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La grande storia del Medioevo
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E-book1.463 pagine25 ore

La grande storia del Medioevo

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Tra la spada e la fede

Re e regine, papi e condottieri, battaglie e avvenimenti che hanno segnato una delle epoche più affascinanti

Il Medioevo è stato finalmente riconosciuto come una fase storica fondamentale, ricca di cambiamenti e di vivaci sviluppi in tutti i campi. I secoli che vanno dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente all’alba del Rinascimento hanno visto nascere, infatti, in una vastissima area che si estende dalla punta più settentrionale delle Isole Britanniche fino alle steppe dell’Asia centrale, movimenti e idee da cui ha preso origine il mondo moderno. Il volume, scritto da uno dei medievisti più autorevoli, narra in modo chiaro ed esauriente tutti gli eventi, i personaggi e le leggende della Media Aetas che oggi sempre più la letteratura, il cinema e le grandi mostre riportano al centro dell’attenzione.

Il Medioevo
Le invasioni barbariche
Storia della Chiesa
L’impero medievale
Il feudalesimo
Le ultime grandi invasioni
Le crociate
L’Italia dei comuni e delle signorie
I regni nazionali
L’Italia; gli italiani e le loro città



Ludovico Gatto

professore emerito di Storia medievale presso l’Università di Roma «La Sapienza», è autore, fra l’altro, di L’atelier del medievista e Viaggio intorno al concetto di Medioevo. Tra i numerosi titoli pubblicati con la Newton Compton ricordiamo: Sicilia medievale, Storia e storie del Medioevo, Storia di Roma nel Medioevo, Il Medioevo giorno per giorno e Le grandi donne del Medioevo.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854144101
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    Anteprima del libro

    La grande storia del Medioevo - Ludovico Gatto

    illustrazione

    19

    Prima edizione in questa collana: luglio 2012

    © 2003, 2006, 2009 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-4410-1

    www.newtoncompton.com

    Edizione digitale a cura di geco srl

    Ludovico Gatto

    La grande storia del Medioevo

    Tra la spada e la fede

    illustrazione

    TRE SCOMMESSE, DIECI RICERCHE,

    UN NUOVO SAGGIO STORICO

    La grande storia del Medioevo. Tra la spada e la fede – va precisato subito – nasce da una serie di precedenti ricerche e di scommesse. La prima risale a dieci anni fa, ovvero al momento in cui Vittorio Avanzini (sempre lui, poco tempo dopo, mi indusse in modo quasi temerario a cimentarmi nella scrittura di una Storia di Roma nel Medioevo, per cui voglio dire che nei miei confronti egli è stato più di una volta provocatore, ma nell’un caso e nell’altro io ho coscientemente raccolto la sfida assumendomene piena responsabilità e volentieri riconosco che devo essergli grato della fiducia accordatami e dei buoni suggerimenti datimi) mi invitò a inaugurare la collana tascabile «Il Sapere», cento pagine della Newton, con un volumetto dedicato all’età medievale. Successivi contributi miei dello stesso tipo sono poi comparsi ne «I misteri della storia» e in altre collezioni della medesima casa editrice.

    Udita la proposta io pensai, dapprincipio, che l’amico Avanzini volesse scherzare: predisporre infatti una storia generale del Medioevo in cento pagine mi pareva impresa più che rischiosa, impossibile. Invece il progetto era serio e in effetti percorribile. Così dopo molte esitazioni accettai e mi posi all’opera. Certo la redazione del lavoro fu assai difficoltosa, ma in conclusione, per quanto riguardò la mia partecipazione, fu soddisfacente.

    Il Medioevo difatti, designato ad aprire la Collana suddetta, si rivelò un vero successo editoriale per mesi rimasto in testa di vendita secondo i rilievi di numerosi giornali che riferiscono, settimana per settimana, i particolari relativi alla distribuzione e all'acquisto delle nuove produzioni librarie.

    Per quel che attiene alla struttura del Medioevo devo poi aggiungere che proprio qui si inserisce la seconda scommessa fatta in questo caso con me stesso. Per comporre in così poche pagine una sinossi storica dell’età di mezzo, divenne infatti necessario operare tagli su tagli, limitarsi il più possibile nel numero dei dati, dei riferimenti e persino delle parole, degli aggettivi e degli avverbi, da spendere con estrema parsimonia. A questo punto, onde contenere il racconto nello spazio concessomi senza sacrificare eccessivamente fatti ed elementi significativi, l’unico metodo possibile mi parve quello di abbandonare la tradizionale serie degli studi, della schedatura, della lettura di fonti e della letteratura storica in altri casi, fase iniziale di prammatica, prima di procedere alla stesura di un testo storico. Tale sistema infatti mi avrebbe impedito l’estrema, necessaria concinnitas e, caricandomi di onerosi orpelli, avrebbe fatto tracimare in modo pericoloso il racconto.

    Pertanto – qui nasce la seconda scommessa – decisi di lavorare soltanto sulla scorta dei miei ricordi maturati in anni e anni di lavoro scientifico e di insegnamento, di lezioni frontali e di corsi seminariali, di esami di ogni tipo, da quelli di maturità a quelli universitari e di dottorato. Mi sono rintanato allora, nel mio piccolo e ombroso giardino della casa di Gaeta, ove nell’impossibilità di attingere a qualsiasi biblioteca specializzata di quelle frequentate ordinariamente a Roma, ho lavorato narrando in tono blando ma non banale, nel modo più piano possibile, ma non per questo privo di problematica espressa o sottesa, gli eventi del millennio racchiuso fra la caduta silenziosa dell’Impero d’Occidente e la scoperta dell’America.

    Il progetto tutt’altro che scevro di difficoltà, si rivelò presto per me un gioco stimolante e divertente che io presi come una sorta di divertissement, di cimento con me stesso, e di ciò detti un cenno sin dalla stringatissima Introduzione, allorché dissi di aver proceduto nel lavoro immaginando di essere rimasto, al termine di un conflitto o di un irreparabile cataclisma, l’unico in grado di conservare all’umanità futura la memoria di un’epoca all’indomani della totale dispersione di ogni patrimonio storico, artistico e culturale.

    Così predisposi il mio Medioevo tratteggiato solo sul ricordo e – altro motivo di scommessa intellettuale – provai a ripensare, e quasi a riviverla per farne tesoro, alla sorte di grandi storici come Henri Pirenne, Fernand Braudel e al destino ben più tragico del grande Marc Bloch, insomma di taluni illustri studiosi che, trovatisi in condizione di segregazione nel corso della prima e della seconda guerra mondiale, pur essendo privi di libri e di materiale scientifico e nell’impossibilità di reperirne, vergarono significative pagine di storia. Certo io non ho osato neppure per celia paragonarmi a loro né per capacità né per condizioni generali – tutt’altro che cattive quelle che mi riguardavano – ma mi sembrò assai intrigante provare di persona come ci si potesse trovare a svolgere il normale lavoro di storico in assenza dei più adeguati e usuali mezzi di indagine cui ognuno di noi abitualmente attinge come a insostituibile sorgente del sapere.

    L’iniziativa, come dicevo, fu un vero successo e ciò indusse l’editore e me a proseguire con altre opere tese ad approfondire singoli aspetti appena lumeggiati nel primo compendio. Uscirono quindi altri nove volumetti, redatti tutti secondo i canoni precedentemente specificati, scritti cioè sull’onda del ricordo e accompagnati, solo in fase conclusiva, da un minimo corredo cronologico e bibliografico, quello s’intende rigorosamente valutato e selezionato.

    Hanno visto allora la luce Le invasioni barbariche in cui fu ricostruito il periodo delle Völkerwanderungen o trasmigrazioni di popoli, sottolineando tuttavia pur nell’ambito di tanto impetuosi conflitti, l’importanza del processo di integrazione che condusse popolazioni diverse – germaniche e italiche – a scambiarsi usi, costumi, leggi e linguaggio, dando luogo alla nascita di nuovi soggetti politici e alla definizione di nuove condizioni di vita in cui antico e moderno si fusero, realizzando quella particolare civiltà nota come romanobarbarica.

    Con la Storia della Chiesa nel Medioevo – il terzo contributo inserito ne «I misteri della storia» – ho ripercorso le vicende connesse all’affermazione del Cristianesimo, successiva all’editto di Costantino e ai Provvedimenti teodosiani, intesi come l’elemento determinante destinato a segnare il vero passaggio fra il mondo antico e l’età di mezzo.

