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Un'idea di teologia fondamentale tra storia e modelli
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E-book759 pagine11 ore

Un'idea di teologia fondamentale tra storia e modelli

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Info su questo ebook

 Il volume costituisce un’introduzione al senso della teologia fondamentale e ripercorre storicamente come la teologia ha cercato di dare forma all’esortazione dell’autore sacro di “rendere ragione della speranza cristiana”. I capitoli del testo si occupano dei momenti più significativi per la disciplina: l’età dei Padri della Chiesa (con l’analisi di autori come Tertulliano, Giustino, Clemente, Origene, Eusebio, Agostino), la teologia medievale (Anselmo, Bonaventura, Tommaso), quindi lo snodo decisivo della modernità in cui l’apologetica a seguito della critica soprattutto deista della rivelazione progressivamente assume la struttura della triplice demonstratio durata fino al Novecento. Senza trascurare posizioni diverse come quelle di Pascal e Newman, l’analisi si concentra poi su alcuni modelli di teologia fondamentale nel sec. XX (Blondel, Rahner, Alfaro, Balthasar, Verweyen, Waldenfels), alcuni dei quali sorti dalla crisi del modello neoscolastico. Infine viene presentata un’idea di teologia fondamentale che articola la disciplina in un momento fondativo ed in uno contestuale.
LinguaItaliano
Data di uscita26 ott 2017
ISBN9788838246128
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    Un'idea di teologia fondamentale tra storia e modelli - Antonio Sabetta

    ANTONIO SABETTA

    UN’IDEA DI TEOLOGIA FONDAMENTALE TRA STORIA E MODELLI

    Copyright © 2017 by Edizioni Studium - Roma

    www.edizionistudium.it

    ISBN: 9788838246128

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    PREFAZIONE

    BREVI QUESTIONI INTRODUTTIVE

    1. Chiarificazione dei termini

    2. Apologia-apologetica nel Nuovo Testamento

    I. L’APOLOGETICA IN ETÀ PATRISTICA

    1. Gli inizi della letteratura apologetica

    2. L’apologetica di Tertulliano e lo scontro con la filosofia pagana: l’Apologeticum e il De praescriptione haereticorum

    3. L’apologetica di Giustino

    4. Lo sviluppo dell’apologetica: gli esempi di Clemente Alessandrino e di Origene

    5. La Grande Apologia di Eusebio di Cesarea

    6. Agostino d’Ippona

    II. L’APOLOGETICA IN ETÀ MEDIEVALE: DAGLI ESORDI ALLA TEOLOGIA SCOLASTICA

    1. Anselmo d’Aosta tra fides quaerens intellectum e rationes necessariae

    2. Pietro Abelardo

    3. Luoghi e forme del modello scolastico: magistri, università, quaestio, summae

    4. L’evento decisivo: l’ingresso della filosofia aristotelica tra accoglienza e resistenze

    5. La prospettiva di San Bonaventura

    6. Natura della teologia come scienza argumentativa: Tommaso D’Aquino

    III. LA RIFLESSIONE APOLOGETICA NEL TEMPO DELLA MODERNITÀ

    1. La rivoluzione della modernità

    2. Il progressivo configurarsi dell’apologetica in epoca moderna

    3. Apologetiche alternative nella modernità

    4. La posizione del magistero sull’apologetica e il suo contributo alla nascita del modello neoscolastico

    IV. MODELLI E PROPOSTE DI TEOLOGIA FONDAMENTALE NEL XX SECOLO

    Introduzione

    1. Il modello neoscolastico

    2. Oltre il modello neoscolastico: il metodo dell’immanenza

    3. Pierre Rousselot e gli occhi della fede

    4. Modello antropologico-trascendentale: K. Rahner e J. Alfaro

    5. Modello fondativo

    6. Modello fondativo-trascendentale: la rivelazione come evento presente del senso definitivamente valido (H. Verweyen)

    7. Il modello contestuale nella proposta di Hans Waldenfels

    8. Per un modello di teologia fondamentale fondativo-contestuale

    BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

    INDICE DEI NOMI

    CULTURA

    Studium

    101.

    Prefazione di Giuseppe Lorizio

    Tutti i volumi pubblicati nelle collane dell’editrice Studium Cultura ed Universale sono sottoposti a doppio referaggio cieco. La documentazione resta agli atti. Per consulenze specifiche, ci si avvale anche di professori esterni al Comitato scientifico, consultabile all’indirizzo web http://www.edizionistudium.it/content/comitato-scientifico-0.

    PREFAZIONE

    La recente fatica di Antonio Sabetta, che qui si propone, prende le mosse dalla consapevolezza, da diversi ambiti attinta, dell’incertezza epistemologica che caratterizza la teologia fondamentale, determinata da un lato dalla breve storia della disciplina, così come oggi si rappresenta e si interpreta, ma soprattutto dalla sua stessa natura di disciplina di frontiera, chiamata a porsi ed abitare i confini sia in rapporto alle altre forme del sapere e alle altre discipline teologiche, ma, direi in primo luogo, per via del fatto che essa è chiamata a declinare la credibilità della rivelazione cristiana in rapporto ai contesti nei quali si innesta e coi quali, non sempre con successo, ambisce dialogare.

    Proprio nel momento in cui questa forma della teologia decide di occuparsi della rivelazione, come accade nella configurazione che essa ha sviluppato presso l’Università Gregoriana e nella Lateranense, si trova di fronte a un bivio, che richiede una decisione circa il percorso da intraprendere. La prima, forse più scontata e tutto sommato tranquilla direzione, sarebbe quella di svilupparsi nella forma di una dogmatica della rivelazione stessa. Tale scelta porrebbe il teologo in situazione di prossimità rispetto alle altre discipline cosiddette sistematiche, in cui si articola il sapere teologico. E in tal caso sarebbe alquanto incomprensibile l’incertezza epistemica di cui sopra. Ma per quanto ci riguarda dall’attraversare questa soglia siamo dissuasi da un Zurück! come quello che il guardiano oppone a Tamino nello Zauberflöte mozartiano, allorché il principe decide di entrare nel regno di Sarastro. Il divieto è determinato dal fatto che la rivelazione (oggetto materiale e insieme formale) della fondamentale non si presenta come un dogma, pur intendendo porsi a fondamento di tutte le verità dogmatiche afferenti alla dimensione dottrinale della fede cristiana. Insomma il fondamento dei dogmi non è un dogma – come spesso abbiamo ripetuto – bensì una realtà dinamica e tutt’altro che scontata. Pertanto ancor più problematica risulterà la sua credibilità, nonostante l’enfasi che spesso si esprime in proposte di successo intorno all’affidabilità di Dio.

    Il teologo, che dedica la sua vita alla ricerca e alla didattica in questo ambito dovrà quindi rinunciare ad imboccare l’autostrada dogmatica e infilarsi invece in un sentiero accidentato e rischioso, che, al di là dell’incertezza, gli procura inquietudine. E la fondamentale sarà dunque il luogo in cui si esprime non solo esistenzialmente per il pensatore credente, ma epistemologicamente l’inquietudine di tutta la teologia, che così si presenterà al mondo e alla chiesa come una scienza inquieta, col vantaggio di porsi così al riparo almeno dal rischio del fondamentalismo, il che oggi non mi pare irrilevante. In forma letterariamente geniale questa inquietudine, squisitamente teo-logica, è stata espressa da Fernando Pessoa, nascosto dietro lo pseudonimo di Bernardo Soares, in un libro non solo intitolato, ma pervaso e percorso da tale sentimento: «Sono nato in un’epoca in cui la maggior parte dei giovani aveva perduto la fede in Dio, per la stessa ragione per la quale i loro padri l’avevano avuta – senza sapere perché. E allora, poiché lo spirito umano tende naturalmente a criticare perché sente, e non perché pensa, la maggior parte di quei giovani ha scelto l’Umanità come surrogato di Dio. Appartengo però a quella specie di uomini che se ne stanno ai margini di quel mondo di cui fanno parte, e che non rivolgono lo sguardo solo alla massa cui appartengono, ma anche verso i grandi spazi che sono a lato. Per questo non ho completamente abbandonato Dio come loro, né ho accettato l’Umanità. Ho considerato che Dio, pur essendo improbabile, potrebbe anche esistere e che, pertanto, si poteva adorare...».

