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La Silente Colpa del Peccato
La Silente Colpa del Peccato
La Silente Colpa del Peccato
E-book434 pagine6 ore

La Silente Colpa del Peccato

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Info su questo ebook

Paesi, culture e valori a confronto in un lasso di tempo che dal secondo dopoguerra giunge alle porte degli anni Novanta. Il primo atto della drammatica vicenda familiare raccontata da Elvira Sciurba si svolge in Sicilia, a Galluzio, un paesino in provincia di Palermo. Due giovani fidanzati, Vito e Maria, stanno per coronare il loro sogno d’amore con un matrimonio fortemente voluto da entrambe le famiglie, quando un inaspettato evento sconvolge ogni progetto; certo, il responsabile è Vito, ma questo non basta a placare le ire del padre di lei, don Totò Calascibetta, uomo di gran rispetto, il cui onore non può piegarsi alle richieste che il giovane, oberato dai debiti di gioco, avanza per “risolvere” il problema. La storia sembra destinata a chiudersi con l’incontrollabile atto d’ira di don Totò avverso l’arrogante rampollo dei Colajanni, ma l’autrice, con abilità ammirabile, ricuce la trama spezzata in un altro mondo… il Nuovo Mondo: l’America. Qui, in quello che potremmo definire il secondo atto della tragedia, un giovane migrante siciliano giunge per ricostruirsi una vita: ma il destino di un uomo talvolta è come un anello, un cerchio con un punto di origine, che è lo stesso di quello della fine…

Un romanzo ricco di storie nella storia, di personaggi non protagonisti ma determinanti rispetto all’evolversi dei fatti e degli eventi, che affronta numerose questioni sociali, focalizzando l’obiettivo sui sentimenti più profondi che albergano nel cuore degli uomini, dove il ricordo è più forte dell’amore, dove il rancore è più forte del perdono e che tiene il lettore incollato alla pagina sino all’epilogo dei fatti.
LinguaItaliano
Data di uscita31 ott 2016
ISBN9788822860729
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    Anteprima del libro

    La Silente Colpa del Peccato - Elvira Sciurba

    EPILOGO

    RINGRAZIAMENTI

    A Viviana Petralia

    che ha realizzato l’illustrazione della copertina

    PROLOGO

    Erano le otto del mattino del giorno di Natale.

    Il sordo suonare delle campane coperte di neve si confonde con l’assordante suono delle sirene: ambulanze e carabinieri giungono a fatica, facendosi strada tra gli stretti e innevati vicoli che portano alla scena del delitto.

    Le donne, già pronte ai fornelli a dare avvio al rito del luculliano pranzo di Natale, i bimbi assonnati dalla veglia, gli uomini, ognuno davanti ad una calda tazza di caffè, schizzano fuori dalle case, incuranti del gelido freddo.

    Cosa succede? Cosa può rompere l’incanto di quella magnifica giornata di giubilo?

    Nulla manca alla poesia di quel giorno! La neve, il freddo, le luci colorate, i parenti che popolano le case, le campane delle chiese che, come in una competitiva contesa, suonano incessantemente a festa.

    Succede che una bomba umana, tenuta in sordina per 40 anni e alimentata ogni giorno da un piccolo, grande candelotto, per un evento improvviso e inimmaginabile esplode.

    Donna Maria ferisce a morte quel gran galantuomo di Vito Colajanni e gravemente la propria figlia Cecilia.

    La ragazza ha riportato l’ennesima grave ferita, questa volta fisica e palese.

    Ma durante i suoi brevi, ma anche infiniti trent’anni, il suo cuore, la sua mente, sono stati più volte, mille e mille volte, colpite dalle ferite infertele da Vito Colajanni.

    Vito e Cecilia vengono trasportati d’urgenza all’ospedale, mentre Donna Maria si avvia da sola, con le sue pantofoline di stoffa, i piedi affondati nella neve, verso la jeep dei carabinieri.

    Lei che ha sempre sofferto tanto freddo, cammina ardita verso la jeep della sua liberazione: giustizia è fatta!

    Vito Colajanni è morto, e assieme a lui forse tutti i mali di donna Maria.