    Nelle vicende snodatesi fra il V e il XV secolo ho messo in evidenza la costante presenza di una Chiesa eternamente in lotta, summa di potere spirituale e temporale, a volte trionfante, a volte paziente, sempre appassionata interprete di un’istanza di liberazione universale, divenuta protagonista del mondo occidentale nonché elemento di composizione di fragili e precari equilibri via via rafforzatisi. Così negli stessi secoli si rinsaldarono le strutture ecclesiastiche, il vescovato, centro della diocesi, poi il pontificato romano subito pronto a espandersi nonostante il pullulare delle prime eresie e sempre più lanciato, rispetto al patriarchio costantinopolitano, verso la conquista di una solida e durevole primazia.

    Ho ripercorso poi la formazione del monachesimo benedettino, i momenti di competizione con i popoli barbarici – soprattutto con i Longobardi – l’incontro con i Franchi, la nascita e l’affermazione dell’Impero sino al Concordato di Worms, quindi la lotta con gli Svevi, l’affermazione del papato teocratico, l’avvento del pontificato avignonese e il grande Scisma con la nascita delle dottrine conciliari e delle Chiese nazionali, anticamera della formazione di una cristianità più problematizzata e divisa di fronte alla vittoria di una coscienza critica aperta alle suggestioni del laicismo.

    Con gli Imperi medievali – il quarto volumetto della serie – ho ricostruito la formazione di un’istituzione che nell’età di mezzo ebbe larga importanza e rappresentò uno degli aspetti caratterizzanti dei dieci secoli posti fra il V e il XV , a cominciare da quello occidentale, che raccolse molte regioni dell’Europa centrale e fu inizialmente governato dai Franchi e poi dai sovrani germanici, a partire dall’incoronazione di Carlo Magno del giorno di Natale dell’800. Seguì poi la fondazione dell’Impero teutonico ottoniano cui successe la dinastia salica, durante il cui dominio si scatenò la lotta per le investiture generata dal contrasto fra Gregorio VII ed Enrico IV , sino al Concordato di Worms (1122).

    Con la dinastia degli Svevi venne altresì consolidandosi, pressappoco attorno al 1157, il concetto di Sacro Romano Impero connesso al titolo di sacro romano imperatore, adoperato con frequenza sempre maggiore dalla metà del '200. L’Impero, come si sa, fu definito Romano in quanto vantò la sua successione dalla Roma imperiale e Sacro per la sua tradizionale rivendicazione di primato sulla cristianità e di profondo legame con la Chiesa.

    Non mancò poi la ricostruzione delle vicende dell’Impero Bizantino, erede diretto di quello di Augusto, definitivamente battuto dai Turchi nel 1453, significativa istituzione giuridico-politica e culturale dell’Europa medievale, uno dei più duraturi e persistenti imperi della storia, il cui centro fu Costantinopoli che riunì in differenti periodi regioni fra loro difformi e distanti come quelle dell’Asia minore, del Medio Oriente e dei Balcani.

    Infine uno sguardo fu gettato sull’Impero dei Bulgari con cui per solito si menzionano due importanti formazioni statali animate da quella popolazione balcanica, la prima racchiusa fra il 681 e il 972, quindi la seconda fondata da Ivan Arsen nel 1187 e smembrata infine dopo le disastrose battaglie di Kosovo (1383) e di Nicopoli (1396).

    Alle vicende dell’Impero fece seguito il contributo sul Feudalesimo – il quinto della serie – con cui evidenziai i problemi del sistema politico, sociale ed economico che caratterizzò il mondo medievale. Instauratasi dopo l’affermazione dell’Impero carolingio, nel IX secolo, la suddetta struttura partecipò dei mutamenti lentamente succedutisi e maturatisi nella concezione dello stato e dell’economia, e soprattutto del nuovo rapporto stabilitosi fra il potere, la classe che lo rappresentò e i sudditi. Da allora sino alla fine del xiv secolo, il nuovo assetto si sviluppò e si articolò senza soluzione di continuità, tanto da permeare e da penetrare quasi ogni forma della vita di allora: dalla sociale all’economica, dalla spirituale alla culturale.

    Con le Grandi invasioni del Medioevo – la sesta parte della mia ricerca – ho preso in esame la situazione creatasi fra il VII e il XV secolo, allorché il nostro continente fu colpito da ripetute aggressioni partite dal Nord (i Normanni), dal Sud (gli Arabi) e dall’Est (gli Slavi, gli Ungheri, i Turchi, e più tardi i Mongoli di Gengis Khan e di Tamerlano). Tale nuova ondata di incursioni è stata a lungo considerata dagli studiosi come il momento più fosco del Medioevo, quello in cui la crisi della civiltà occidentale fu più evidente. Lo stesso periodo però appare oggi ricco di fermenti innovatori e di notevoli trasformazioni della società, nelle istituzioni, nelle leggi, nelle lingue e nella natura stessa delle genti europee. Proprio in questi secoli infatti cominciarono a intravvedersi i primi bagliori di una rinascita religiosa, politico-sociale, economica e culturale che contrassegnarono l’inizio del nuovo millennio, ovvero ciò che Giorgio Falco denominò Albori d’Europa. Così conseguentemente all’arrivo dei nuovi barbari si predispose la koinè sulla quale cominciò a prender forma il continente che oggi conosciamo, la cui base fu sin dall’inizio articolata su momenti e aspetti tendenti all’unità, gli stessi che fecero esclamare al Goethe che l’Europa, nata per unirsi in pellegrinaggio ebbe la sua lingua nel Cristianesimo!

    A proposito di quest’ultimo fenomeno, con il termine di Crociate – il settimo testo della Collana – si è soliti indicare le spedizioni armate volute e organizzate dai cristiani occidentali in Terra Santa onde rimuoverne durevolmente la presenza musulmana. Anche su questo importante momento della storia medievale le interpretazioni sono state tutt’altro che univoche. Secondo taluni studiosi i crociati furono considerati alla stregua di santi, votati al martirio e alla riconquista spirituale dei luoghi ove nacque il Cristianesimo. Per altri invece, essi furono visti soprattutto come uomini d’affari, mercanti astuti e crudeli, determinati alla conquista della Palestina e di Gerusalemme occupate per impiantarvi città-mercato e remunerativi commerci che non ebbero quasi nulla a che fare con Cristo e la sua religione.

    E nondimeno, l’una e l’altra interpretazione appaiono ormai superate e poco legate alla realtà effettuale di quella situazione storica. La massa dei crociati infatti fu spinta da autentica fede, pur se ciò non stette a significare che in Terra Santa e nelle altre zone ove i milites Christi passarono non si compirono azioni violente e crudeli e che non si svolsero attività redditizie e spregiudicate.

    Senza dubbio però la Crociata stette a indicare un nuovo approccio dei fedeli al Cristianesimo e alle pratiche che gli sono congeniali e se nei secoli del primo millennio prevalse per gli uomini di fede l’ideale della fuga dal mondo, con il secondo millennio – l’epoca in cui ebbe luogo la conquista del regno gerosolimitano – si affermò invece il principio della conquista cristiana del mondo di cui i crucesignati costituirono una concreta e inconfutabile prova.

    La civiltà comunal-signorile che raffigura il tema dell’ottava tappa della mia inconsueta marcia d’approccio al Medioevo, ha costituito con certezza uno degli aspetti più significativi e sorprendenti dell’età media in Italia. Nel momento in cui, fra l’XI e il XII secolo i cives, rappresentanti dei centri urbani, si strinsero fra loro in un patto giurato e dettero vita a un’istituzione capace di esercitare funzioni amministrative e politiche, di tutelare la giustizia secondo il diritto civile e il canonico, di imporre dazi e tasse, di battere moneta, di mantenere strade, ponti, porti, canali, di estrarre prodotti di grande utilità da cave e torbiere, di indire fiere e mercati, di organizzare gli eserciti, nacquero i Comuni, situati in prevalenza nell’Italia centrosettentrionale e, inoltre, nelle terre di Fiandra.

    Quando poi il potere venne spregiudicatamente usato da un signore che in vario modo assoggettò i sudditi, rappresentandone in certo senso la volontà, nacquero le Signorie.

    Se in un settore considerevole della nostra penisola fu questo l’ordinamento allora vigente, la parte centro-meridionale d’Italia insieme a molte altre zone del continente – ecco il nono momento della nostra indagine – si ordinò invece secondo una differente tendenza che dette luogo alla nascita dei regni e degli Stati nazionali. Perciò si deve dire che l’Italia del Centronord si trovò a esser governata in qualche misura in controtendenza rispetto alla maggior parte del continente ove tra la fine del primo e gli inizi del secondo millennio si articolarono regni sorti e rafforzati per motivi giuridici, economici e politici in gran parte originali e predisposti a contraddistinguere in modo comune genti di estrazione e culture diverse.