    Il primo motivo d’inquietudine si rileverà quindi nel fatto che l’esposizione della credibilità si trovi chiamata ad esprimersi rispetto a qualcosa, o meglio qualcuno, di incredibile. Ma non si snaturerebbe l’incredibile se lo si ritenesse e mostrasse pienamente credibile? L’impresa non è destinata al fallimento e allo scacco? Impresa quindi paradossale, che non potrà compiersi, se non nell’adozione di quella passione del pensiero che è il paradosso. Certo solo l’amore è credibile, ma non si tratta dell’amore, che non esiste se non come legane e vincolo sostanziale (Leibniz e Blondel) dei soggetti che amano. E quindi si tratta della credibilità degli amanti. Qui si vive la martyria del teologo chiamato ad esibire la credibilità non solo della persona di Gesù di Nazareth, bensì anche della sposa di Cristo, ossia della chiesa, non solo di Dio, bensì anche della sua partner che è l’Umanità. Il come dovrà rinvenirlo se non inventarlo di volta in volta, come il percorso storico che questo libro propone cerca di mostrare, con la consapevolezza che la storia dell’apologetica e della teologia fondamentale è al tempo stesso la storia dei suoi fallimenti, da cui ogni volta ha tentato e saputo ripartire. Potremmo dire che nelle pagine di questo libro il lettore si troverà, attraversando le diverse epoche e le diverse figure proposte, continuamente di fronte a quella che Hegel chiamerebbe la coscienza infelice del teologo. E – come mostra la disanima dell’insegnamento cattolico qui proposta – da questa profonda ed inquieta esperienza non sono estranei i pronunciamenti del Magistero a partire dalla modernità.

    Ulteriore motivo di inquietudine, più subdolo e consistente del primo, è che ci si trovi di fronte a qualcosa o qualcuno di poco credibile. Luci e ombre, peccato e santità, semi di verità e falsità di comportamenti ed espressioni si mescolano e si confondono. Così il teologo, oltre che inquieto, sarà anche confuso. E lo sarà non solo negativamente, ma anche nel senso etimologico del termine. Sarà cioè chiamato a con-fondersi con le espressioni della cultura diffusa, con le diverse forme del sapere, con l’incredulità e le ragioni del diversamente credente, insomma con quella Umanità che Pessoa sembra aborrire: «ma che l’Umanità, essendo una mera idea biologica, e non significando altro che la specie animale umana, non era degna di adorazione più di qualsiasi altra specie animale. Questo culto dell’Umanità, con i suoi riti di Libertà e di Uguaglianza, mi è sempre parso una reviviscenza di culti antichi, in cui degli animali erano come dei, o gli dei avevano teste di animali». Allora piuttosto che con la natura umana o con l’Umanità la con-fusione dovrà riguardare la condizione umana e le esistenze umane.

    Una chiesa inquieta (come diceva papa Francesco al convegno di Firenze) e confusa, richiederà quindi una teologia che sappia esserne lo specchio (speculativa), ossia che non abbia timore di mostrarsi inquieta e confusa, in grado di balbettare piuttosto che di parlare, di narrare piuttosto che definire, di interpellare piuttosto che di giudicare.

    Il libro che abbiamo fra le mani propone un’idea di teologia fondamentale, attingendola alla scuola che ne ha elaborato il progetto, articolato nel manuale in quattro volumi edito da Città Nuova, ma questo non toglie inquietudine e confusione, al contrario, trattandosi del modello fondativo-contestuale (in prospettiva sacramentale), sebbene il filo di Arianna sia disponibile, siamo tutt’altro che fuori dal labirinto. In un mondo che cambia a velocità strabiliante e che non manca di stupirci con le sue conquiste e le sue aberrazioni, il compito non può considerarsi mai esaurito, tanto meno perseguito. I contesti si modificano, le frontiere si spostano, i confini si trasgrediscono e si oltrepassano con ritmi incalzanti e spesso frenetici. La dinamica contestuale interpella il fondamento dinamico, per cui il lavoro non potrà conoscere tregue o comodi sofà su cui adagiarsi. Lo stesso paradigma comunicativo, messo in campo da alcune recenti proposte di teologia fondamentale, ha a che fare col fondamento (rivelazione come comunicazione) e coi contesti mediatici e relazionali, così invasivi e al tempo stesso suggestivi, che siamo chiamati ad abitare.

    Si apprezza nel lavoro di Sabetta il radicamento nella storia dell’idea che si adotta e si propone e al tempo stesso la fedeltà ad una scuola di pensiero, che nell’impegno quotidiano dell’insegnamento e della ricerca, tenta di rendere sempre più dinamico il fondamento e sempre meno totalizzanti i contesti.

    Giuseppe Lorizio

    BREVI QUESTIONI INTRODUTTIVE

    Nel processo di differenziazione della teologia in una molteplicità di discipline che ha avuto inizio nell’epoca moderna, la teologia fondamentale (d’ora in poi TF) si costituisce come disciplina autonoma piuttosto tardi, tanto che, se paragonata ad altre discipline teologiche, risulta essere molto giovane. Nel 1837 J.S. Drey, fondatore della scuola cattolica di Tubinga (uno dei più importanti movimenti di rinnovamento della teologia cattolica moderna), affermava che la TF era sì una disciplina giovane ma allo stesso tempo che vi era il sentimento della sua necessità ( Gefühl ihrer Notwendighkeit ) [1] .

    Forse anche a causa del carattere giovane oggi, dopo quasi due secoli dalle parole di Drey, mentre rimane condivisa l’idea che della TF non si possa fare a meno, contemporaneamente si constata una certa incertezza circa l’identità della TF, il suo metodo, di che cosa in specifico debba occuparsi, quali siano i suoi destinatari e interlocutori. Vi è anche chi contesta per certi versi la legittimità dell’esistenza della TF come disciplina teologica autonoma distinta dalla teologia in generale [2] ; infatti, dal momento che la teologia vuole essere il sapere critico della fede, non si capisce perché si debba distinguere al suo interno una TF prevalentemente legittimata razionalmente da una dogmatica che si legittima in forza della fede [3] .

    Accanto, e in senso opposto, a quelli che esplicitamente o indirettamente hanno contestato il carattere di disciplina autonoma, non mancano quanti nel tentativo di difendere la plausibilità e necessità della TF rischiano di considerarla, come già diceva il teologo A. Gardeil agli inizi del sec. XX, una sorta di pantologia sacra, un contenitore all’interno del quale vi è e si può discutere di tutto.

    Sta di fatto che anche il dato di una certa frammentazione di proposte di TF scaturisce e attesta una più originaria incertezza sul piano epistemologico. La TF, infatti, non possiede ancora un’identità definita [4] , né esiste un consenso generale sulla natura, l’articolazione, il metodo e i contenuti della disciplina [5] . Le ragioni di questa incertezza non vanno cercate solo nella breve vita della disciplina – la quale in realtà, come vedremo, è giovane solo nella denominazione ma non certo nell’istanza teologica incarnata – ma in una oggettiva complessità e molteplicità dei suoi compiti e funzioni. Nel 1980 R. Latourelle canonizzava questa incertezza affermando che «per la sua stessa natura, la fondamentale è condannata all’insicurezza più che altre discipline»; e questo perché, essendo una disciplina di frontiera con finestre aperte sulle scienze umane, partecipa alla vita e ai cambiamenti interni a queste discipline, mentre, «come scienza teologica, è coinvolta in tutti i rinnovamenti della teologia, soprattutto in materia d’esegesi» [6] . Queste parole di R. Latourelle ci offrono già alcune indicazioni importanti sulla natura della TF, in particolare il suo statuto di disciplina di frontiera, che, molto più di altre discipline, ha una vocazione all’esterno, cioè a rivolgersi a quanto accade al di fuori della realtà della fede e a coloro che la fede non la condividono o la rifiutano e contestano.