    PRIMA PARTE

    CAPITOLO I

    Tutto cominciò quel maledetto 25 dicembre di quarant’anni prima, quando Donna Matilde, madre di Maria, donna ferrea e austera, ma con un cuore grande e generoso, mentre allestiva gli ultimi preparativi per il gran pranzo di Natale da consumare assieme ai parenti di Vito Colajanni, si sentì chiamare da una voce di donna gioiosa, ma concitata: «Donna Matilde, donna Matilde… Venite, presto. Donna Vincenzina, donna Vincenzina…».

    «Donna Vincenzina cosa?» rispose la donna.

    «Donna Vincenzina chiede di Voi, il bambino…».

    Allora ella capì che donna Vincenzina, anche se con ben 3 settimane di anticipo sulla data presunta del parto, stava per dare alla luce il quarto dei suoi 8 figli.

    Per le feste l’unica levatrice del paese era andata in continente a trovare sua figlia, e donna Matilde, da sempre considerata nel quartiere come la consolatrice degli afflitti, la saggia risolutrice di tutti i mali, era stata chiamata per aiutare la donna a partorire.

    Don Totò Calascibetta, marito di donna Matilde, si avviò di gran corsa verso la piazza del paese per cercare don Peppino, il marito di donna Vincenzina, e avvisarlo dell’improvviso lieto evento.

    Non fu facile trovarlo, perché quel giorno, a dispetto della fredda stagione, un sole splendente illuminava la piazza.

    I suoi inconsueti raggi facevano brillare l’acqua fresca che sgorgava dall’imponente fontana posta al centro della grande piazza, quel grande teatro animato dai cittadini di quella che sembrava la capitale del paese dei balocchi.

    Proprio quel sole splendente, in quel giorno di grande festa, aveva portato in piazza la gente e tanti ragazzini, chiassosi e gioiosi, che giocavano e si rincorrevano facendosi strada tra gli uomini che a gruppi sostavano a parlare. Prendendosi anche qualche colpo di coppola dagli anziani che scherzosamente fingevano fastidio.

    Tutti ossequiosamente salutavano don Totò.

    «Assabenedica, don Totò».

    «Baciamo le mani don Totò…».

    Vedendolo distratto ai saluti, e con lo sguardo penetrante la folla, gli chiesero chi stava cercando.

    Don Peppino era al circolo dei cacciatori e così, dopo averlo raggiunto e avvisato di ciò che stava accadendo a casa sua, don Totò si congedò e raggiunse due dei suoi amici, compare Cola e compare Giorgio, con cui intavolò una lunga e appassionata disquisizione politica.

    C’erano contraddizioni nella società siciliana, che in pieno secondo dopoguerra faceva ora i conti con i cambiamenti sociali e politici che il conflitto mondiale aveva determinato, anche se in realtà in questo grande pezzo d’Italia la guerra era stata vissuta solo marginalmente.

    La guerra infatti, i cui veri fini certamente erano poco conosciuti dalla massa della popolazione siciliana, aveva rappresentato unicamente la concretizzazione di ideali e valori che, ad una ristretta élite di formazione classica, erano stati inculcati loro negli anni del liceo. Ma la piccola borghesia, i piccoli proprietari terrieri, videro il loro stato economico e sociale messo gravemente a repentaglio dal regime fascista, che trovava consenso da tutte le componenti sociali, ma che non teneva conto dei bisogni di ciascuna di esse.

    Era un regime che andava per la sua strada, o meglio, per quella del Duce, il quale faceva dello stesso la sua personale ed esclusiva politica.

    Era insomma stato stravolto un articolato e complesso sistema sociale che, sebbene con mille contraddizioni, aveva trovato un suo equilibrio.

    E in quel periodo si tiravano le somme di quella portentosa rivoluzione portata dalla II Guerra Mondiale.

    Dopo qualsiasi guerra il bilancio economico e soprattutto umano è sempre negativo, ma questa guerra, in Italia, e soprattutto in Sicilia, ove la popolazione faceva i conti con i sempre atavici problemi di emarginazione economica dal resto del Paese, di mafia, di brigantaggio, di eterogenea identificazione culturale, frutto di secolari pluridominazioni, non faceva intravedere alcun minimo risultato positivo.