    Infatti se l’Impero carolingio si ispirò a quello d’Augusto di cui Bisanzio incarnò la continuazione, istituzioni quasi del tutto diverse fiorirono in Francia vuoi presso il regnum Francorum vuoi presso il regnum Burgundionum. In egual modo originali furono quelle affermatesi in Inghilterra con la formazione eptarchica e poi con il regno dei Sassoni e dei Danesi e con quello Normanno; e del pari lo furono quelle distintesi presso la penisola iberica con i regni di Castiglia, d’Aragona, di Navarra e con quello del Portogallo. A Est il regno d’Ungheria e quello di Boemia, come il polacco e il lituano, per menzionarne alcuni fra i più rappresentativi, costituirono anch’essi un aspetto peculiare dell’età di mezzo che predispose in certo modo eventi e problemi attuali nei secoli successivi.

    Il decimo e ultimo momento del nostro viaggio ha riguardato invece le vicende – in parte in controtendenza come si accennava – degli Italiani nel Medioevo e delle loro città e sin dal titolo ho tentato di tener conto del problema relativo al modo più corretto di denominare la nostra penisola dandole il nome di quanti l’abitarono, evitando di attribuirle un termine – Italia – che nel Medioevo con qualche difficoltà potrebbe appieno giustificarsi.

    A contrassegnare la nostra terra furono allora le città numerose e per quei tempi popolose. Pertanto, allorché nella maggior parte del continente popolazioni intere trasmigrarono, furono decimate o finirono addirittura per scomparire, non pochi centri italiani si mantennero popolosi e vivaci, divenendo un punto di riferimento nell’arco dei dieci secoli del Medioevo.

    L’arte, la cultura, la lingua, la situazione economica e demografica, l’agricoltura, la politica, la scuola, il modo di alimentarsi, di curarsi, di abitare, di viaggiare, in altri termini di vivere degli abitanti della nostra penisola nell’età di mezzo, sono stati così ricostruiti attraverso la vicenda di numerosi centri urbani che godettero di un prodigioso sviluppo anch’esso in controtendenza con la storia cittadina di molte altre zone dell’Occidente e dell’Oriente europeo.

    A questo punto, terminato il lungo percorso a tappe qui riassunto, si colloca la terza e ultima scommessa da cui nasce questo lavoro, ossia quella di assemblare il complesso delle dieci precedenti trattazioni per ridurle a una sola. Le strade che potevo seguire per attuare questo proposito erano due: fondere intimamente tutto il materiale dandogli una struttura armoniosa realizzata senza cesure; ma ciò voleva dire in pratica riscrivere da capo quanto in precedenza già pubblicato; oppure lasciare con piccolissimi aggiustamenti quanto già redatto senza tener conto di inevitabili ripetizioni che però ho egualmente eliminato, almeno nei casi in cui esse si rivelavano più vistose.

    La prima soluzione avrebbe forse dato luogo a un ordinamento della materia più coerentemente distribuita, ma in fin dei conti avrei stravolto il carattere spontaneo delle singole parti pensate e nate per Collane dalle caratteristiche molto agili e dal proposito di comporre una stesura corretta ma divulgativa. In particolare mi sono reso conto che una volta sistemato secondo un nuovo orientamento il contenuto avrei finito con il predisporre un ennesimo trattato di storia generale del Medioevo, cosa forse meno utile dal momento che, specie in questi ultimi tempi, è stata pubblicata una quantità di libri di testo di storia ed io stesso ne ho diffuso uno, uscito da sei anni e di cui è ormai in commercio una seconda edizione. Devo poi aggiungere che talune ripetizioni consentono di illuminare varie parti della vicenda sotto diverse angolazioni che conferiscono loro significato nuovo volto ad approfondire il punto di vista, di volta in volta, della Chiesa e dell’Impero, dei Regni nazionali o delle città, degli Arabi, dei Turchi, dei Bizantini o delle genti barbariche. Anche per questo quindi ho seguito la seconda soluzione che mi è parsa altresì la più consona a mantenere le caratteristiche iniziali del lavoro e a produrre un testo che in modo non del tutto tradizionale e consueto conferisse un’immagine viva e palpitante all’età di mezzo.

    La Darstellung conferita alla suddetta età è allora quella che qui emerge e si afferma ed è nata dall’incontro tra energie laiche ed ecclesiastiche talora concordi, talaltra fra loro discordi ma sempre rivolte a rafforzare i vincoli della societas christiana.

    Così Gregorio Magno, che vivificò con grande senso dell’organizzazione la diocesi con l’azione provvida e illuminata dei vescovi, si mosse in un ambito in cui la territorialità ecclesiastica contribuì pure a fondare strutture amministrative solide, destinate per secoli a creare i fondamenti della vita spirituale ma pur quella sociale e politica dell’Occidente.

    Il contrasto fra la Chiesa romana e i Longobardi e, allo stesso tempo, fra Roma e l’Impero Bizantino determinò l’avvicinamento dei pontefici alla nuova monarchia franca vista come l’elemento politico e religioso da contrapporre alla presenza germanica nella penisola. E proprio ciò oltre a consentire il potenziamento della Chiesa, determinò le condizioni adatte a formare un asse politico occidentale spostato più a Nord facente perno sulla forte e rampante dinastia austrasiana sino a favorire, con l’andare del tempo, nell’800, la nascita di una nuova compagine statale, ossia l’Impero sacro e romano di Carlo Magno.

    Il contrasto tra Gregorio VII ed Enrico IV , pur evidenziando la profonda conflittualità fra potere spirituale e temporale, mise in luce come ormai il papato avesse assunto una dimensione universale capace di resistere alla forza dell’Impero.

    La situazione dei luoghi santi pose di per sé nell’XI secolo le popolazioni della cristianità cismarina di fronte alle terribili conseguenze di un conflitto apportatore di irreparabili lutti, ma al tempo stesso concorse a creare per la prima volta una società multinazionale che, a livello europeo, sia pure al di fuori del continente, preparò le condizioni per la formazione di un’unità territoriale di quelle popolazioni stesse.

    Il trasferimento del papato ad Avignone successivo alla crisi del papato teocratico, conclusosi con la scomparsa di Bonifacio VIII (1303), contribuì a originare una nuova organizzazione ecclesiastica determinata a superare le angustie della Ecclesia carnalis e ad affermare le ragioni di una Chiesa maggiormente fondata sul Concilio e sui vescovati nazionali. E proprio questi ultimi contribuiranno anche al rafforzamento delle monarchie nazionali progressivamente sganciate da Roma e volte alla creazione di Chiese nazionali distinte e distanti dal papato.

    Ecco quindi solo taluni esempi cui potrebbero aggiungersene infiniti altri, atti a porre in luce il rapporto saldo che si determinò e si strinse fra mondo laico ed ecclesiaistico protesi, come si diceva, a rafforzare i vincoli di una società cristiana capace di raccogliere in sé ogni aspetto della vita. Per questo allora ho voluto dare al complesso delle suddette ricerche qui riproposte, il titolo La grande storia del Medioevo. Tra la spada e la fede, in quanto la spada e la fede cristiana ma pure la ebraica e la musulmana nonché le frequentazioni ereticali, simbolizzano, a mio avviso, plasticamente i due aspetti caratterizzanti su ogni altro nella media aetas che, al termine di questo lungo percorso, si staglia nel suo insieme lontana e al tempo stesso vicina a noi e ai nostri problemi per una serie di peculiarità e di concomitanze che fanno ancora parte del nostro corredo di esperienze e a volte della nostra vita di ogni giorno nonché di quella che governa il nostro spirito.

    Nel corso di questi mille anni infatti, illuminati dalla spada e dalla fede, le leggi e gli istituti giuridici che presiedono ancora i nostri ordinamenti civili e penali, si sono inseriti in vari sistemi giuridici occidentali. E nello stesso periodo sorsero le Università e nacquero a nuova vita le città con le loro amministrazioni locali, videro la luce le istituzioni parlamentari, si costituirono Imperi e regni, cominciarono a diffondersi le lingue romanze come le anglosassoni che acquisirono dignità letteraria, mentre il vecchio latino, ancor vivo seppure sensibilmente trasformato, riuscì a determinare la base spirituale, civile e culturale dell’Occidente.

    In questo ambito composito e complesso ma estremamente vitale sempre campeggiano le figure per tradizione disposte a simbolizzare la vita laica e l’ecclesiastica, il trono e l’altare: imperatore e papa, sovrani e abati, vescovi e conti, non di rado rappresentati dalla stessa personalità, talora accanto, talora in lotta, con propositi costruttivi e organici o concorrenziali, governarono la vita e le trasformazioni della christiana societas che si mantenne in equilibrio lungo tutta l’età di mezzo con il supporto della spada e della fede che perciò ho voluto porre quale emblema di questa ricerca diretta a ricostruire per vie parallele, talvolta meno battute e consuete, i tentativi, le speranze, le illusioni di quanti vissero e operarono fra la caduta dell’Impero Romano d’Occidente e la scoperta dell’America.