    Volendo avvicinarci ad un’idea minima da cui partire di TF, che è oggi il nome indiscusso della disciplina di cui ci occupiamo, diciamo anzitutto che l’espressione teologia fondamentale dal sec. XIX diventa sempre più frequentemente il titolo del trattato che fino ad allora si chiamava apologetica [7] , e per quanto i cosiddetti manuali di apologetica non mancheranno anche nel sec. XX, soprattutto all’interno di un certo modello di TF, il Concilio Vaticano I contribuì al successo della nuova denominazione.

    Ora TF è stata intesa in diversi modi: alcuni pensavano alla TF come alla dottrina dei principi teologici, ovvero a quella riflessione fondamentale in teologia sui principi del cristianesimo e della Chiesa, oppure sui principi della teologia quale scienza della fede; altri intendevano la TF come ricerca teologica fondamentale e contenutistica dei fondamenti o dottrina dei fondamenti della fede cristiana, sia nel senso di accertare i tratti fondamentali della fede cristiana dalle fonti (momento positivo), sia di pensare la fede e i suoi contenuti in modo razionale e scientifico (momento speculativo). Altri infine hanno inteso la TF come una giustificazione argomentativa e una difesa razionale del cristianesimo contro gli attacchi e le messe in questione provenienti dalle varie istanze del pensiero [8] .

    Tuttavia se vogliamo iniziare a comprendere in linea generale cosa sia la TF dobbiamo per forza di cose considerare anche due altri nomi che, come dicevo, hanno indicato il senso della TF, ovvero apologia e apologetica.


    [1] «L’apologetica come parte del sistema della teologia è notoriamente una disciplina ancora nuova e perciò, benché con la sua nascita almeno nella sua nuova forma si riconosca un generale sentimento della sua necessità, questo sentimento non si è ancora chiarificato in un concetto di sé comunemente definito e universalmente accettato, come mostrano le diverse esposizioni apparse sin dall’inizio di questo secolo» (J.S. von Drey, Die Apologetik als wissenschaftliche Nachweisung der Göttlichkeit des Christentums in seiner Erscheinung. Erster Band. Philosophie der Offenbarung, Florian Kupferber, Mainz 1838, IV [prefazione]).

    [2] Capitava non di rado di trovare nei curricoli delle istituzioni teologiche che l’insegnamento di Teologia fondamentale o non esisteva oppure era (ed è ancora talvolta) associato all’Introduzione alla teologia.

    [3] Cf H. Verweyen, Einführung in die Fundamentaltheologie, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 2008, p. 16. Si veda anche più diffusamente P. Sequeri, Il Dio affidabile. Saggio di teologia fondamentale, Queriniana, Brescia 1996, pp. 21-44 e pp. 119-155. A giudizio dell’esponente della cosiddetta scuola milanese occorre rimuovere l’idea apologetica del passaggio-ponte dalla ragione verso la fede, restituendo la fede alla rivelazione; in questo modo si supera sia l’idea di una teologia dogmatica estranea alla ragione, sia di una ragione estranea alla fede, così da oltrepassare «il programma neo-apologetico di una intelligenza della fede che, lasciando intatta ad intra la sua necessaria qualità dogmatica, intende impegnarsi nella elaborazione di quegli aspetti del cristianesimo che maggiormente corrispondono ai criteri di rilevanza fissati dal destinatario contemporaneo» ( ibid., p. 119). In verità il sapere della fede «non viene da una ratio veritatis separata dalla fede rivelata, ma neppure da una veritas fidei estrinseca alla ragione universale e comune dell’uomo» ( ibid., p. 123).

    [4] Cf R. Fisichella, La rivelazione: evento e credibilità, EDB, Bologna 2002 ⁸, p. 24. Dello stesso cf anche Introduzione alla teologia fondamentale, Piemme, Casale Monferrato 1992.

    [5] Così si esprimeva J. Cahill, Una teologia fondamentale per il nostro tempo, in «Concilium» 6/1969, p. 115 (l’intero contributo pp. 115-124) e altrettanto facevano a distanza di un decennio F. Ardusso, Teologia fondamentale, in L. Pacomio (coordinamento di), Dizionario Teologico Interdisciplinare, I, Marietti, Torino 1977, p. 182 e di altri dieci anni M. Seckler, Teologia fondamentale: compiti e strutturazione, concetto e nomi, in W. Kern - H.J. Pottmeyer - M. Seckler (edd.), Corso di teologia fondamentale. 4. Trattato di gnoseologia teologica, Queriniana, Brescia 1990, p. 540.

    [6] R. Latourelle, Nuova immagine della fondamentale, in Id. - G. O’Collins (edd.), Problemi e prospettive di teologia fondamentale, Queriniana, Brescia 1982 ², p. 59 (l’intero contributo pp. 59-84).

    [7] Il primo autore ad impiegare Teologia fondamentale come titolo di un’opera di apologetica fu Johannes Nepomuk Ehrlich (1810-1864), membro della scuola teologica di Vienna fondata da A. Günther, che pubblicò a Praga una Fundamentaltheologie in due volumi (1859 e 1862).

    [8] Cf M. Seckler, Teologia fondamentale: compiti e strutturazione, concetto e nomi, cit., pp. 550-561.

    1. Chiarificazione dei termini

    Il termine apologia etimologicamente proviene dal greco apología e significa difesa o saper rendere conto di fronte ad accuse o contestazioni. Sotto il profilo letterario quando parliamo di apologia ci collochiamo nel genere degli scritti di difesa. L’esempio più noto di apologia è l’ Apologia di Socrate scritta da Platone; altri esempi sono l’ Apologia della Confessione di Augusta scritta da Melantone o l’ Apologia pro vita sua di J.H. Newman. Con particolare riferimento all’utilizzo del termine in ambito neotestamentario e nel cristianesimo primitivo, l’apologia indica la difesa contro accuse o contestazioni al cristianesimo che si espresse mediante la redazione di scritti – i cui autori sono chiamati apologisti – volti o a difendere gli accusati dalle accuse calunniose, o a chiarire gli aspetti essenziali della fede cristiana, o redatti con un intento missionario per contribuire alla diffusione della fede.

    Quanto invece al termine apologetica, esso indica quel procedimento con il quale «raggiungere in maniera radicale, universalmente valida e razionalmente convincente il fine dell’apologia» [1] . Entro questa definizione si danno poi diverse declinazioni del compito.

    Una prima concezione intende l’apologetica esclusivamente come difesa della fede: una apologetica difensiva razionale, presupponendo che non è possibile dimostrare in maniera razionale positiva la verità della fede cristiana, intende smascherare il carattere irrazionale delle obiezioni che sul piano della ragione sono sollevate contro la fede. Si tratta di una confutazione che non può avvenire se non sul piano della ragione mostrando che, come sostiene Tommaso, ciò che si muove come obiezione alla fede in nome della ragione non è conforme all’uso della ragione, si configura piuttosto un abuso della ragione che l’apologetica deve smascherare (si vedano soprattutto i capitoli iniziali del I libro della Summa contra gentiles di San Tommaso).

    Una seconda accezione di apologetica indica la dimostrazione razionale della fede cristiana, la sua credibilità esteriore, cioè basata su segni esterni alla fede che sono attingibili dalla ragione, non potendo dimostrare o riferirsi in prima istanza al contenuto della rivelazione che rimane soprannaturale e soprarazionale. A questa accezione è riconducibile tutta l’apologetica moderna nel suo tentativo di dimostrare l’effettività e la verità della rivelazione cristiana a prescindere dai suoi contenuti, ma verificando sul piano esclusivo della ragione l’origine divina della rivelazione e la sua credibilità in forza di questa origine divina e dell’autorità di Dio, il quale rivelandosi non può ingannare e pertanto ciò che dice è sicuramente vero.

    Un tentativo di superare l’estrinsecismo di un’apologetica in cui la credibilità della fede è esterna alla fede e il ruolo della ragione rimane preambolare rispetto alla fede oppure successivo alla stessa come sua difesa, è l’apologetica intrinsecista o dell’essenza il cui compito fondamentale sarebbe l’accertamento scientifico dell’essenza specifica (l’eidetica) del cristianesimo, una legittimazione sul piano della ragione filosofica del logos insito nel contenuto della fede cristiana [2] .

    Naturalmente si avrà maggiore chiarezza circa il senso di queste accezioni di apologetica quando andremo a verificare come storicamente l’istanza apologetica è stata declinata; per introdurci a questo compito inizio dalla considerazione del discorso apologetico nel Nuovo Testamento.