    Solo fame, forti ristrettezze economiche e tanta distruzione la guerra aveva portato e lasciato.

    Ma torniamo ai fatti della piazza. Vito Colajanni era sceso in piazza per comprare una bottiglia di sciampagna da portare a casa della sua fidanzata Maria, assieme ai buccellati, tipici dolci natalizi della tradizione dolciaria siciliana, di artistica lavorazione, fatti di pastafrolla ripiena di fichi secchi macinati e mandorle tostate, che sua madre aveva preparato per l’occasione.

    Vito, tutto in ghingheri, camicia bianca, vestito scuro, scarpe tirate a lucido che ci si poteva specchiare, fazzolettino in pizzo al taschino della giacca e capelli impomatati di brillantina che neanche un uragano avrebbe scomposto, insomma agghindato come la festa richiedeva, avendo scorto don Totò tra la folla, si fece strada e con riverente altezzosità gli porse un rispettosissimo: «Assabenedica papà!».

    Papà, sì, perché da sei mesi ormai era fidanzato in casa con l’unica figlia di don Totò: Maria.

    Maria era per don Totò la luce dei suoi occhi e, a dispetto della mentalità dell’epoca che considerava il figlio maschio un privilegio, una sicura continuità alla stirpe, un amministratore fidato dei beni di famiglia, don Totò agiva controcorrente.

    E sì, perché anche se egli era scarso di scuola, anche se aveva appena la terza media, era un uomo con una spiccata sensibilità, con un elevato grado di intelligenza, ma soprattutto era un uomo saggio, giusto e consapevole della propria scelta di vita, operata sempre secondo le sue personali convinzioni e mettendo al centro della sua esistenza la famiglia.

    Per lui la famiglia non erano soltanto le sue due grandi donne, la moglie e la figlia, ma anche i suoi genitori e i suoceri.

    Era sì una famiglia vecchio stampo, come era consueto in quell’epoca, ma ciò che contraddistingueva don Totò era il fatto che, nonostante l’impianto patriarcale, egli poneva sicuramente in primo piano la sua famiglia: donna Matilde e Maria, le donne della sua vita, che adorava ma da cui era adorato.

    La sua sensibilità era tale che quando donna Matilde, a seguito del difficile parto che portò alla luce Maria, espresse la volontà di non avere altri figli, egli non accennò minimamente alla possibilità di riparlarne.

    Assicurò la moglie del fatto che non aveva alcun risentimento e che per lui l’unica cosa che contava era quella di poter sempre contare su di lei e con lei crescere la loro meravigliosa creatura.

    Maria dal canto suo non aveva mai tradito la dedizione che suo padre e sua madre le avevano da sempre dimostrato.

    Era una ragazza a modo, con uno stile di vita sobrio ed elegante al tempo stesso.

    Nonostante donna Matilde nella conduzione della casa fosse aiutata dalla lavandaia e da una cameriera per i lavori straordinari, Maria si accompagnava quotidianamente a sua madre nelle faccende giornaliere. Era molto attenta e precisa nei lavori domestici, soprattutto in cucina e in tutto ciò che richiedeva ordine, precisione ed anche fantasia.

    Appena dodicenne, cominciò a dedicarsi all’attività preferita dalle ragazze dell’epoca che si affacciavano all’alba dell’età adulta: il ricamo del corredo.

    Donna Matilde comprava per lei i tessuti, i lini più preziosi su cui creare meravigliosi ricami e, per avere la biancheriapiù esclusiva, faceva arrivare dalla città i disegni che poi guidavano l’abile mano di Maria.

    Anche gli abiti per Maria venivano confezionati da una sarta di città, una che veniva dal continente, perché figlia di una famiglia di sfollati che durante la I Guerra Mondiale si era rifugiata in quel piccolo paese dove certamente si poteva contare sull’appoggio e la solidarietà degli abitanti.

    La domenica era il giorno tanto atteso per sfoggiare gli abiti, i cappelli, le borse, le scarpe, le acconciature.

    Maria impreziosiva il suo ricercato abbigliamento con la sua figura altera e longilinea, il suo portamento elegante, fine e al tempo stesso altezzoso.

    La messa della domenica, per le ragazze in età da marito, era occasione, non solo per fare sfoggio di eleganza, ma soprattutto per farsi apprezzare dalla giovane generazione maschile.