    LUDOVICO GATTO

    I . IL MEDIOEVO

    I «media», la politica, la vita di ogni giorno ci lasciano scorgere immagini di un futuro poco confortante. I pericoli di distruzione e di dispersione totale di patrimoni storici, artistici e culturali si fanno consistenti. E allora mi vien fatto di pensare, talvolta con apprensione, alla situazione in cui ci troveremmo se del Medioevo, della sua storia, dell’arte, del messaggio spirituale cui dette vita si perdesse ogni traccia. Se tuttavia, penso ancora, quasi per una sorta di sfida o di divertissement intellettuale, fosse reso possibile proprio a me conservare la memoria di quell’epoca in un testo asciutto e conciso – modesto e onesto nella sua brevità – quanto di più significativo tramanderei agli ignari lettori futuri? Cosa, fra le vicende, i personaggi, i problemi metterei in luce? In qual prospettiva traccerei una rappresentazione agile che conferisse il senso di un’età importante per la comprensione dei precedenti e successivi intrecci storici fino ai nostri tempi? Da questa sfida, sempre in bilico tra il serio e il faceto – così sarei tentato di definirla – da questa programmata brevità non certo priva di impegno, nascono i capitoli seguenti.

    A due domande, rispondiamo, però, prima di cominciare: quali, in siffatta prospettiva, i limiti cronologici? Naturalmente quelli tradizionali, dal 500 al 1500 d.C., decennio più decennio meno: gli stessi prescelti da Ludovico Antonio Muratori nei suoi Rerum Italicarum Scriptores nel ’700 o, nel ’600, da Cristoforo Keller nella Historia Medii Aevi.

    Certo tale suddivisione non intende segregare l’età di mezzo dalle precedenti e successive, ma vuol predisporre una specie di contenitore entro cui presentare questioni e avvenimenti collocati in prospettiva dialettica, volti a spiegare motivi di contrasto, di aggancio, di preannuncio di altre situazioni.

    In che luce altresì presentare la cosiddetta Media Aetas? Per secoli, storici, umanisti, protestanti, calvinisti, illuministi, positivisti, idealisti, ne ebbero opinione negativa, la criticarono, la biasimarono e, persino, la respinsero. Oggi, i motivi di critica preconcetta appaiono superati e si cerca di storicizzare il Medioevo evidenziando cosa intese rappresentare e se vi sia riuscito, evitando lodi e condanne antistoriche, riportando fatti e problemi senza disinteresse notarile e senza prender partito, badando a rilevare quanto di spirituale, politico, sociale, economico, artistico, legislativo, linguistico, amministrativo, tecnico e istituzionale nacque in quel millennio, capace di consentire lo sviluppo dell’umanità. Purtroppo, ci accorgiamo che, al di là delle intenzioni, è più quel che è rimasto fuori di quel che siamo riusciti a salvare. Ma forse – almeno ci illudiamo – emerge con chiarezza una linea di tendenza e di sviluppo che ci consente di concludere queste pagine nella speranza di non aver fatto un lavoro inutile.

    Nel licenziare, dopo circa dieci anni, ancora una nuova edizione di questo mio fortunato saggio, mi sono posto il problema relativo all’opportunità o meno di intervenire con aggiunte, correzioni, modifiche. Tuttavia mi è sembrato miglior partito limitare al massimo i ritocchi, soprattutto quelli bibliografici. Un particolare tuttavia vorrei aggiungere. Nel 1994 mi appariva stimolante – e lo è ancora – il gioco volto a conservare quanto costituisce The Legacy of the Middle Age. Ma ora a quella sfida tra serio e faceto se ne aggiunge un’altra in rapporto all’inizio ormai avvenuto del XXI secolo e del terzo millennio. In tale prospettiva infatti già si prospettano i primi bilanci relativi all’ultima «centuria» e al secondo millennio. E tra questi non spiace cominciare a tracciare un panorama di ciò che di questi due lunghi periodi intenderemo conservare ed esaltare dell’età di mezzo. Come si vede V ’è più di un motivo di continuare un’attività ludica che ancora una volta consente un approccio alla storia e alle sue infinite seduzioni.

    Fin dai primi secoli dell’era cristiana i popoli barbarici forzarono il tradizionale limes dell’Impero con alterna fortuna, ma solo nel V secolo la situazione precipitò: Alarico, a capo dei Visigoti, saccheggiò l’Urbe (410) danneggiandola e colpendo psicologicamente i cittadini, divenuti privi di fiducia nelle sorti di Roma. Ad una ad una le province, cadute in mano ai predatori, divennero regni romano-barbarici: Attila dette vita all’Impero degli Unni (451-452); i Vandali di Genserico occuparono la Spagna e nel 455 entrarono nella città di Romolo, per la seconda volta in meno di cinquant’anni saccheggiata e testimone di inaudito oltraggio.

    Deboli e privi d’iniziativa gli imperatori si succedettero senza riuscire a modificare la situazione. Nel 475 venne deposto Giulio Nepote dal suo generale Oreste che pose sul trono il figlio Romolo Augustolo, il quale ebbe la ventura di concentrare nel suo nome quelli del primo re e del primo imperatore di Roma. Tuttavia, trascorso appena un anno, egli fu deposto dal generale degli Eruli, Odoacre, che rinviò le insegne all’imperatore Zenone, a Costantinopoli, tenendo per sé la carica di magister utriusque militiae. Così finì ingloriosamente la storia dell’Impero d’Occidente (476).

    Odoacre rimase al potere fra il 476 e il 493, ma già dal 488, spinto da Costantinopoli, Teoderico, re degli Ostrogoti, a capo di un ben armato esercito, fu sollecitato a scendere in Italia. Il 28 agosto 489 Odoacre fu per la prima volta battuto ad Aquileia. Il mese successivo la vittoria arrise ancora ai Goti in Verona.

    La guerra durò, poi, fino all’agosto 490, allorché Odoacre fu definitivamente sconfitto sull’Adda e costretto a rinserrarsi a Ravenna ove, dopo la resa ottenuta contro la promessa d’aver salva la vita, fu barbaramente ucciso da Teoderico che soppresse personalmente il generale, mentre dalle persone del seguito furono compiute esecuzioni capitali di parenti e seguaci del condottiero erulo.

    L’accoglienza di Teoderico in Ravenna fu tiepida e raffreddata vieppiù dalla paura. Nel 500, invece, il re raggiunse Roma e qui fu acclamato trionfalmente, in quanto preceduto dalla fama di restauratore della romanità e del buono stato. Egli, infatti, riparò strade, rinnovò opere pubbliche, costruì nuovi palazzi, rafforzò le mura di Aureliano, il Campidoglio e San Pietro. In particolare poi migliorò la situazione dell’agglomerato di costruzioni poste attorno al maggior tempio della cristianità, in quella zona che, più tardi, nel suo complesso avrebbe preso il nome di Portica di San Pietro. L’agricoltura, poi, durante il regno goto, conobbe un promettente sviluppo, mentre il prezzo del grano calò come non accadeva da tempo.

    A Roma il sovrano amalo, cristiano di confessione ariana come il suo popolo, s’incontrò con una forte Chiesa cattolica. Infatti, verso la fine del V secolo, nel momento in cui l’Impero d’Occidente cadeva in mani barbariche, la Chiesa, uscita dall’esperienza catacombale in seguito all’Editto di Costantino o di Milano del 313 e, poi, con l’Editto di Teodosio del 380, forte dell’autorità e dell’appoggio del vescovo di Roma, considerato il successore di Pietro, aveva conseguito una forza su cui si articolò, oltre che una religione, una nuova civiltà destinata a differenziarsi in tutto dall’antica. Tale frattura, infatti, poté considerarsi determinata, allorché nel 494 papa Gelasio, prendendo contatto con l’imperatore bizantino Anastasio, nell’intento di delimitare l’invadenza dello stato nel settore spirituale, espresse l’importante concetto della «separazione fra potere spirituale e temporale», indipendenti ambedue nella loro sfera d’azione rappresentata dai due massimi poteri: il papa espressione della sacrata pontificum auctoritas e l’imperatore della regalis potestas.