    [1] Ibid., p. 545.

    [2] Cf ibid., pp. 545-550.

    2. Apologia-apologetica nel Nuovo Testamento

    Se, da un lato, nel NT sono presenti la terminologia apologetica e la parola apologia, dall’altro bisogna riconoscere che non esiste nel NT un libro o un testo che abbia un carattere esclusivamente apologetico.

    Il verbo apologéomai ricorre 10 volte con il significato tipico presente negli autori greci classici ed ellenistici: parlare in difesa di qualcuno o di qualche cosa, difendersi (di fronte a qualcuno), discolparsi (di un’accusa). Il sostantivo apología ricorre 8 volte e significa discorso di difesa di fronte ad accuse o incriminazioni. Come si nota si tratta di una ricorrenza piuttosto saltuaria [1] .

    Più in dettaglio la terminologia apologetica nel NT è limitata all’opera lucana e a Paolo (e alla tradizione paolina), con la sola eccezione di 1Pt 3,15. Nel vangelo di Luca il verbo compare due volte in un contesto di processo (cf Lc 12,11 e 21,14), in cui Gesù invita i discepoli a non preoccuparsi di come difendersi perché sarà lo Spirito a suggerire loro come e cosa dire; negli Atti il contesto è sempre quello del processo o istruttoria, in cui questa volta è Paolo che prende la parola per difendersi davanti alle autorità dalle accuse che gli rivolgono i giudei (cf At 24,10; 25,8; 26,1.2.24). L’ambito giuridico-processuale riguarda anche il sostantivo apologia che in Atti designa il discorso di Paolo davanti alla folla di Gerusalemme e la sua difesa di fronte agli accusatori giudei (cf At 22,1 e 25,16).

    Quanto alle ricorrenze paoline, ancora una volta siamo in contesti polemici nei quali Paolo difende la sua metodologia missionaria (cf 1Cor 9,3) e il suo modo di agire verso le comunità, ribattendo le accuse degli avversari (cf 2Cor 12,19). Nella Lettera ai Filippesi Paolo distingue in due momenti susseguenti l’uno all’altro l’attività rivolta all’annuncio del vangelo e la sua difesa e consolidamento, compito che l’apostolo riconosce riservato a sé (cf Fil 1,7.16).

    Tralasciando per ora il testo di 1Pt 3,15, su cui dovremo ritornare in maniera più approfondita, si può dire conclusivamente che i due vocaboli, «pur rispettando l’accezione generale che hanno nei documenti greco-ellenistici, assumono nei testi del NT una nuova e puntuale connotazione religiosa in relazione al contesto della testimonianza resa al vangelo e della proclamazione missionaria in una situazione conflittuale, e del confronto con l’ambiente» [2] .

    Dunque è la missione il contesto nel quale e in ragione del quale i cristiani, gli apostoli per primi, si trovano a subire contestazioni, ad affrontare processi e a doversi difendere da accuse. Questo contesto missionario di annuncio della salvezza in Gesù Cristo e di dialogo con il destinatario di tale annuncio è definito essenzialmente da due tipologie di interlocutori: i giudei e i pagani.

    Per quanto riguarda l’ambiente giudaico l’annuncio missionario cristiano deve confrontarsi con l’obiezione fondamentale riguardante l’identità messianica di Gesù condannato alla morte infamante della Croce. Si prospetta così la necessità di rimuovere lo scandalo della croce, ovvero di mostrare la conformità di tale evento con le Scritture attraverso l’identificazione del messia con il giusto e il servo del Signore; funzionale a tale scopo è la proclamazione della risurrezione che, mentre garantisce la dignità di messia e Signore al Cristo, viene collocata all’interno della storia salvifica secondo lo schema di promessa-compimento [3] .

    Tuttavia molto presto il confronto missionario viene ad includere il mondo dei pagani. In questo caso sono ripresi alcuni elementi della propaganda religiosa giudaica, quali la critica dell’idolatria rozza del politeismo religioso pagano e la superiorità del monoteismo spirituale biblico, come pure la corruzione e la perversione morale dei pagani idolatri. Allo stesso tempo, però, proprio perché il dialogo non può limitarsi alla sola condanna radicale e senza appello delle cose sbagliate presenti in quella realtà, abbiamo anche la valorizzazione della ricerca religiosa e dell’impegno etico di certo paganesimo, come vedremo nella testimonianza di At 17 (Paolo all’areopago di Atene).

    Come si può notare, sia che si tratti del contesto giudaico che di quello pagano, l’aspetto comune è una situazione processuale ed uno scenario chiaramente conflittuale, diverse volte anche di persecuzione, basti pensare a Paolo trascinato in tribunale per rispondere alle accuse dei giudei. Del resto la conflittualità con l’ambiente caratterizza già le comunità alle quali si rivolgono i vangeli ed è in questi contesti che permane l’urgenza inderogabile di ogni cristiano di rendere testimonianza davanti agli altri a Cristo e al vangelo. Ora nel contesto missionario «questa testimonianza diventa anche e soprattutto dialogo che accoglie le attese, gli interrogativi e i problemi degli interlocutori/destinatari, tutte cose che aiutano a ricomprendere e riformulare il contenuto dell’annuncio cristiano. Inoltre questo confronto con gli altri, siano essi giudei o pagani, aiuta la comunità a riscoprire ed esplicitare le ragioni della sua fede e perseveranza», e allo stesso tempo il contesto conflittuale diventa «l’occasione della professione di fede vissuta come condivisione del destino del Cristo perseguitato e ucciso dagli uomini, risuscitato e glorificato da Dio» [4] .

    Iniziamo a questo punto il percorso storico vero e proprio partendo dal periodo patristico, per verificare mediante alcuni esempi significativi come una letteratura apologetica di difesa e di promozione del cristianesimo si sia declinata.


    [1] E infatti, come nota Fabris, manca nel Grande Lessico del Nuovo Testamento una trattazione dei termini. Cf R. Fabris, L’apologia nel Nuovo Testamento, in G. Ruggieri (diretta da), Enciclopedia di teologia fondamentale. Storia progetto autori categorie, vol. I, Marietti, Genova 1987, pp. 3-14.

    [2] Ibid., p. 5.

    [3] Dinamica molto evidente, per esempio, nei discorsi missionari di Pietro riportati agli inizi degli Atti.

    [4] R. Fabris, L’apologia nel Nuovo Testamento, cit., p. 14.

    I. L’APOLOGETICA IN ETÀ PATRISTICA

    Come nel NT, anche presso gli scritti dei Padri Apostolici del I secolo, non esiste un testo che abbia un taglio prettamente (se non esclusivamente) apologetico; infatti la letteratura cristiana extraneotestamentaria più antica appare maggiormente preoccupata ad intra di consolidare la fede e l’ordinamento della comunità cristiana che del confronto con l’ambiente; per questo motivo si può parlare di una letteratura apologetica solo a partire dagli inizi del sec. II, quando compaiono le prime opere dei cosiddetti apologisti [1] , ed è proprio nel sec. II, nell’età degli Antonini, che incontriamo l’apologetica come l’esperienza più significativa della letteratura cristiana. In questo periodo si annoverano le opere apologetiche più significative come l’ Apologia di Aristide (la più antica apologia che ci sia stata conservata, siamo nel 124-126), le due Apologie e il Dialogo con Trifone di Giustino (m. 165), il Discorso ai Greci di Taziano (redatto nell’arco cronologico 155-170), la Supplica per i Cristiani di Atenagora (composta tra il 176 e il 178), l’ Ad Autolico di Teofilo di Antiochia (scritto tra il 180 e il 185) [2] .