    Oltre alla messa domenicale, alle varie novene, quindicine e processioni in onore di santi e madonne, non vi erano molte occasioni che giustificassero le uscite delle ragazze.

    Madonne sì, perché non vi era la concezione di una sola e unica Madonna, bensì l’idea che a seconda del nome che assumeva, Immacolata, delle Grazie, di Pompei, fosse per alcuni più miracolosa delle altre, tanto da dar luogo a festeggiamenti più o meno sfarzosi, organizzati da i "fattura da festa, che di fatto mettevano in atto aberranti contese campanilistiche tra i vari quartieri del paese, ognuno dei quali portava avanti la causa" della propria Madonna.

    Un’altra occasione di svago erano i festeggiamenti dei fidanzamenti ufficiali, dove gli "ziti" stavano seduti a dovuta e rigorosa distanza, e i matrimoni.

    Era usanza infatti che in occasione del primo incontro ufficiale dei parenti dei promessi sposi, (anche se poi di fatto si conoscevano da una vita), che di rigorosa norma avveniva a casa della "zita", si invitassero i parenti più prossimi, gli amici più intimi e i vicini di casa.

    "Rumpiri ‘u scaluni, questa era la metafora per indicare la formalizzazione della promessa di matrimonio che significava per la famiglia della promessa sposa un traguardo, il cui percorso per raggiungerlo iniziava già quando la figlia era in fasce. Significava sistemazione" economica, dato che le donne all’epoca non lavoravano. Significava dare un senso a tutto ciò che la famiglia aveva fatto per la donna in tanti anni: dote, corredo, educazione.

    Tutto assumeva un vero senso con il matrimonio.

    Per l’uomo significava invece sistemazione casalinga, avere una donna che lo potesse accudire, che potesse dargli una prole, che gli offrisse devozione.

    Ma il matrimonio, socialmente così inteso, non era solo tutto ciò.

    Esso assumeva il significato di un obiettivo da raggiungere, che poi durasse per la vita. Perciò nella consapevolezza della esclusiva convivenza sino alla morte con un uomo o con una donna, il matrimonio era volto a coronare un ideale sogno d’amore.

    CAPITOLO II

    Fu proprio in occasione di un festeggiamento nuziale che Vito Colajanni posò gli occhi sulla bella e altera figura di Maria.

    Come per magia, per una volontà suprema, gli occhi dei due giovani si incontrarono, facendo scoccare una scintilla d’amore senza precedenti.

    Maria fu subito catturata dal profondo sguardo di Vito, giovane aitante, di bella e distinta presenza, gli occhi verdi che creavano un accattivante contrasto con i suoi capelli nero corvino e i tratti tipicamente latini. Ma, facendo reminiscenza degli insegnamenti della madre, abbassò gli occhi e, per nascondere il rossore ardente che aveva invaso le sue gote, si girò dall’altra parte avvicinandosi alla madre della sposa.

    Quell’incrocio di sguardi aveva scaricato nell’aria un’energia tale che, nonostante la fulmineità, nonostante la discrezione, tutti se ne accorsero e subito cominciò tra gli ospiti presenti alla festa, un ballo di altri sguardi di commento e complicità.

    Dopo quella serata, numerose furono le notti insonni trascorse da Maria e da Vito, fin quando questi, tramite Lucia, sorella di un suo fidato amico, non manifestò il suo amore alla ragazza.

    E lo fece attraverso lo strumento più romantico del tempo e di tutti i tempi: una lettera.

    La scrisse la notte seguente il magico incontro, e la scrisse in pochi minuti, tutta d’un fiato, impregnando però le righe di tutto l’amore, l’ardore e la passione che il cuore gli dettava.

    Prima di mandarla a Maria trascorsero però tre lunghi giorni e tre lunghe notti, in cui Vito non faceva altro che leggere e rileggere il suo componimento d’amore, alla ricerca di un qualche errore che potesse comprometterne il buon esito.

    Finalmente la lettera giunse a Maria.

    Ella, intenta a cucire, sedeva dietro i vetri di un balconcino che dava sulla strada. Quando intravide Lucia il cuore le sussultò in petto: il suo sesto senso la indusse a sospettare, o forse sperare, che l’amica stesse per recarsi da lei e con sé portasse una lieta notizia.