    Si sa che la Chiesa raggiunse notevole forza stabilendo un proficuo, organico rapporto con l’Impero. In quest’ottica, ad esempio, Costantino dette vita a un corpo scelto di cavalieri, costituito di tutti cristiani, la cui insegna – il famoso labaro – fu la bandiera con il monogramma del Cristo. Tal cosa sarebbe, invero, apparsa inattuabile anche nei tempi non lontani del suo predecessore Galerio, persecutore dei seguaci del Nazareno. Per converso gli scrittori latini capovolsero la loro posizione nei riguardi della civiltà classica e pure dell’Impero. Tertulliano mise sullo stesso piano tutti gli imperatori e le istituzioni di cui erano espressione. Lattanzio distinse tra i persecutori, spesso individuati in barbari, estranei a Roma – per esempio Massimino – quindi da condannare e sovrani come Costantino, sostenitori della nuova religione. Quest’ultimo, infatti, aiutò la Chiesa non solo economicamente, ma divenne anche assertore dell’ortodossia. Nel 325, pertanto, convocò il Concilio ecumenico di Nicea sia per condannare l’eresia di Ario – il quale negando l’identità fra il Padre e il Figlio dichiarati simili ma non uguali sottraeva alla Chiesa il carattere soprannaturale – sia per proclamare il dogma della «Trinità». Con ciò il Cristianesimo si affermò definitivamente. Per breve periodo Giuliano l’Apostata (361) sembrò deciso a reintrodurre religione e cultura pagane, ma alla sua morte in guerra contro i Persiani (363), il paganesimo poté considerarsi estinto. L’Impero era ormai diviso in due parti: quello d’Oriente pose la capitale in Costantinopoli e continuò, fra alterne vicende, a vivere fino al 1453, quando la capitale cadde in mano ai Turchi; quello d’Occidente ebbe vita breve e seguì strade diverse in seguito alle discese dei barbari.

    Occupata l’Italia, Teoderico, secondo la consuetudine denominata dell’ hospitaticum, divise fra i suoi soldati il terzo delle terre occupate e riconobbe loro il diritto di portare le armi, ma conservò per i Romani l’amministrazione civile, dando onori e potere a loro rappresentanti come al senatore Cassiodoro, ministro e segretario del re e al filosofo Severino Boezio, della famiglia degli Anìci, magister officiorum (522). La capitale fu portata a Ravenna, mentre la sede senatoria rimase a Roma e i Goti promulgarono un edictum tratto largamente da leggi romane.

    La politica estera teodericiana conseguì buoni successi: il sovrano respinse i Gepidi oltre il Danubio e quando Clodoveo re dei Franchi attaccò il sovrano visigoto di Tolosa, sconfiggendolo nel 507 nella battaglia di Vouillé e relegandolo oltre i Pirenei nella sola Spagna del Nord, Teoderico si diresse, per parte sua, contro i Burgundi conquistando la Provenza. Ma il programma egemonico del Goto, spintosi fino al Norico, alla Dalmazia romana, sino ai limiti della Pannonia e della Rezia, unito al potenziamento della cultura, dell’urbanistica, dell’agricoltura, si dissolse, tuttavia, per contrasti religiosi alimentati dalla sua politica filoariana e dalle interessate intromissioni bizantine.

    Nel 523 l’imperatore emanò un editto antiariano. Le popolazioni italiane manifestarono la loro propensione per la tradizione imperiale piuttosto che per la germanica. Cominciarono, allora, i tristi anni delle persecuzioni. Furono imprigionati papa Giovanni i e Albino, presidente del Senato. Severino Boezio, autore del De consolatione philosophiae, scritto in carcere, e Simmaco che li difesero, furono imprigionati e uccisi.

    La morte di Teoderico (526) mise in luce la debolezza della sua costruzione politica e i successori resero ancor più precaria la compagine gota entrata in crisi quando divenne imperatore Giustiniano (527-565), abile e intelligente, di pronto intuito e fortunato nella scelta dei collaboratori. Il sovrano bizantino volle anzitutto rinverdire la tradizione giuridicoamministrativa. Al giurista Triboniano, il quale capeggiò una commissione di eminenti uomini di legge, dette l’incarico di riformare i Codici: nacque, allora, il Corpus Juris Civilis, completato nel 534. Trent’anni dopo, nel 565, uscirono le Novellae Constitutiones, ovvero le leggi emanate da Giustiniano dopo l’edizione del Corpus. Nello stesso tempo l’imperatore volle ricostruire l’unità dell’Impero Romano: respinse i Bulgari verso est e trattenne i Persiani in Oriente, dopo aver sconfitto il loro re Cosroe, invasore della Siria. I grandi generali Belisario e Narsete riconquistarono l’Africa romana, la Spagna, la Sardegna, la Corsica e le Baleari, sottratte ai Vandali (534).

    Più difficile fu, invece, la riconquista dell’Italia. Amalasunta, figlia di Teoderico succedutagli al trono, fu estromessa e uccisa dal cugino e marito Teodato. A quel punto Giustiniano dichiarò guerra all’usurpatore. Dal 535 al 553, la penisola divenne teatro di una cruenta guerra, combattuta da Belisario e da Narsete contro Vitige e Totila, morti entrambi in battaglia. Dopo diciotto anni di combattimenti, di assedi, di distruzioni – Roma passò quattro volte dai Bizantini ai Goti e viceversa! – la penisola giacque materialmente e psicologicamente distrutta. Alla fine tutti i vecchi territori tornarono in mani bizantine. Nel 554, poi, con la Prammatica sanzione Giustiniano regolò i rapporti dell’Impero con l’Italia. La capitale fu posta a Ravenna e l’imperatore fu rappresentato dall’esarca. Significative funzioni anche amministrative furono per la prima volta conferite ai vescovi occupatisi, fra l’altro, oltre che delle diocesi, della raccolta delle imposte municipali, degli edifici pubblici e dell’assistenza ai derelitti.

    Sembrò che in seguito a tali provvedimenti si fosse nuovamente ristabilito il vecchio ordine imperiale, il cui baricentro appariva sensibilmente spostato verso Oriente. Ma, passati tre anni dalla morte di Giustiniano, nel 568, si palesò in tutta la sua realtà la fragilità della dominazione bizantina, allorché, traversate le Alpi Giulie, provenienti in gran parte dalla Pannonia, i Longobardi si apprestarono a invadere l’Italia.

    Guidati da Alboino associato agli Avari, con uno stato che copriva territori dalla Russia meridionale al basso Danubio, i Longobardi sconfissero i Gepidi, poi entrarono nella penisola, occupando, senza incontrare contrasti, la pianura padana sino a Milano e a Pavia ove posero la loro capitale. I nuovi invasori si trasferirono con le famiglie e i carri. La loro fu, quindi, più che una marcia militare una Völkerwanderung (trasmigrazione di popoli) alla cui conclusione un intero popolo straniero, spinto dalla volontà di predare e conquistare, si stanziò in terra italiana. Al loro passaggio, la gente terrorizzata si ritirava e fuggiva. Così gli abitanti di Altino e Concordia, come ai tempi di Attila, trovarono scampo nelle isole della laguna veneta. Sorsero, pertanto, le nuove città di Grado, Torcello e Malamocco: infine nacque Venezia. I soli centri capaci di opporre resistenza agli invasori furono prima Pavia, poi Ravenna. Per il resto, l’Italia cadde in gran parte in mani longobarde e solo per il loro limitato numero i barbari non riuscirono a conquistare tutta la penisola.

    I Longobardi furono crudeli. Lo storico Paolo Diacono nella Historia Langobardorum descrisse con espressioni appropriate la grave situazione: «All’arrivo di Alboino furono spogliate le chiese, sgozzati i sacerdoti, schiacciate le città e gli abitanti, cresciuti come spighe di frumento, furono uccisi ad eccezione di quelli già sottomessi da Alboino: così l’Italia fu in massima parte conquistata e schiava dei Longobardi», i quali ebbero la base sociale nella fara (nome rimasto a varie località: Fara Sabina, Fara d’Adda, Fara Filiorum Petri), governata dai duchi, accompagnati dai gasindi (comites goti).

    Alboino fu soppresso in una congiura capeggiata dalla consorte Rosmunda. Gli successe Clefi e, dopo un periodo di torbidi, Autari (584-590). Seguì Agilulfo, il quale sposò Teodolinda, vedova di Autari (591), e, lasciato l’arianesimo, si convertì al cattolicesimo (603).

    A favorire la conversione, considerabile un vero capolavoro politico, contribuì il grande pontefice Gregorio Magno (590-604) il quale, con la forza della fede e l’ausilio dell’esperienza – era stato in precedenza probabilmente Prefetto di Roma – riuscì a rafforzare i domini ecclesiastici di Roma e della penisola, conferendo poteri più precisi all’autorità civile dei vescovi. I suoi scritti, in particolare le lettere, attestano la sua cultura, la sua tempra morale e il suo intuito politico. Nel 590, divenne pontefice durante l’imperversare di una pestilenza e, nonostante la triste situazione, seppe tenere a bada l’impeto longobardo e l’invadenza bizantina. I Romani lo benedirono pertanto come consul Dei e defensor civitatis. Gregorio fu invero modesto: infatti Giovanni, patriarca costantinopolitano, si fregiò pomposamente del titolo di patriarca ecumenico, ossia universale, mentre egli volle per sé solo l’ intitulatio di servus servorum Dei, destinata a contrassegnare nel tempo la superiorità spirituale dei pontefici romani.