    Qualche parola però va spesa anzitutto su un testo molto breve a ridosso del periodo degli scritti degli apologisti; si tratta dell’ A Diogneto, di cui non si conosce l’autore e che si colloca a metà del secolo II oltrepassando i caratteri tipici degli scritti attribuiti ai Padri apostolici [3] . Se in questi ultimi ci si rivolgeva sempre e solo ai fedeli per esortarli a crescere nella fede, il cambiamento della situazione storica, il progressivo diffondersi del cristianesimo spinse ad una presentazione della fede cristiana per difendersi dall’incipiente persecuzione e dalle accuse ingiuste. Accade così che nei testi passino in second’ordine le dottrine più profonde destinate ad essere comprese da chi già credeva, e si sviluppino argomenti che potevano fare presa sulle persone colte del mondo pagano, come la dottrina di un Dio unico, creatore e provvidente, la dottrina del Verbo, l’avverarsi delle profezie in Cristo, l’alta moralità dei fedeli cristiani retti e santi. Nell’ A Diogneto tornano questi temi tranne quello delle profezie, perché l’autore assume toni molto duri verso il mondo giudaico.

    Il discorso rivolto a Diogneto (letteralmente figlio di Zeus) è una risposta a tre quesiti posti dallo stesso Diogneto: che Dio è quello in cui confidano i cristiani e che genere di culto gli tributano; che cosa significa l’amore che i cristiani hanno gli uni verso gli altri; infine perché il movimento cristiano è sorto ora e non prima.

    Quanto al primo quesito, l’autore invita Diogneto ad abbandonare i pregiudizi e a usare l’intelletto per riconoscere la totale inutilità degli dèi ai quali, per evidenti ragioni, i cristiani non credono. Quanto al secondo quesito, l’autore pone il senso dell’amore e dell’essere cristiano sotto la categoria del paradosso. Ed è qui che si ritrova il passaggio più famoso di tutta l’opera che riporto per intero:

    I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. La loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini multiformi, né essi aderiscono ad una corrente filosofica umana, come fanno gli altri. Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. Mettono in comune la mensa, ma non il letto. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. Non sono conosciuti, e vengono condannati. Sono uccisi, e riprendono a vivere. Sono poveri, e fanno ricchi molti; mancano di tutto, e di tutto abbondano. Sono disprezzati, e nei disprezzi hanno gloria. Sono oltraggiati e proclamati giusti. Sono ingiuriati e benedicono; sono maltrattati ed onorano. Facendo del bene vengono puniti come malfattori; condannati gioiscono come se ricevessero la vita. Dai giudei sono combattuti come stranieri, e dai greci perseguitati, e coloro che li odiano non saprebbero dire il motivo dell’odio. A dirla in breve, come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani (5-6) [4] .

    All’origine della fede cristiana – ciò che ne fa il tratto distintivo – c’è la discesa di Dio tra gli uomini nella sua Parola incarnata: non si tratta più di qualcosa di umano, di un’invenzione mortale o una dottrina tramandata, ma di Dio che invia il fattore di tutte le cose col compito di chiamare, amare e salvare. Quanto i filosofi saccentoni hanno detto di Dio sono affermazioni vuote e sciocche, favole da ciarlatani; la sola e vera conoscenza di Dio è quella che deriva dalla rivelazione di Dio nel suo Figlio diletto nel quale ha fatto conoscere tutto ciò che aveva predisposto fin dall’inizio. Ed ecco la risposta alla terza domanda: nel disegno di Dio l’uomo è lasciato a se stesso per essere salvato con l’invio del Figlio venuto per il nostro riscatto.

    L’ A Diogneto, testo breve e intenso, rappresenta il primo documento dove prende forma la tematica apologetica che di lì a poco sarà sempre più presente, segnando una stagione della letteratura cristiana patristica.

    Venendo ora all’apologetica nei Padri, prima di iniziare è bene fare una distinzione e chiarire un aspetto preliminare. Quando si parla di apologetica in età patristica occorre tener conto della divisione del periodo in due momenti piuttosto diversi tra di loro e caratterizzati da contesti e situazioni non del tutto sovrapponibili. L’evento che fa da spartiacque è rappresentato dalla pax costantiniana, con il riconoscimento non solo della libertà di culto per i cristiani, ma soprattutto con il rapido e progressivo divenire del cristianesimo la religione dell’impero con il conseguente inarrestabile tramonto del paganesimo [5] . Come si può già intuitivamente comprendere, una cosa è difendersi in un tempo di persecuzione e di messa al bando della fede, fino all’esperienza cruenta del martirio, altra è confrontarsi più serenamente con prospettive religiose e filosofiche diverse, senza dover giustificare innanzitutto la propria esistenza e legittimità come religione e, ancor di più, come visione del mondo. La collocazione storica degli scritti apologetici risentirà molto di questo fortunato spartiacque che rappresentò un’autentica svolta per il cristianesimo.

    Quanto poi ai contesti e ai destinatari dell’apologia, essi rimangono in un primo momento i due citati, anche se il peso del primo (ebrei) progressivamente si ridurrà a tutto vantaggio del secondo (greci).

    Il primo contesto è l’ebraismo, con il quale si andrà sempre più verso lo scontro polemico ed aspro che spingerà poi lo stesso cristianesimo ad abbandonare il riferimento alle comunità ebraiche (anche quelle della diaspora) per rivolgere la propria predicazione verso i pagani. Così, se nei primi decenni si era sottolineata la continuità con l’esperienza ebraica (Gesù messia preannunciato dai profeti, il cristianesimo compimento della promessa), poi, dinanzi al muro d’impermeabilità ebraico [6] , assistiamo ad un’opposizione crescente che spinge i cristiani a considerarsi non più la parte più illuminata del popolo eletto, ma il nuovo popolo d’Israele, alternativo a quello storico. Di conseguenza, più che sulla continuità si insiste sulle differenze dal punto di vista del culto e della morale, rivendicando i cristiani la sola interpretazione autentica dell’AT contro il legalismo dell’esegesi ebraica, nella linea dalla promessa al compimento, dalla parzialità alla pienezza [7] ; si tratta di un processo di distacco polemico, favorito anche dal fatto che le comunità cristiane saranno sempre più prevalentemente formate da persone provenienti dal mondo pagano piuttosto che da giudei o proseliti. L’apologia verso gli ebrei che si carica di verve polemica la incontriamo nella Epistola di Barnaba dei primi decenni del II sec. L’autore in quest’opera contesta con durezza ai giudei l’incapacità di leggere nelle Scritture ciò che si riferisce a Cristo e alla Chiesa e la conseguente inutilità delle istituzioni cultuali giudaiche.

    La testimonianza più significativa dell’apologia verso gli Ebrei la troviamo nel Dialogo con Trifone di Giustino [8] . Il confronto-scontro è sulla figura di Gesù e sull’interpretazione della sacra Scrittura che preannuncia la verità di questo Cristo. All’obiezione giudaica, secondo la quale i cristiani non sarebbero diversi dai pagani perché non osservano le prescrizioni della legge e ripongono la loro speranza in un uomo crocifisso (cf 10,3), Giustino risponde mostrando il superamento dell’antica legge nella realizzazione della nuova alleanza preannunciata dai profeti. Il fatto poi che Dio abbia dato certe prescrizioni solo agli Ebrei, deriva dalla loro iniquità (cf 21,1), dai loro peccati, dall’idolatria e dall’essere un popolo dalla dura cervice (cf 27,2 e 46,5). La ragione del rifiuto ebraico del cristianesimo non consiste soltanto nell’inosservanza della legge da parte dei cristiani, ma nel non ritenere che il Cristo, l’atteso, sia nato da una vergine, sia Dio come il Padre e, soprattutto, senza onore né gloria, sia addirittura un crocifisso, cioè un maledetto da Dio (cf 32,1). Agli occhi di Trifone i misteri cristiani oscillano tra follia e bestemmia. A proposito dell’incarnazione: «dire infatti come fai tu che questo Cristo preesisteva prima dei secoli come Dio, che ha accettato di essere generato e farsi uomo e che non è uomo nato da uomo, mi sembra non solo paradossale ma addirittura folle» (48,1); quanto alla divinità di Cristo: «dovreste vergognarvi di andar raccontando le stesse cose dei Greci! Per voi sarebbe meglio riconoscere che questo Gesù è un uomo nato da uomini e, se anche dimostrate in base alle Scritture che egli è il Cristo, che è stato giudicato degno di essere stato scelto come Cristo in forza di una condotta irreprensibile e conforme alla Legge, e non avere la sfrontatezza di inventare prodigi, se non volete passare per dementi come i Greci!» (67,2); quanto infine allo scandalo della morte in croce: «ma che il Cristo sia stato ignominiosamente crocifisso, di questo proprio non sappiamo risolverci. La legge infatti dice che chi è crocifisso è un maledetto, per cui su questo punto la mia refrattarietà raggiunge il culmine. Che le Scritture proclamino un Cristo sofferente, questo è chiaro, ma che lo dovesse essere di un supplizio maledetto dalla Legge, di questo vogliamo conoscere le prove, se ne hai» (89,2).