    Quando Lucia bussò alla porta, Maria cancellò ogni suo dubbio e con certezza disse all’amica: «Hai qualcosa per me, vero?».

    Lucia inebetita sfilò una busta dalla tasca del paletot e balbettando disse: «s... sì!».

    Quando Maria aprì la lettera, che Lucia aveva piegato e ripiegato talmente tante volte da riuscire ad avvolgerla in un tulle di confetti, il suo viso dapprima si colorò di rosso carminio e poi d’un tratto sbiancò.

    Il suo pallore era così evidente che Lucia temette che ella potesse svenire da un momento all’altro.

    Ad un tratto arrivò donna Matilde e allora Lucia, quasi fosse stata fulmineamente illuminata, dopo averla riverentemente salutata, le disse che era andata lì per chiedere a Maria un campione dell’ultima trina che aveva realizzato con l’uncinetto.

    Donna Matilde si complimentò con Lucia, che da sempre aveva disdegnato i lavori di ricamo, per avere finalmente messo la testa a posto e avere deciso di dedicarsi anche lei alla preparazione della sua biancheria. Quindi si congedò dalle ragazze.

    Risollevate per non essere state scoperte dall’astuta donna Matilde, Maria e Lucia tirarono un evidentissimo sospiro di sollievo.

    Maria freneticamente dispiegò la lettera e con avidità la lesse tutto d’un fiato.

    Lucia, soltanto osservando lo sguardo, le espressioni facciali di Maria, riuscì a comprendere ciò che l’epistola conteneva.

    Ebbene, il grande miracolo era avvenuto: due cuori, un uomo e una donna scelti dal destino, si erano incontrati, dando vita a quel sublime sentimento che è l’amore.

    Da allora per circa tre mesi vi fu una prolifera produzione epistolare, ma con un forte contenuto poetico.

    Eh sì, perché quando l’amore, quello con la A maiuscola, nasce, tutto l’intimo di un uomo e di una donna innamorati cambia, sviscerando sentimenti, sensazioni, sensibilità di cui essi stessi non sanno di essere capaci.

    In questo continuo scambio di lettere e poesie d’amore, un giorno Maria ne ricevette una che avrebbe segnato per sempre la sua vita: Vito le chiese di sposarla.

    Maria ne fu molto contenta, ma al tempo stessa molto spaventata.

    Il timore era quello di comunicarlo a sua madre prima, e a suo padre poi.

    Non perché i suoi genitori fossero dei burberi, ma perché aveva paura di sfatare l’idea di essere ancora una bambina...la loro bambina!

    E la loro bambina poteva mai sposarsi?

    La loro bambina poteva mai lasciarli per un uomo?

    In effetti Maria, anche se aveva vent’anni, un’età all’epoca certamente da marito, era rimasta un po’ bambina, come quasi sempre di norma accade a una figlia unica.

    Era però molto innamorata di Vito e perciò un giorno, destatasi di buonora, chiusa nella sua camera si mise a pregare la Madonna perché l’assistesse nell’atto di coraggio che stava per compiere. Dopo avere sentito lo scalpiccio del cavallo, con il quale il padre si avviava in campagna, si recò in cucina.

    Donna Matilde trafficava già per preparare il fuoco che serviva per il ferro da stiro.

    Maria girava e rigirava davanti ai fornelli cercando invano di preparare un caffè.

    La madre, vedendola così agitata, disse: «Chè questa notte Vito Colajanni ti ha dato gioie o pene d’amore?».

    A quelle parole Maria sbiancò e, diventata rigida come un manico di scopa, fece cadere la caffettiera che tanto faticosamente era riuscita a montare.

    «Mamma!» esclamò.

