfiamento del terreno doveva rimuovere leggermente le foglie con la punta di un bastone reperito nel bosco o con la punta del coltello, per trovarci sotto un fungo o una famiglia di funghi. Sapeva quanti giorni dovevano passare dopo la pioggia perché i funghi nascessero e in quale fase lunare. Aveva imparato a distinguere l’amanita panterina dall’amanita falloide, entrambe le varietà mortali.

    Quello bellissimo, tutto rosso, con dei puntini bianchi che attira le mosche, se lo mangi non ti fa morire, ma ti fa alterare la mente, come quando hai la febbre forte lo istruiva il genitore.

    Il porcino si raccoglie scuotendolo leggermente dal gambo o muovendolo dal basso con la punta del coltello e lo stesso la cucuddritra e il galletto, però devi grattare sul posto la terra che hanno alla radice, così i semi -Nicola chiamava semi quelle che col tempo Felice imparò che sono le spore- cadono per terra e si riproducono in avvenire e nello stesso tempo non sporchi i funghi che hai già nel paniere; i rositi si tagliano alla base col coltello; i funghi dai quali cola un liquido nero come l’inchiostro puoi raccoglierli soltanto quando sono bianchissimi, ruotando la cappella come quando sviti una lampadina".

    Il padre era una autentica miniera di conoscenze che trasmetteva al figlio, più che con le parole facendogli vedere come praticamente si faceva.

    A quindici anni Felice, senza leggere nessun libro, sapeva tutto quello che c’era da sapere sui funghi della Sila e conosceva bene i posti dove di solito nascevano e perciò sapeva quando era il periodo adatto per cercarli e dove cercarli ed era sempre sicuro che li avrebbe trovati. E aveva sviluppato un amore viscerale per la Sila; un amore, peraltro, che fu favorito dalle attività che cominciò a svolgere, ancor prima di diventare adulto, e che alimentò poi da grande.

    Aveva diciotto anni quando venne assunto come operaio della Forestale, l’azienda pubblica che curava il demanio e i boschi in Calabria, e ventuno quando prese la licenza di caccia, anche se, di nascosto e sempre in compagnia di qualcuno, sparava alla selvaggina nei boschi ancor prima di raggiungere la maggiore età.

    Negli anni successivi fece parte di squadre addette alla costruzione di sentieri, al tracciamento di strade taglia fuoco all’interno del bosco, allo spegnimento degli incendi e alla cura del rimboschimento nelle zone che erano state attraversate dalle fiamme.

    Come cacciatore percorse in lungo e in largo boschi e radure, guadò fiumi e torrenti, attraversò vallate, perlustrò anfratti.

    Nei giorni di caccia previsti dal calendario venatorio regionale partiva da casa ch’era ancora buio, per essere di ritorno a mezzogiorno. Preferiva la caccia alla lepre e ai volatili: quaglie, starne, fagiani, beccacce e beccaccini e amava cacciare da solo, in compagnia di cani fidati, che comprava ancora cuccioli e che addestrava personalmente, sicché si stabiliva tra lui e i suoi animali una vera e propria simbiosi. Ne ebbe più di uno e li curava sempre con una attenzione maniacale. Qualche volta si era unito anche a gruppi del luogo e dei paesi vicini per la caccia al cinghiale: sia che fosse solo che in gruppo non era mai tornato a casa con il carniere vuoto.

    Bracciante della Forestale e cacciatore: due attività che gli avevano permesso di percorrere e di conoscere la Sila palmo a palmo. Da Carcarella alla Povarella, dalla Valle di Tacina al Faghicello; dallo Spineto a Verberano, Caporosa, Tarsitano; da Mazzaforte ai Rinosi, dal Timpone Morello a Tirivolo; dalla Fratta alle Differenze, ai monti Femminamorta, Telegrafo e Gariglione: non c’erano montagne, valli e neppure boschi ove Felice non fosse stato più volte.

    La Sila per lui non era misteriosa.

    2

    Assuntina era una ragazza non molto alta, ma dai fianchi appena accennati, il petto liscio, due trecce nere che le scendevano lungo la schiena, carnagione bianca come l’alabastro, guance rosee, occhi neri, bocca piccola con due labbra che solo a vederle ti veniva voglia di baciarle.

    Era figlia di Saverio Liarò, un operaio forestale, con il quale Felice, che abitava nella stessa strada, poco più avanti di casa sua, condivideva gran parte della giornata: si incontravano la mattina presto, appena fatto giorno, raggiungevano insieme e a piedi l’autobus che li portava in Sila, fino alla caserma della Forestale al Villaggio Monaco, lavoravano nella stessa squadra di operai, facevano insieme il viaggio di ritorno dopo una giornata di lavoro. Qualche domenica, se c’erano da fare battute di caccia al cinghiale, ci andavano insieme. Tra i due operai, nonostante la notevole differenza di età, c’era molta amicizia.

    Si può dire che Felice aveva visto crescere Assuntina. Quasi tutti i giorni, quando di ritorno dal lavoro i due operai si salutavano e si davano appuntamento per il giorno dopo, la vedeva, ragazzina, che giocava davanti alla porta di casa con le amichette o che andava a riempire d’acqua fresca la vozza, alla fontana del rione.

    Lo sai, stai diventando una bella ragazza le disse un pomeriggio, quando si accorse che due piccole protuberanze, come due minuscole mele, le si erano formate sul petto e i fianchi le si andavano allargando oltre le cosce. Assuntina s’era fatta rossa, ma non gli rispose e non raccontò nulla a casa e neppure ne parlò con le amiche.

    Felice ne accennò anche a Saverio:

    Stai attento, Save’, prima o poi Assuntina te la rubano gli disse scherzosamente una mattina, mentre, zaino e piccone in spalla, camminavano per raggiungere l’autobus.