    Con Arialdo e Rotari (636-652) la dinastia longobarda si rinforzò. Quest’ultimo, poi, dette vita al famoso Editto (643), la raccolta contenente leggi e consuetudini longobarde, testimonianza della rozzezza, ma anche della maggior cultura manifestata da quel popolo rispetto agli altri barbari. Alla base del diritto longobardo si distinsero la «faida» o vendetta privata e il «guidrigildo», composizione e pagamento per le offese ricevute, per furti, ferite, uccisioni. Con Autari e Agilulfo – primo quarto del secolo VII – l’espansione longobarda raggiunse quasi il massimo, comprendendo pressappoco tutta l’Italia settentrionale e, lungo la dorsale appenninica, quella centrale con il Ducato di Spoleto e la meridionale con il Ducato beneventano. Legati a Bisanzio rimasero Ravenna e la Pentapoli, il Ducato Romano, buona parte del Brutium, della Puglia, la Sicilia, la Sardegna e le altre isole del Mediterraneo. Pertanto si contrapposero da una parte la Longobardia e dall’altra la Románia: i due nomi rimasero a contraddistinguere due fra le più significative regioni italiane, la Lombardia e la Romagna.

    La società longobarda fu profondamente gerarchizzata. Al vertice dominò il re con l’esercito di arimanni (uomini liberi), con i gastaldi (ufficiali regi), i duchi, i centenari, i decani. Al di sotto si collocarono gli aldii (semiliberi), i servi, suddivisi in ministeriales, addetti ai mestieri (ministeria), massari e bovulci, detti anche servi rusticani se addetti al lavoro della campagna. Nelle terre bizantine restarono vigenti le istituzioni imperiali e la Prammatica sanzione giustinianea, ma la scarsa capacità amministrativa e la fiacca iniziativa politica resero sempre più povere le popolazioni oppresse dalle tasse e prive di qualsiasi sicurezza.

    Nello stesso tempo andarono ovunque rafforzandosi la Chiesa e il governo civile dei vescovi, che finirono per essere una delle più efficaci forme di difesa dei cittadini più deboli, degli oppressi e dei derelitti. Nell’Italia longobarda la decadenza toccò il punto di massima espansione, vennero meno arte e cultura e la tutela del diritto lasciò spesso a desiderare.

    Due aspetti caratterizzarono tuttavia l’avvicinamento graduale dei conquistatori longobardi ai conquistati romani, i quali a loro volta, conferirono al rozzo popolo germanico una prima cultura e soprattutto la consapevolezza della loro forza: il primo fu rappresentato dal bisogno di passare dalla legislazione orale, tipica delle popolazioni barbariche, a quella scritta, voluta e realizzata da Rotari; il secondo fu rappresentato dalla lingua in cui la codificazione venne realizzata, che non fu il germanico utilizzato da Ulfila quando tradusse la Bibbia, ma il latino: senza dubbio non elegante e forbito come quello dell’età denominata aurea, ma in ogni modo sempre latino e quindi perfettamente comprensibile nella penisola italiana e a livello internazionale.

    Fra le istituzioni ecclesiastico-religiose affermatesi si distinse il monachesimo, fiorito in Oriente secondo ideali ascetici e di fuga dal mondo e diffuso in Occidente sulla base della vita cenobitica (koinòs = comune, biòs = vita). L’esponente più noto di tale eccezionale forma di religiosità fu San Benedetto da Norcia (480-543), dapprima ritiratosi a Subiaco e poi, nel 529, definitivamente stabilitosi a Cassino, ove dette vita all’Abbazia divenuta tra i centri più significativi della civiltà cristiana durante l’età di mezzo. A Montecassino, infatti, fu emanata e diffusa la «Regola», presto diventata la norma volta a guidare la vita di tutto il monachesimo occidentale. La «Regola» costituì la somma della saggezza romana, dell’umanitarismo e del solidarismo cristiano; essa si basò sulla rinuncia dei beni nonché sulla preghiera e sull’esercizio di concrete attività lavorative. Il suo spirito si condensò, dunque, nell’espressione Ora et labora, destinata a conferire al lavoro stesso una funzione di elevazione e di redenzione pari alla preghiera. L’Italia e l’Occidente cristiano andarono popolandosi così di «cenobi» retti da abati (dall’ebraico abbà = padre), ai quali erano affidati i monaci che essi guidarono nelle orazioni e nelle attività concrete e pure in merito alle esigenze della vita quotidiana. Era l’abate ad assegnare a ognuno compiti, privazioni e dispense, a seconda dell’età, della robustezza e del carattere dei monaci. Nel corso dei secoli le abbazie divennero centri di alta spiritualità e di cultura: esse conservarono e tramandarono, infatti, un alto numero di codici relativi a opere della latinità classica e medievale. Dal VI all’VIII secolo si moltiplicarono così i cenobi tanto che poté parlarsi di una vera e propria «età monastica»: dall’Irlanda di San Patrizio, San Colombano e San Brandano; dall’Inghilterra di Sant’Agostino di Canterbury, dai chiostri di Jona e Bangor a quelli di San Gallo, Luxeuil, Corbie; da quelli della Novalesa e di Nonantola a quelli di Santa Giulia di Brescia e di Farfa fu un fiorire di abbazie e un infittirsi di vocazioni.

    Con i monasteri si accrebbero le donazioni di terre e case nonché i lasciti in denaro – ricorrenti le donazioni dette pro anima, destinate ad assicurare la salvezza del fedele – accumulatisi in numerose, più o meno grandi abbazie. Inoltre i monaci coltivarono la terra, bonificarono zone paludose, scavarono canali, piantarono foreste. In campo laico si rafforzarono le curtes, suddivise in una pars dominica riservata al padrone e in una pars massaricia concessa in coltivazione ai coloni. I più grandi proprietari di terre vennero detti domini o signori fondiari che pretesero la più completa obbedienza dei servi e di quanti vissero nella curtis, e anche nei villaggi. Con il che si generò un sistema economico tendenzialmente chiuso, denominato «economia curtense». La presenza dei regni romano-barbarici, il rinnovato potere ecclesiastico, il ridimensionamento dell’Impero bizantino, la formazione di una nuova economia determinarono il nascere di una diversa civiltà, differente dall’antica e dalla moderna successivamente articolatasi, denominata Età di mezzo o Medioevo.

    Se fra il IV e il VI secolo – come esponevamo – la società e il mondo vennero modificandosi, è pur vero che una serie di legami saldarono l’una e l’altro ancora alla civiltà antica: la lingua, le monete, i pesi e le misure, le rotte commerciali restarono legate, nel Mediterraneo, a un sistema ancora unitario, non distante da quello vigente durante i secoli dell’Impero Romano. Anche in questi settori, invece, il secolo VII introdusse radicali novità, allorché alla ribalta della storia si affacciarono l’Islamismo e la civiltà araba. Da tempo la penisola araba, ponte tra l’Asia e l’Africa, era restata, tranne che nelle zone costiere, distaccata dal processo evolutivo della civiltà. All’interno dominavano le zone desertiche e la società carovaniera, in prevalenza dedita alla pastorizia e al piccolo commercio. Le varie tribù dei Beduini – uomini del deserto – erano unite da un sottile filo: la comune fede in una serie di divinità costituenti una sorta mano di primitivo politeismo, il cui centro era alla Mecca, ove sorgeva la Kaaba, l’edificio in cui era venerata la «pietra nera» che si voleva discesa dal cielo per azione dell’arcangelo Gabriele e presso la quale si recavano masse di pellegrini provenienti dai deserti interni e dalle città, la stessa Mecca e Yatrib.