    «Mamma, mamma, ti pare che donna Matilde è nata ieri? Cara Maria anch’io ho avuto la fortuna di innamorarmi prima e di sposare poi l’uomo che amo da una vita. E perciò da tempo ormai ho capito che qualcosa, l’amore, e qualcuno, Vito, sconvolgono la tua anima e i tuoi sensi. Ti chiederai come so che l’uomo che manda in tumulto il tuo cuore è Vito. L’amore è un sentimento così forte che fa perdere la razionalità dei gesti, che fa dimenticare il fatto e il non fatto e tu, in uno degli scorsi giorni, hai dimenticato di nascondere la lettera che più di tutte le altre hai letto: la prima. Io l’ho trovata e il mio cuore di mamma mi ha spinto a leggerla. Meno male figlia mia che il destino ci ha aiutato: a te per prima, che ti sei innamorata di un bravo ragazzo e sicuramente di buona famiglia, e a me che come madre, dal giorno in cui Dio ti ha donato a me, ho pregato ogni giorno, senza saltarne neanche uno, affinché tu potessi avere una vita e un futuro sani e felici».

    A quel punto ogni parola tra le due donne sarebbe stata di troppo e inopportuna e perciò Maria, gettando le braccia al collo della madre, si abbandonò ad un lungo, gioioso, liberatorio pianto.

    Subito dopo quell’abbraccio, breve, ma così intenso che sembrò eterno, Maria disse a sua madre: «E a ‘u papà, cu ci lu dici?».

    «Non ti preoccupare figlia mia» rispose la madre, «a iddu ci pinsu iu! Tu intanto, prima che io dia la notizia a lui, rifletti bene sulla tua scelta. Sei giovane, innamorata d’impeto. Vitu è u beddu picciottu e nuautri nenti avemmu a chi ddiri supra la so famiglia. Ma tu sì sicura di vuliri spartiri tutta la tò vita cu primu masculu chi ti fici l’occhi duci?».

    «Mamà» disse Maria, «Vitu non è u primu masculu chi mi fici l’occhi duci; puru u figghiu di don Saru Badalamenti mi ha mandato una proposta di matrimonio, e puru u figghiu du cavalieri Mandanisi. Ma Vitu, Vituzzu miu, è l’unicu omu chi mi pigghia lu cori!».

    «Eh sfacciata!» disse scherzando donna Matilde, «e allura si li così stannu accussi, così sia e u Signuri ti binidici. Ora tu, prima di tutto manifesti la tua volontà a Vito, non facciamo che sinni pentì? e gli dici anche che la tua scelta dipende comunque dalla benedizione di tuo padre, perché ricordati, TUO PADRE, che è un padre speciale, viene sempre prima di tutto e di tutti, e se, e quando tuo padre acconsentirà, Vito gli farà sapere, tramite persona di rispetto, se è disposto a ricevere lui e suo padre per discutere di una faccenda a loro tanto cara».

    Maria, che pendendo dalle labbra di sua madre aveva seguito attentamente le sue indicazioni, con gli occhi colmi e le gote rigate di lacrime, disse: «Grazie, grazie mammà, e grazie a Te Signore mio di avermi dato una madre così… così…accussì speciali!».

    Per fortuna don Totò quella sera non fece ritorno a casa, perché intrattenuto da un travagliato parto della sua giumenta preferita.

    Per fortuna per Maria, perché forse non avrebbe saputo mascherare le mille e più emozioni che il suo cuore sprigionava e che il suo viso manifestava.

    Due giorni e due notti insonni dovette trascorrere Maria prima di scrivere a Vito queste quattro parole: Va bene Vito, io ti voglio bene e per questo sono disposta a dividere la mia vita con te. E perciò, se anche tu lo vuoi, fammelo sapere prima a me e poi, quando io te lo dirò, chiederai la mia mano a mio padre. Come e quando te lo dirò io, eh? Mi raccomando, come e quando te lo dirò io! Non lo scordare!.

    CAPITOLO  III

    Ma che come e quando te lo dirò io?

    Neanche era giunta la lettera nelle mani di Vito, che già don Totò era rincasato dalla campagna come un "cani vastuniatu".

    La moglie, vedendolo in condizioni psicologiche devastanti, si preoccupò.

    In un lampo mille orrendi pensieri attraversarono la mente di donna Matilde.

    «Totò» gli disse angosciata, «Totò, che c’è? Che ti è successo? Ci fu focu a li casi? Qualchi vacca muriu?».

    «No, no!» rispose don Totò.

    «E allura, ancora cchiù gravi? Tuo padre…?» si preoccupò donna Matilde dato che assai precaria era la salute del suocero.