    Giustino cerca di convincere Trifone facendo leva sulla Scrittura, mostrando che la sua corretta lettura e interpretazione permette di riferire a Cristo le profezie dell’AT, come lo stesso Trifone chiede esplicitamente (cf 36,1). E così sono dimostrati i misteri della vita di Cristo: la sua generazione eterna dal Padre, il suo concepimento verginale e la nascita da donna, e soprattutto l’evento scandaloso della morte in croce. La conclusione è che essendo Cristo il contenuto ultimo prefigurato dalla Scrittura, chi crede in Cristo e custodisce i suoi precetti (cf 123,9) costituisce «la vera stirpe d’Israele» (135,3), il popolo che Dio ha chiamato in Abramo. Così quella voce, scrive Giustino, ha chiamato tutti noi cristiani, «e noi siamo usciti dalla condotta iniqua come quella degli altri abitanti della terra, e assieme ad Abramo erediteremo la terra santa [...] essendo figli di Abramo in grazia della stessa fede. Come infatti Abramo credette alla voce di Dio e gli fu accreditato come giustizia, così anche noi abbiamo creduto – fino a dare la vita – alla voce di Dio che è nuovamente riecheggiata per mezzo degli apostoli del Cristo e che ci era stata annunciata per mezzo dei profeti, ed abbiamo abbandonato tutte le cose del mondo» (119,5-6).

    Accanto all’ebraismo, il mondo pagano rappresenta il secondo contesto, destinato presto a diventare del tutto prioritario, il rapporto con il quale sarà caratterizzato all’inizio dallo scontro e da diffidenza, persecuzione, avversione sul piano politico, denigrazione e derisione su quello culturale e filosofico [9] .

    Come sempre capita quando ci si sente accerchiati, o quanto meno radicalmente contestati, la difesa delle proprie posizioni diventa anche un modo per far crescere la maturità della fede e l’edificazione della comunità cristiana; tant’è vero che quando il cristianesimo sarà per certi versi quasi privo di nemici esterni, si entrerà in una nuova fase in cui il confronto e la difesa saranno soprattutto interni alla Chiesa: non più tra credenti e pagani o giudei, ma tra credenti e credenti, tra la vera fede e la falsa fede. Infatti, presto occorrerà impegnarsi in una nuova modalità di difesa della fede, minacciata questa volta non più dall’ostilità dell’ambiente circostante, ma da una forma erronea che sarà quella incarnata da coloro che verranno considerati eretici.

    Il periodo che va dall’età sub apostolica fino al Concilio di Nicea (325) vede un cristianesimo e una chiesa in una situazione particolarmente difficile che rischiava di mettere in dubbio la loro stessa sopravvivenza e diffusione; in tale tempo si trattava «di difendere e di affermare con originalità e creatività di posizioni e di iniziative il proprio messaggio in una situazione storica, che in ogni campo ed in ogni senso determinava una sua condizione di minorità. La reazione vivace ad incomprensioni e ad attacchi provenienti dall’esterno e sentiti come ingiusti si unisce costantemente allo sforzo di mantenere una differenziazione radicale e consapevole rispetto ai modi di vivere e di pensare comuni all’ambiente circostante» [10] .

    Diffuso agli inizi negli strati sociali più umili e arretrati, portatore di contenuti in palese opposizione con le categorie mentali più comuni nella società antica – basti pensare al rigido monoteismo ebraico o alla carica rivoluzionaria implicata nel comandamento nuovo dell’amore universale –, il cristianesimo si presentava in una condizione di sospetto e di svantaggio nei confronti del mondo giudaico, dal quale si andava separando pur essendo sorto nel suo grembo e pur presentandosi come compimento dell’alleanza antica, e nei confronti delle classi della popolazione pagana, presso le quali la diffidenza verso la nuova religione crebbe fino all’odio, fino a considerare i cristiani una setta deviante dell’etnia giudaica, una pratica orrenda e vergognosa, come indirettamente la definisce Tacito nei suoi Annali. Di fatto dai pagani il cristianesimo era considerato non una religio ma una superstitio e così viene definito tanto da Tacito – che ne parla in termini di funesta superstitio [11] –, quanto da Plinio che in una lettera a Traiano impiega l’espressione superstitio pravam et immodicam [12] , e infine da Svetonio che nella Vita di Nerone scrive di superstitio nova ac malefica.

    Sovversivi e ribelli, istigati dal loro fondatore (il certo Chrestus, come lo chiama Svetonio), veri e propri atei, i cristiani rappresentano una seria minaccia per l’ordine costituito; per non parlare poi dell’immoralità delle loro pratiche che vanno dall’incesto all’antropofagia rituale [13] , tutte cose che giustificavano la persecuzione, la confisca dei beni, la morte. Nei processi spesso l’unico capo di accusa era il nomen christianum, l’appartenenza ad un’associazione vietata e la pratica di una religio illicita, accusa da cui ci si poteva liberare mediante un gesto d’abiura, il rifiuto del quale era interpretato come insubordinazione al potere legale, come odium humani generis, il non volersi inserire nelle abitudini della vita sociale comune, e crimine di lesa maestà.

    Se era evidente e profondo il disprezzo verso i cristiani proveniente dai ceti alti e dalla classe politica dell’impero, altrettanto, se non peggiore, era la perplessità degli intellettuali. A questi, aperti verso qualsiasi esperienza di pensiero e sensibili in quel periodo all’irrazionalismo delle correnti mistiche e religiose, il messaggio cristiano appariva come rozzo e grossolano, basato su testi dallo stile dimesso e barbarico [14] , digiuno, almeno «nei suoi primi esponenti e nella prima propaganda, di un retroterra culturale ammissibile o di una conoscenza meno che elementare e distorta delle sofisticate elaborazioni filosofiche e retoriche». Inoltre, la duplice matrice originaria – rappresentata da un lato dall’ambiente giudaico intransigente e chiuso nell’isolamento linguistico e spirituale, e dall’altro dalle classi popolari e dall’immigrazione allogena delle metropoli, estranee ad ogni processo culturale superiore – «conduceva per lo più all’esclusione dei cristiani dal ruolo di interlocutori accettati o accettabili da parte della cultura filosofica antica. Per i suoi rappresentanti, anche per i meno prevenuti, le loro credenze rientravano nella vasta area delle innumerevoli superstizioni magiche e popolari, che ragionevolmente avrebbero potuto tradursi solo in proposizioni di rara assurdità ed incongruenza» [15] .

    Tuttavia, di fronte al fatto che il culto cristiano si diffondeva nonostante il progressivo configurarsi di persecuzioni (la cui prima sistematica e deliberata fu quella promossa dall’imperatore Valeriano nel 257 e 258), occorreva una vera e propria «confutazione dottrinale avvalendosi del concorso della filologia da impiegare contro i testi biblici, della filosofia per dimostrare l’irrazionalità del dogma cristiano, della denuncia sociale per palesare il carattere destabilizzante di quella organizzazione» [16] ; il che è quanto fece Porfirio nel suo scritto Contro i cristiani.

    Prima però di confrontarci con la stagione matura dell’apologetica, esaminiamo gli inizi della letteratura apologetica, antecedente alle risposte sollecitate dagli attacchi di Celso o di Porfirio.