    Alla Mecca nacque Maometto, nel 570. Egli appartenne a una famiglia di piccoli commercianti, sposò una ricca vedova, Khadija, divenne cammelliere e nel suo lungo girovagare riuscì a comprendere lo spirito e le aspettative del suo popolo. Alla meditazione dei viaggi compiuti in solitudine, ma pure a visioni e rivelazioni, si dovettero l’elaborazione e le convinzioni che lo portarono a respingere il politeismo per animare una nuova religione, rigorosamente monoteistica, l’Islamismo. Allora cominciò a predicare contro gli idoli della Kaaba nel nome di Dio, Allah, di cui egli si proclamò profeta, entrando così in contrasto con i sacerdoti della Mecca. Nel 622 abbandonò la Mecca per trasferirsi a Yatrib, da allora chiamata Medina, ovvero la città del Profeta. Dall’anno della fuga maomettana dalla Mecca – Egir – si cominciò allora a datare la nuova era, detta appunto dell’Egira. Nacque così la religione fondata su Allah, identificato con il Dio giudaico di Abramo. Dal che si evince come l’Islamismo abbia punti di connessione con l’Ebraismo e con il Cristianesimo. Testo sacro per eccellenza di Maometto fu il Corano, contenente prescrizioni di carattere morale, igieniche – per esempio il digiuno di un intero giorno dall’alba al tramonto per tutto il mese di Ramadan – nonché disposizioni di legge e allettanti descrizioni del paradiso, luogo di delizie e di richiami di carattere materiale che lo distinsero nettamente dalla concezione spirituale cristiana del «premio eterno». Il Corano, poi, regolò la vita familiare, la pubblica, limitò la poligamia, punì l’adulterio, spinse verso una completa dedizione a Dio, alla preghiera e all’aiuto dei poveri. Inoltre incoraggiò a partecipare alla «guerra santa» contro gli infedeli da convertire anche con la violenza per introdurre il dominio dell’Islam, ossia della più completa volontà di Dio. Al musulmano vittima in guerra spettava il paradiso di Maometto, dove le Uri, leggiadre fanciulle, accoglievano l’eroe nei giardini di Allah colmi di delizie. Distinta dalla cristiana e dalla ebraica fu, tuttavia, la religione musulmana, in quanto creò una società priva di un’autonoma casta sacerdotale, in tutto sostituita dal potere militare e in quanto dette vita a un credo in cui le questioni teologiche non furono sempre importanti, mentre trionfò una a volte prepotente materialità in una concezione lontana dalla spiritualità giudaico-cristiana.

    Alla Mecca, superate le lotte contro la casta sacerdotale, nacque la nuova religione (630) e nella città santa, da allora, ebbe luogo annualmente il pellegrinaggio dei fedeli di Allah. Il profeta morì nel 632. Suoi successori furono i califfi Abu Bekr (633-634), suocero di Maometto, Omar (634-644), poi Othmann (644-656) e Alì (656-661), generi del Profeta. Seguì, quindi, Al Moavia (661-680), della famiglia degli Ommiadi, nominato Califfo in Gerusalemme, da poco entrata in orbita araba. Con rapidità miracolosa l’Islamismo si diffuse per tutto il Mediterraneo, poi occupò l’intera penisola arabica fino al Golfo Persico, ai confini dell’Impero persiano e di quello bizantino cui furono tolte la Siria, la Palestina, l’Egitto.

    Ai Persiani fu sottratta la Mesopotamia fino all’Armenia e poco dopo l’intera Persia. Nell’VIII secolo, inoltre, la dinastia Ommiade riprese la conquista dell’Asia Minore, giungendo (717-718) fino alle mura di Costantinopoli durante l’impero di Leone III l’Isaurico. Irrefrenabile fu, poi, la conquista del Mediterraneo meridionale. Nel 698 cadde Cartagine e il condottiero Tarik dall’Africa attraversò lo stretto che la separava dalla penisola iberica, da allora chiamato stretto di Gibilterra (gebel-el-Tarik = monte di Tarik). Nel 711 la Spagna visigotica divenne araba e, passati i Pirenei, gli Islamiti conquistarono Narbona e Bordeaux, giungendo sino alla Loira. Nel 732, nella piana di Poitiers, Carlo Martello, Maestro di palazzo dei Franchi, sconfisse gli infedeli ricacciandoli a sud della Garonna. Così quella progressiva avanzata fu arrestata ma, nonostante ciò, al tramonto degli Ommiadi, si era costituito un potente Impero islamico, governato dagli Abassidi con capitale a Baghdad, sul Tigri. I superstiti Ommiadi fuggiti in Spagna dettero vita a un califfato indipendente con capitale in Cordova. In seguito andarono al potere i discendenti della figlia di Maometto, Fatima; la nuova capitale fu Il Cairo. Tuttavia, nonostante la divisione politica, l’unità religiosa e culturale rafforzò negli Arabi uno spirito unitario che consentì loro di raggiungere insperati successi. Una certa tolleranza religiosa fece poi sì che le popolazioni sottomesse mantenessero la propria autonomia e, almeno in parte, le proprie convinzioni in fatto di culto, cosa che aumentò il potenziale islamico di vittoria. L’iniziativa culturale e imprenditoriale assicurò, inoltre, l’abbellimento delle città ottomane. Gli scambi fra Oriente e Occidente si fecero così più frequenti e l’Islamismo introdusse forme di lusso e civiltà in un Occidente in cui tali valori si erano affievoliti. Nuovi prodotti (cotone), nuove piante (arancio, albicocco, asparago, carciofo) furono introdotti in commercio: il cuoio lavorato, il vetro, i metalli, i tessuti, l’avorio e il legno raggiunsero una tecnica di lavorazione per allora impensabile presso la cristianità occidentale. Infine, nel campo della scienza e del pensiero, gli Arabi, venuti in contatto con la cultura ellenistico-bizantina, funsero da tramite verso l’Occidente. Le opere di Tolomeo, Euclide, Galeno, Ippocrate, Platone e Aristotele, nuovamente tradotte e studiate, furono conosciute in terra cristiana. Il modello dell’amministrazione introdotta dagli Arabi fu quasi sempre offerto ai conquistatori dallo stato Romano -bizantino e anche dal sistema persiano. Da quest’ultimo per esempio nacque il famoso Diwan, da cui l’attuale dogana. L’arabo divenne la lingua ufficiale dei paesi occupati, si coniarono allora le monete d’oro, dinars, o denari, e d’argento dirhams o dracme, in sostituzione delle bizantine. Notevoli incrementi si ebbero ancora in campo astronomico, matematico, medico e chirurgico e in quello filosofico; furono, altresì, notevoli la traduzione e il commento di Aristotele, compiuti da Avicenna e Averroè. Così, mentre la Cristianità cominciava appena a uscire dalla sua crisi secolare e a liberarsi dai barbari, l’Islamismo dette forza e unità non soltanto al mondo orientale, ma influì anche sull’Occidente dal punto di vista economico, culturale e scientifico, contribuendo a dar vita a una società nuova e progredita, più vicina ai nostri interessi e al nostro modo di essere.

    Quando si afferma che a scatenare le guerre sono per lo più motivi economici, di successioni dinastiche, di territori, si dice cosa non falsa, se si tenga conto, però, che a turbare la pacifica convivenza tra i popoli sono sovente anche ragioni di impossibile convivenza religiosa. Il contrasto gotoromano, ad esempio, fu acuito dal fatto che i Germani si mantennero fedeli all’Arianesimo e, quindi, entrarono in rotta di collisione con i cattolici romani, con il papato e con l’imperatore Giustiniano, il quale nel 524 dette luogo a una radicale persecuzione contro gli Ariani. Al contrario, i Longobardi si convertirono al Cattolicesimo, cosa che, nonostante ragioni di dissenso di natura diversa, favorì la secolare permanenza nella penisola dei successori di Alboino. Nello stesso tempo profonde divisioni di carattere ecclesiologico e di divergenza sulla primazia dei pontefici romani e, per converso, sulla posizione e la funzione dei patriarchi costantinopolitani, generarono un sempre più profondo divorzio fra l’Urbe e la perla del Bosforo. Vero è – e va sottolineato – che la tendenza alla separazione fra i due tronconi dell’Impero Romano nacque pure con il trasferimento della capitale a Bisanzio, nonostante i successori di Costantino si sforzassero di non ingigantire i motivi che spinsero l’Impero a esercitare su tutto il territorio una politica in prevalenza orientale. Giustiniano – è noto – tentò in ogni modo di riunificare il vecchio grande stato, ma il sogno di reductio ad unum si infranse tre anni dopo la sua morte, allorché nel 568 fecero il loro ingresso in Italia i Longobardi. Dalla fine del VI secolo, poi, cominciarono le difficoltà maggiori. L’Impero perse terre e regioni per opera della spinta persiana, in particolare dell’imperatore Sassanide Cosroe II (590- 628) e dei già ricordati Arabi. Prevalsero, inoltre, altre popolazioni aggressive, come gli Slavi, i Bulgari, i Longobardi. In tal modo l’Impero si concentrò nella penisola anatolica e in Grecia, nelle propaggini ravennati, nelle zone meridionali italiane e balcaniche, perdendo le caratteristiche latine e assumendo connotati greci. Ma, per chiarire la separazione tra Roma e Bisanzio, vanno tenuti in conto importanti ragioni di carattere religioso.