    «No!» rispose ancora don Totò, «Maria, Mariuzza mia!».

    «Oddio Maria! Che cosa è successo a Maria che io non so? Maria è supra e sinu a 5 minuti fa gironzolava dà la cucina e stava perfettamente bene».

    «No Matì, nun si tratta di la saluti di Maria».

    «E allura mi vuoi dire di che si tratta» disse spazientita la donna.

    «Vito Colajanni» disse con un filo di voce don Totò.

    «Oh, ancora sintìa!».

    «Chi significa "ancora sintìa"» rispose indignato don Totò che in un lampo si sentì l’unico cretino della famiglia ad ignorare ciò che gli altri già sapevano.

    «No, niente» balbettò la moglie, «è che sono sollevata dal fatto che non sia successo niente a Maria».

    «A Maria niente, anzi tanto meglio per lei. Ma a me sì, perché lo sai oggi cosa è successo?».

    «No» rispose la donna con voce incerta, «cosa è successo?».

    «È successo che Vito Colajanni, accompagnato dal padre, è venuto a trovarmi in campagna».

    «E allora?».

    «E allora… E allora…» disse stizzito, «mi hanno chiesto se potevano avere l’onore di avere Maria quale membro della loro famiglia. Insomma sono venuti p’i matrimoniu».

    «E tu?» rincalzò la moglie preoccupata per l’irrazionale reazione di gelosia che il marito avrebbe potuto avere, «chi facisti?».

    «Chi fici? Mi turcivu li vudedda di collira pinsannu cà Mariuzza mia è già granni e mantenendomi tranquillo gli dissi che la loro proposta mi onorava ma che mi riservavo di dargli risposta solo dopo averne parlato con mia moglie e con mia figlia».

    «Bravo, bravo Totò» disse la moglie dandogli un fragoroso bacio. «‘A vita è chista: un jornu ha i figli nutrichi e un jornu…un jornu capisci cà sinni stannu jennu».

    CAPITOLO IV

    Finalmente arrivò il gran momento.

    La sera del 2 giugno la casa di don Totò era pronta ad accogliere Vito e i suoi parenti per il fidanzamento ufficiale.

    C’erano dolci e rosoli in ogni angolo di casa e un grande vaso di cristallo pronto per metterci il mazzo, l’enorme bouquet di fiori di ogni specie e colori che il fidanzato avrebbe donato alla ragazza per l’occasione.

    Il mazzo, per grandezza e preziosità, assieme all’anello, rappresentava la sfarzosità della festa.

    Alle 19:30 parenti ed amici intimi erano già in casa di Maria, e mentre si aspettavano le 20, ora in cui era fissato l’appuntamento, tutti cercavano di mascherare l’impazienza e l’entusiasmo.

    Maria, nel bellissimo vestito verde smeraldo, che ancora di più risaltava il contrasto tra i suoi occhioni verdi e i suoi capelli neri raccolti in uno chignon, faceva andirivieni dal bagno, dove ogni volta che entrava lavava le sue belle mani dalle dita affusolate, si passava la crema e si dava una spruzzata di profumo.

    Ad un tratto bussarono alla porta.

    Tutti guardarono il sontuoso orologio a pendolo che dominava la stanza: erano le 19:55.

    Un silenzio tombale scese nelle due camere del salotto.

    Maria, carminio in viso, istintivamente si avviò alla porta.

    Ma don Totò, risoluto, l’afferrò per un braccio e le disse: «Unni vai tu? Statti ferma e darrei a mia. Tò matri grapi a porta!».

    Donna Matilde in un elegante vestito nero, bordato da seta bianca a pois neri e impreziosito da una semplice collana di perle bianche, con apparente sicurezza, ma con profonda commozione, si recò alla porta.

    Dietro di lei don Totò, in abito scuro, con la mano destra al gilet, dal cui taschino scendeva la catena in oro rosso a cui era attaccata la sua inseparabile cipolla.

    Quell’uscio che si aprì fu come una liberazione per tutti.

    Fatti i convenevoli tra le due consuocere, finalmente la famiglia Colajanni, oltrepassata la prima saletta, fece ingresso nel salotto di casa Calascibetta.