    [1] Sul genere letterario dell’apologetica in età patristica cf J.-C. Fredouille, L’apologétique chrétienne antique: naissance d’un genre littéraire, in Revue des Études Augustiniennes 38 (1992), pp. 219-234; Id., L’apologétique chrétienne antique: métamorphoses d’un genre polymorphe, in Revue des Études Augustiniennes 41 (1995), pp. 201-216. Sul rapporto tra apologetica e cultura greca cf B. Pouderon - J. Doré (sous la direction de), Les apologistes chrétiens et la culture grecque, Beauchesne, Paris 1998; per una ricostruzione puntuale ed esaustiva dal conflitto tra cristiani e pagani cf G. Rinaldi, Pagani e cristiani. La storia di un conflitto (secoli I-IV), Carocci, Roma 2016. Sul pensiero dei Padri cf C. Moreschini, Storia della filosofia patristica, Morcelliana, Brescia 2005 ². Sull’apologetica patristica infine cf le presentazioni in A. Dulles, Storia dell’apologetica, Fede & Cultura, Verona 2010, pp. 49-109; W. Geerlings, Apologetica e teologia fondamentale nella patristica, in W. Kern - H.J. Pottmeyer - M. Seckler (edd.), Corso di teologia fondamentale. 4, cit., pp. 375-395; E. dal Covolo (ed.), Storia della teologia. 1. Dalle origini a Bernardo di Chiaravalle, ED-EDB, Roma-Bologna 1995, pp. 23-146; M. Rizzi, Ideologia e retorica negli ‘exordia’ apologetici. Il problema dell’‘altro’ (II-III secolo), Vita e Pensiero, Milano 1993; B. Sesboüé, A pologia della fede e discorso cristiano nell’epoca patristica, in Id. (direzione di), Storia dei dogmi. IV. La Parola di Dio, Rivelazione, Fede, Scrittura, Tradizione, Magistero, Piemme, Casale Monferrato 1998, pp. 17-64; P. Sguazzardo, Storia della teologia fondamentale, in G. Lorizio (ed.), Teologia fondamentale. 1. Epistemologia, Città Nuova, Roma 2004, pp. 237-277; G. Tanzella-Nitti, Teologia della credibilità in contesto scientifico. I. La teologia fondamentale e la sua dimensione di apologia, Città Nuova, Roma 2015, pp. 115-125; 286-361.

    [2] Tutti questi testi – ad eccezione del Dialogo con Trifone – sono raccolti in Gli apologeti Greci, a cura di C. Burini, Città Nuova, Roma 1986, edizione a cui mi riferirò.

    [3] Fanno parte della raccolta dei Padri apostolici la Didaché, le lettera di Clemente Romano ai Corinti, le lettere di S. Ignazio d’Antiochia, le lettere di S. Policarpo ai Filippesi, la lettera di Barnaba, la cosiddetta seconda lettera di S. Clemente ai Corinti, il Pastore di Erma.

    [4] A Diogneto, in I Padri Apostolici, a cura di A. Quacquarelli, Città Nuova, Roma 1991 ⁷, pp. 356-357.

    [5] Con il rescritto di Licinio (il cosiddetto editto di Milano del 313, attribuito a Costantino) veniva proclamata la libertà di culto, mentre con una serie di editti – tra il 28 febbraio 380 e l’8 novembre 382 – l’imperatore Teodosio il Grande proclamava il cristianesimo unica religione dell’impero e proscriveva tutte le altre.

    [6] Un ruolo significativo in ciò lo ebbero i fatti di Gerusalemme del 70; la distruzione del tempio, infatti, venne interpretata come la giusta punizione inferta da Dio al suo popolo che aveva voltato le spalle al salvatore e messia (cf G. Rinaldi, Pagani e cristiani, cit., p. 49). L’evento del 70 e la fine dell’autonomia politica di Israele furono momenti in cui cristiani ed ebrei presero atto di rappresentare ormai due religioni distinte se non separate. Da qui non mancheranno atteggiamenti di ostilità verso l’AT e la tradizione ebraica che figure come Marcione e gli gnostici (Basilide, Tolomeo ecc.) incarneranno, ma che la chiesa non farà mai proprie considerando tale posizioni fuori dall’ortodossia.

    [7] Elementi questi presenti anche nel NT, si pensi al vangelo di Matteo, dove il Cristo si presenta insistentemente come colui che non è venuto ad abolire la legge e i profeti ma a dare compimento, all’apostolo Paolo che vede nel letteralismo della lettura giudaica delle Scritture la ragione della loro incapacità di intendere il compimento in Cristo delle promesse messianiche oppure all’idea dell’elezione delle genti contrapposta a quella di Israele.

    [8] Seguo l’edizione Giustino, Dialogo con Trifone, introduzione, traduzione e note di G. Visonà, Paoline, Milano 1988.

    [9] Su apologia e cultura greca cf G. Dorival, L’apologétique chrétienne et la culture grecque, in B. Pouderon - J. Doré (sous la direction de), Les apologistes chrétiens et la culture grecque, cit., pp. 423-465.

    [10] V. Peri, Caratteri dell’apologetica greca dagli inizi al Concilio di Nicea, in G. Ruggieri (diretta da), Enciclopedia di teologia fondamentale, cit., p. 17.

    [11] Nel libro XV degli Annali, descrivendo l’incendio di Roma appiccato da Nerone nel 64, lo storico ricorda che l’imperatore, per mettere a tacere l’opinione pubblica, accusò dell’incendio i cristiani, un gruppo «odiato per le loro nefandezze ( flagitia). Il loro nome viene da Cristo, il quale durante il regno di Tiberio, era stato giustiziato dal procuratore Ponzio Pilato. Repressa per breve tempo, la rovinosa ( exitiabilis) superstizione riprese di nuovo forza, non solo in Giudea, il paese in cui ebbe origine questo male, ma anche nella città di Roma, in cui converge da ogni parte del mondo ed è ferventemente coltivata ogni sorta di pratica orrenda e vergognosa» (15,44).

    [12] Nella lettera Plinio, governatore della Bitinia, chiede a Traiano come comportarsi nei confronti dei cristiani e illustra il suo modo di procedere: interrogare i denunciati se cristiani, minacciarli di supplizio se confessavano di esserlo, mandare assolti quelli che negavano di essere cristiani (e a prova della loro negazione faceva invocare e incensare le statue degli dèi e dell’imperatore). L’imperatore nel rescritto approva la prassi del governatore stabilendo il principio giuridico secondo il quale i cristiani non vanno ricercati ma se denunciati (non anonimamente) e trovati colpevoli vanno puniti nel caso si rifiutino di abiurare la loro fede. Si tratta della Lettera 96 ( Epistularium X) cui segue quella che contiene anche il rescritto di Traiano ( Lettera 97). Per il testo cf R. Penna, L’ambiente storico-culturale delle origini cristiane. Una documentazione ragionata, EDB, Bologna 1991 ³, pp. 272-275.

    [13] Così Teofilo nell’ Ad Autolico riassume le accuse e le dicerie formulate con ragionamenti vani da bocche empie: «dicono che le nostre mogli sono comuni a tutti e che viviamo in unioni promiscue, che ci accoppiamo con le nostre sorelle, e, accusa più empia e crudele di tutte, che noi ci cibiamo di carne umana» (Teofilo, Ad Autolico, III, 4, in Gli apologeti Greci, cit., p. 434). Si veda anche Atenagora nella Supplica per i cristiani: «ci attribuiscono tre delitti: ateismo, cene tiestee [cannibalismo] e unioni edipodee [incesto]. Se queste (accuse) sono vere, non abbiate riguardo per nessuno, ma citate in giudizio i delitti, estirpateci dalle radici con le nostre mogli e con i figli» (III,1, in ibid., p. 253). Tutta la Supplica è una confutazione di queste tre accuse.