    Infatti, dopo la condanna dell’Arianesimo le dispute teologiche si erano rinfocolate, se non sul rapporto tra il Padre e il Figlio, sulla natura del Cristo – umana e divina – per cui al figlio di Dio fu riconosciuta la sola natura umana. Teodosio II nel 431 indisse il Concilio di Efeso, in seguito al quale si proclamò la dottrina relativa a Maria, madre di Dio, con ciò individuandosi, ancor più implicitamente, la natura umana del Cristo. Nel 451 si tenne il Concilio di Calcedonia con cui fu condannato il «monofisismo», ma l’imperatore bizantino Zenone prese parte ai lavori con intenti volti a riaffermare la sua competenza in materia ecclesiastica e ciò accrebbe le divisioni con la Chiesa romana. I contrasti si intensificarono, poi con lo stesso Zenone il quale nel 482 pubblicò l’Henoticón – Editto di Unione – con cui si compose il conflitto fra Ortodossi e Monofisiti, tentando di introdurre ulteriori prerogative per il vescovo di Roma. A sua volta Giustiniano tentò di risolvere diplomaticamente il delicato problema con l’Editto dei tre capitoli (544) in cui, forse per suggerimento della furba imperatrice Teodora, amica dei Monofisiti, furono colpiti gli scritti di taluni vescovi ligi alle conclusioni calcedoniesi. La lotta con Roma fu così inevitabile, in quanto l’Occidente si mantenne cattolico, mentre l’Oriente avanzò in proposito una serie di distinguo. Giustiniano, allora, invitò papa Vigilio a Costantinopoli. Vigilio resisté con tenacia all’accettazione dell’Editto, fino a che non vi fu costretto con la violenza, e ciò introdusse cagioni di definitiva separazione.

    I Bizantini allora si resero conto di aver assunto posizioni difficilmente difendibili. Cercò di porvi riparo, ma errando, Costante II , il quale venuto in Roma in piena espansione araba (663) e lanciato un appello a papa Vitaliano per cercare l’unità contro gli infedeli, finì per saccheggiare la città di oggetti d’oro e di opere d’arte, ripartendo in breve più isolato di quando non vi fosse giunto. Né il pontefice, né i Franchi e i Longobardi risposero così al suo appello tardivo e insincero. Si riaccese, quindi, la lotta con Roma in ragione del Monotelismo, finché si decise di tradurre a Costantinopoli papa Martino i, processato, orrendamente mutilato e morto da martire in esilio nel 665. Costantinopoli comprese allora d’essere stata troppo intransigente. Si inaugurò così a Bisanzio il VI Concilio ecumenico con cui l’Oriente cristiano, in funzione antiaraba, sancì la dottrina della compresenza in Cristo di due attività e volontà distinte, una divina e una umana, la seconda sottoposta alla prima (680-681). E, tuttavia, trascorse appena un decennio dal ritorno alla pace, allorché nel 682 Giustiniano II convocò il Concilio Quinisestio o Trullano, cosiddetto sia perché vòlto a chiarire le risoluzioni del V e del VI Concilio e sia perché si tenne nel palazzo imperiale in una sala a cupola – trullo – in cui si proclamò la superiorità del patriarca di Costantinopoli anche su Roma e si assunsero canoni contrari alle usanze occidentali, quali la negazione del celibato ecclesiastico. In questo modo furono vanificati i tentativi di coinvolgimento occidentale nella situazione bizantina.

    Su questa già precaria situazione si sovrappose, altresì, la «lotta iconoclasta», inauguratasi nel 726 con l’emanazione di un decreto di Leone III l’Isaurico, inteso a proibire il culto delle immagini sacre di cui fu imposta la distruzione. Le reazioni cattoliche furono violente. All’esarca ravennate venne imposto di applicare l’editto nelle terre bizantine, ma a Napoli, a Ravenna, e specialmente a Roma si svilupparono ribellioni. In seguito a queste ultime, il re longobardo Astolfo sottrasse a Bisanzio Ravenna, poi affidata al papa da Pipino il Breve, re dei Franchi (754), nominato patricius romanorum: con ciò ci si avviò verso il potere temporale dei papi e si aprì la strada a un Impero occidentale contrapposto al bizantino. Nello stesso tempo si celebrò da parte orientale il Concilio di Hieria, voluto da Costantino V (753) per proclamare il culto delle immagini contrario alla dottrina cristiana. La lotta iconoclasta proseguì, poi, fino all’843, allorché, in pieno Impero carolingio, il papa impose la restaurazione completa del culto delle immagini. La convivenza tra Roma e Costantinopoli era però compromessa, tanto che un secolo e mezzo dopo l’imperatore orientale Michele III assunse su di sé il potere di deporre il patriarca Ignazio per sostituirlo con il laico Fozio. Con il suo avvento cominciò allora un aspro scambio di invettive fra la sede costantinopolitana e la romana sino a che nell’867, appellandosi alla cosiddetta disputa del filioque, relativa alla processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio voluta da Roma secondo un’interpretazione non letterale del Simbolo approvato a Nicea, lo stesso patriarca riunì un concilio a Costantinopoli e fece scomunicare papa Niccolò I (869-870). Pertanto si determinò un grave scisma fra le due capitali e il pontefice Niccolò I (858-867) riuscì a imporre la volontà di Roma creando le basi del primato politico del papato: con il che la Chiesa romana e l’Occidente volsero le spalle a Costantinopoli. Una volta di più motivi di profondo contrasto religioso furono in tal modo generatori di una millenaria, tuttora non risolta, frattura.

    Uscita dal ventennio della guerra gotico-bizantina, Roma rimase prostrata dalle distruzioni, dalla carestia e dalla pestilenza. Ad iniziare una complessa opera di ricomposizione amministrativa ed economica, oltre che religiosa, fu Gregorio Magno, durante il cui pontificato (590-604) attività municipali ed ecclesiastiche si raccolsero nelle mani del papa.

    Ma sulla lenta ripresa si abbatté come una folgore l’invasione longobarda, destinata a mettere in pericolo il papato e l’Urbe. Il vigore morale di Gregorio e dei successori tenne però lontani gli invasori che percorsero le terre italiane fino alle porte di Roma, ma non ebbero il coraggio di entrare in città. Il VII e l’VIII secolo, quindi, segnarono un generale regresso nella penisola e Roma perse abitanti, edifici e monumenti antichi pur se la presenza della Chiesa, decisa a cristianizzare templi pagani e costruzioni imperiali, salvò non poca parte di un centro abitativo, forse altrimenti destinato al più completo degrado.

    La formazione del Ducato Romano d’impronta bizantina servì maggiormente al papa e ai vescovi che all’Impero costantinopolitano, più pronto a separarsi da Roma che a venirle in aiuto onde lenirne le difficoltà. Così gli Italici fuggiaschi si strinsero intorno alla Chiesa, al papa e ai suoi simboli: San Giovanni in Laterano, San Pietro, le basiliche paleocristiane, i cemeteria dei martiri delle persecuzioni, verso i quali convennero fitte schiere di «romei», soliti recarsi nella città dei martiri sin dalle più lontane terre della cristianità occidentale. Ciò introdusse qualche miglioramento nella vita cittadina cui dettero una certa spinta propulsiva i Franchi e l’Impero carolingio (800).

    Ma nel IX secolo un nuovo pericolo minacciò la sede pontificia: i saccheggi e le incursioni dei Saraceni, spintisi a predare fino alle porte di Roma, ove devastarono San Pietro e San Paolo. Proprio in quel tempo però si manifestarono più compiutamente l’autorità e il prestigio del pontefice. Leone IV , infatti, un altro dei grandi vicari di Cristo tesi a incarnare la presenza della Chiesa medievale, promosse una lega delle città marinare tirreniche – Amalfi, Napoli e Gaeta – che, al comando di Cesario Console, nelle acque di Ostia vinsero la tracotante flotta saracena (849).

    A prevenir l’effetto di nuove scorrerie, Leone IV circondò di una nuova cinta muraria, da lui denominata «leonina», la parte di Roma oltre il Tevere, compresa la basilica di San Pietro, che ne era priva. L’opera di Leone in favore della cristianità e di Roma fu continuata da un altro grande pontefice, Niccolò I (855).

    Nello stesso periodo anche la basilica di San Paolo fu cinta da una possente muraglia destinata a proteggere l’altro grande tempio Romano allora esposto alla furia delle incursioni facenti capo agli infedeli. Ma la nuova cintura detta Giovannipoli ebbe minor fortuna della «leonina» e con il secondo millennio andò rapidamente in rovina.

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