    Bello mio, tra poco anche tu comincerai a vederti scorrere gli anni senza che te ne accorgi. A me sembra che sia nata l’altro giorno Assuntina, invece ha già quattordici anni e sta diventando donna, mentre io invecchio.

    C’è ancora tempo per invecchiare lo consolò Felice, ma si volse a guardarlo e si rese conto che davvero Saverio ormai si avviava a diventare vecchio: eppure non doveva avere più di quarant’anni.

    Ma quasi senza nemmeno accorgersene cominciò a vederlo con occhi e mente diversi da come lo aveva sempre visto e a considerarlo come una sorta di saggio.

    Cambiava anche il suo atteggiamento verso Assuntina, che sembrava lo facesse apposta per incontrarlo, quando lui rincasava dopo una giornata di lavoro e lei tornava dalla fontana dove aveva riempito la solita vozza, oppure tornava, con Mariettina e Lisetta, dalla casa della maestra Elena, dove andavano insieme, quasi tutti i giorni, per imparare a ricamare. Lui la vedeva sempre più carina, poi più bella e ad un iniziale e frettoloso ciao piano piano aveva aggiunto qualche parola, per passare, se la incontrava da sola, a battutine salaci. La ragazza non rispondeva e abbassava lo sguardo a terra oppure fingeva di camminare dritta e distratta o di conversare con le amiche, ma un velo di rossore le compariva sul viso.

    Un giorno la incontrò sola, con in mano la vozza, che aveva appena riempito d’acqua.

    Ciao Assuntina, la salutò. Lei rispose con un ciao, ma non si fermarono. Dopo pochi passi, però, tutti e due si voltarono e i loro sguardi si incrociarono. Assuntina diventò rosso fuoco, a Felice comparve un sorrisetto sul viso: anche lui piaceva alla ragazza.

    Da quel giorno, di ritorno dal lavoro, Felice non vedeva l’ora di distaccarsi da Saverio e affrettava il passo verso la fontana, certo di incontrare Assuntina: i due si fermavano, per parlare. Discorsi vaghi, timidi, quelli iniziali, che però diventavano sempre più lunghi, nei quali si raccontavano quello che avevano fatto durante il giorno e quello che avrebbero fatto l’indomani. Le parole affievolivano i battiti dei loro cuori, che sussultavano e cominciavano a palpitare forte forte appena i due giovani si scorgevano da lontano. E poi, quando a malincuore si staccavano, a tutti e due rimaneva una grande voglia di rivedersi ancora il giorno dopo.

    Assuntina si addormentava la sera, abbracciando e stringendo al petto il cuscino e con un sorriso, ripensando alle parole che si erano dette, ma ancor di più a quelle che lei avrebbe voluto dire al suo amato e che non aveva detto per non apparire una sfacciata.

    Le domeniche andava alla messa solenne nella chiesa di san Domenico, con mamma Rosaria e con le sorelle più piccole. Felice se ne stava seduto sul parapetto della piazza, per vederla passare sia prima dell’entrata che alla uscita dalla chiesa e la fissava con gli occhi di pesce, ma lei lo guardava solo con la coda dell’occhio, mentre camminava a testa bassa, come si conveniva alle ragazze della sua età.

    Né lui, né lei parlavano con alcuno della reciproca simpatia, che dopo qualche mese non era più tale, perché si era tramutata in amore.

    I loro comportamenti, però, non sfuggivano ai tavernesi.

    Felice di Nicola e Assuntina la figlia di Saverio fanno l’amore diceva Carmelina, mentre, seduta su una vecchia sedia accanto all’uscio di casa in un pomeriggio settembrino, conocchia in mano, filava la lana.

    No, non è vero, rispondeva Sisina che sul pianerottolo della casa vicina mescolava la conserva di pomodoro. Se fosse vero la prima a saperlo sarei stata io, perché con comare Rosaria siamo troppo strette e non mi avrebbe nascosto una cosa come questa.

    Ma la mamma non ne sa niente: sono fidanzati di nascosto. Era Michelina, che sentendo discorsi che le piacevano, non voleva perdersi l’occasione di dire la sua e si era affacciata dalla finestra di fronte. Li ho visti io che ciù, ciù, ciù, parlavano l’altra sera e avevano tutti e due gli occhi che hanno le trote che mi porta mio marito, quando le pesca nel fiume Alli.

    Io penso che è vero si intrometteva Ciccio ‘u Repule, che dal catoio dove stava sistemando gli attrezzi, non aveva potuto fare a meno di ascoltare questi interessanti dialoghi – perché sono mesi che le domeniche, quando non va a caccia, Felice si siede sul parapetto della piazza per guardare ad Assuntina che va alla messa e si alza solo dopo che lei è passata. Poi ci torna quando la messa è finita, per vederla passare di nuovo".

    L’altro sabato siamo andati a caccia di cinghiali, siamo stati appostati assieme per oltre un’ora, abbiamo parlato di tante cose, ma di avere una fidanzata non mi ha detto niente Felice intervenne Sasà Zommàro, che se ne stava seduto sul ferro, tra due colonnine in muratura che delimitavano la strada, aspettando come un somaro, non si sa che cosa.

    Certo che a furia di discorrere con Felice per ore, Assuntina l’acqua a comare Rosaria gliela porta calda disse con una risata sguaiata Lucia, che in cuor suo avrebbe voluto che questi discorsi si facessero per sua figlia Nicoletta, che stava per superare i vent’anni e ancora nessuno la voleva.

    Quelle che erano più risentite erano Mariettina e Lisetta, che pur essendo amiche di Assuntina, non erano state rese partecipi di questo amore che in qualche maniera le coinvolgeva.

    "Io mi sento arrabbiata, perché si è servita di noi:

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