    [14] A poco a poco gli avversari della fede cristiana si resero sempre più conto dell’importanza della Bibbia per i cristiani ed ebbero abitualmente posizioni stroncatorie nei confronti dei testi biblici a partire da un duplice punto di vista: lo stile e i contenuti delle Scritture. In particolare era giudicato severamente lo stile in cui erano scritti i testi biblici: «in una società nella quale l’arte del bel dire e dell’egregiamente scrivere era considerata il sigillo del bello e del vero, una religione che si basava su testi privi di tali requisiti appariva improponibile» (G. Rinaldi, Pagani e cristiani, cit., p. 314). Basti ricordare qui a mo’ di esempio quanto riferisce Arnobio nell’ Adversus nationes quando nel riassumere i giudizi dei pagani verso la Scrittura scrive: le Scritture cristiane «furono scritte da persone ignoranti e incivili e pertanto non vi si deve prestare facile orecchio. La lingua è volgare e spregevole. Le vostre scritture sono disseminate di barbarismi e di solecismi e inquinate da grossolani errori» (I, 58-59, ed. it. Arnobio, Difesa della vera religione, a cura di B. Amata, Città Nuova, Roma 2000, p. 133).Vedremo simile posizione essere presente in Celso e del resto il problema stilistico era avvertito anche dai cristiani, come ci riferisce Lattanzio (cf Le divine istituzioni 5,1) o Agostino, che nelle Confessioni (cf 3,5,9) racconta di essere stato tenuto lontano dalla fede della madre Monica dall’inadeguatezza stilistica delle Scritture. Inoltre i Pagani consideravano indebito il ricorso dell’esegesi cristiana all’allegoria perché essa – secondo l’articolata argomentazione di Porfirio – andava applicata solo a testi giudicati nobili per antichità e significato. Sul rapporto e confronto dei pagani con le Scritture, consapevoli i primi che per combattere il cristianesimo occorreva minarne il fondamento, cioè l’affidabilità dei testi sacri, si veda l’opera in due volumi di G. Rinaldi, La Bibbia dei pagani. I. Quadro storico; II. Testi e documenti, EDB, Bologna 1997-1998. In particolare nel vol. II le pp. 39-58 dove sono riportati e commentati i giudizi sulle Scritture in generale.

    [15] V. Peri, Caratteri dell’apologetica greca dagli inizi al Concilio di Nicea, cit., p. 19. Un riassunto durissimo delle accuse rivolte all’empia setta dei cristiani lo troviamo nell’ Ottavio di Minucio Felice dove il pagano Cecilio così si esprime: «raccolgono dall’ultima feccia persone sprovvedute e donne credule facilmente raggirabili per via del loro sesso, e mettono insieme un’accozzaglia di empi congiurati. Si radunano di notte, osservano digiuni rituali e consumano cibi inumani, aggregandosi non per celebrare qualche cerimonia religiosa ma per stringere i loro patti delittuosi. Gente che si nasconde e fugge la luce, in pubblico silenziosa e in disparte ciarliera. Disprezzano i templi come fossero delle tombe, sputano sugli dèi e deridono i riti sacri. I sacerdoti li commiserano, i miserabili [...]; gli onori e le porpore le disprezzano, pezzenti come sono! Che stupidità incredibile, che sfrontatezza inaudita! Non si curano dei tormenti presenti, mentre hanno paura di quelli incerti e futuri. Temono di morire dopo morti, e intanto non temono la morte. Così consolandosi con la risurrezione, ingannano la paura con la speranza. [...] Questa congiura deve essere maledetta e cancellata fino alle radici» (8,4-9,1; ed. it. a cura di M. Spinelli, Città Nuova, Roma 2012, pp. 55-57).

    [16] G. Rinaldi, Pagani e cristiani, cit., p. 141.

    1. Gli inizi della letteratura apologetica

    Gli inizi della letteratura apologetica sono segnati dai processi giudiziari che non di rado si concludevano con la condanna a morte e il martirio dei cristiani. Perciò l’apologia si presenta letterariamente come un discorso in tribunale la cui finalità è difendersi dalle accuse addirittura ribaltandole. In questi processi accadeva spesso che, mentre i giudici si attendevano come apologia da parte degli imputati il gesto simbolico loro richiesto per cancellare la denuncia ed evitare la condanna, gli accusati si rifiutavano di compierlo e seguivano un’altra linea di difesa, di ordine più generale. Tale difesa anziché avere di mira semplicemente l’argomentazione della propria innocenza, pur palese per la mancanza di accuse reali, diventava occasione per presentare e argomentare i contenuti della fede e le abitudini della vita dei cristiani, e per dimostrare l’inaccettabilità delle accuse a partire dalla filosofia e dalla morale del mondo pagano, con l’intento di aiutare e promuovere la conversione dei pagani. Quest’opera di confutazione delle accuse (difesa) ed esposizione della fede (annuncio) acquistava ulteriore prestigio quando gli imputati avevano personalità o notorietà di intellettuali e filosofi.

    Inoltre la difesa della fede da problema di ordine pubblico tendeva progressivamente a diventare questione culturale e filosofica; non a caso, ad esempio, diverse apologie sono indirizzate agli imperatori filosofi, tra cui le due più famose apologie, quelle scritte da Giustino, il che ci dice come il terreno del confronto non era più solo quello giuridico delle leggi e della violazione dei diritti verso i cristiani, ma quello della difesa dei contenuti della fede, il che esigeva una conoscenza e una loro proposta in termini e categorie non estranee alla sensibilità filosofica pagana, pena il precludersi la possibilità già solo di essere compresi. Il cristianesimo inevitabilmente si muoveva verso la realtà della filosofia pagana per un confronto, cercando di mostrare la continuità profonda nella linea del compimento tra le istanze più autentiche e vere della tradizione filosofica e le posizioni cristiane. Pur essendo una religione, il cristianesimo non cercò tanto il dialogo con la religione pagana – del resto già oggetto di feroci critiche da fronti diversi – ma con la filosofia.

    Ciò nonostante non ci fu irenismo verso la filosofia. Se la condanna della religione e della mitologia greca è unanime e riguarda tesi come l’idolatria, i sacrifici, la mitologia, gli oracoli, l’immoralità delle abitudini pagane (senza dimenticare che questi attacchi recuperavano anche argomentazioni provenienti soprattutto dai filosofi pagani) [1] , più articolato e sfumato è il giudizio verso poeti, storici e filosofi pagani, nei confronti dei quali si possono rinvenire almeno quattro posizioni [2] : anzitutto quella del furto, del plagio delle verità bibliche da parte dei filosofi greci; poi vi è la condanna senza appello, che fa della filosofia qualcosa da riprovare (cf Taziano) e i filosofi dei ciarlatani (cf A Diogneto). In terzo luogo vi è l’apprezzamento della filosofia che, soprattutto con Giustino, viene vista come luogo in cui Dio ha seminato germi di verità rendendo l’umanità partecipe del logos di Dio. Infine si deve annoverare una posizione intermedia, tra il positivo e il negativo, vicina alla precedente ma attenta anche a sottolineare le tare della filosofia (cf Teofilo, Eusebio di Cesarea). Tutto questo senza dimenticare la polemica contro la filosofia – malgrado la sua valorizzazione – a partire dall’incoerenza tra vita e dottrina dei filosofi, l’immoralità e inutilità della filosofia e soprattutto il disaccordo delle filosofie tra loro e le contraddizioni interne ai singoli filosofi, al cospetto invece dell’unità della fede cristiana [3] .

    Ad ogni modo, era nella filosofia che si rinveniva l’ humus corretto e unico su cui confrontarsi, sia nel senso di una difesa del cristianesimo in nome dei princìpi della filosofia pagana, sia nel senso, potremmo dire, missionario, poiché abbracciare la fede cristiana diveniva un gesto in continuità e quasi in consequentiam veniens con il pensiero filosofico, sulla scia di quanto Paolo primo fra tutti aveva tentato di far compiere ai notabili dell’areopago di Atene (cf At 17,16-34). Non a caso il cristianesimo si presentava come la vera filosofia, universale quanto la verità filosofica e comprensibile perché il Cristo adorato, vero volto del Logos, era lo stesso cercato – ma non pienamente conosciuto – dai filosofi ricercatori della verità, al punto che questi possono essere considerati adoratori di Cristo prima della sua venuta nella carne e perseguitati e accusati di ateismo come i cristiani, perché anch’essi rifiutarono le divinità del politeismo.

    Si trattò, in definitiva, di dimostrare che la risposta più illuminante ed adeguata alle attese e alle esigenze umane più avvertite in quel tempo, si ritrovava proprio nella concezione e nella condotta di vita portata dal cristianesimo, capace di inglobare e valorizzare «tutte le parziali intuizioni e verità sull’uomo e su Dio, di cui era stata capace la meditazione più alta degli antichi elleni, grazie all’influenza indiretta sul loro pensiero della più antica speculazione teologica mosaica (fondata sulla rivelazione) e della segreta ma diretta azione del logos presente in ogni uomo che viene in questo mondo. La concezione cristiana è in questo senso presentata come la più autentica e completa

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