    E grande fu la sorpresa per tutti nel vedere la famiglia a mani vuote.

    Tutti si misero a bisbigliare: «Ma comu» dicevano, «mancu un mazziceddu di sciuri? Menumali ca si sentinu tutti cacuocciula!».

    Ma ancora più grande fu la sorpresa quando qualche minuto dopo entrarono due baldi giovani che portavano i doni della famiglia Colajanni.

    L’omaggio floreale di Vito non era un bouquet variopinto, bensì una enorme, sobria ed elegantissima composizione di rose rosse e orchidee verdi che egli stesso aveva fatto preparare al più bravo fiorista appassionato di arte ikebana di tutta la provincia.

    Per donna Matilde invece Anthurium rossi e piccole orchidee bianche ornavano una enorme scatola di finissimi cioccolatini.

    E per don Totò?

    Per don Totò una preziosa scatola di legno, intarsiata rigorosamente a mano, foderata di raso a capitonnè, in cui era custodito un astuccio e un biglietto.

    Il biglietto diceva: Vogliate accettare questo anello per la vostra preziosissima figlia, in segno dell’immenso amore che io provo per lei.

    «Oh, chi si’ romantico, Vito. Certo che l’accetto, se no che ci stiamo a fare stasera n’casa mia?».

    E dunque, dopo avere letto il biglietto a voce alta, esplose un fragoroso applauso di gioia.

    E allora permettete don Totò che io metta questo anello al dito di Maria disse Vito.

    Aperto l’astuccio, la bianca, sfolgorante luce di quel meraviglioso solitario, si propagò per tutta la stanza.

    Veramente non si capiva se brillava più il diamante o gli occhi di Maria e Vito che si incontrarono.

    Certamente non brillava più del lampo di invidia che accecò gli occhi di qualcuno dei presenti…

    La serata trascorse tranquilla.

    La madre di Vito passò tutta la sera a guardarsi intorno e ad ammirare con discrezione la bella casa di donna Matilde che in ogni angolo mostrava la particolare attenzione che la stessa aveva nella cura dei dettagli e dei particolari.

    Ogni cosa sembrava messa lì per caso, ma così non era: tutto era meticolosamente pensato, e studiata era la collocazione di mobili, tappeti e preziose porcellane.

    Suo figlio Vito era stato fortunato: non solo aveva scelto una bella figlia, ma aveva anche trovato una buona famiglia.

    Dal canto suo don Totò, dopo essersi intrattenuto con il padre di Vito parlando del più e del meno, della resa dei raccolti che ciascuno di loro pensava o sperava di ottenere, dell’andazzo generale delle loro piccole ma floride aziende agricole, approfittò del repentino passaggio di Vito che, quasi intimidito, sembrava sfuggire allo sguardo del suocero, e lo afferrò per un braccio.

    «Vito, veni cà! Picchì nun mi talii da la facci? Un ti scantari, cà lupu non sono! Tu sei ormai membro della mia famiglia e perciò ti rispetto e pretendo rispetto, sempre e comunque.

    Invece ti dico, e ti lu dicu dinanzi a to patri che è ca presente: stai attento a quello che fai, perché Maria è, pi mia e pi me mugghieri, tutta la nostra vita. E si tu ti permetti di mancarici di rispettu, e si avissi a vidiri na sula lacrimedda da l’occhi di me figghia, io giuro che unni c’ià a testa ti ci mettu li pedi!».

    «Bravo don Totò!» disse il padre di Vito. «Sono pienamente d’accordo con ciò che avete detto, e se Vito sbaglia, ma sono sicuro che non lo farai» disse rivolgendosi al figlio, «dovesse avere anche 50 anni sarò io il primo a rompergli le corna. Don Totò avete proprio una bella famiglia, ed io sono onorato di entrare a farne parte, soprattutto perché questi due piccioncini sono proprio innamorati. Non vedo l’ora che giungano alle nozze, così almeno Vito mette la testa a posto. Perché sapete don Totò, mentre siamo in campagna, spesso è come se fosse assente, il suo corpo è lì e la sua mente? La sua mente segue il suo sguardo perennemente fisso verso il paese. Sembra quasi che stia pregando la Madonna! Sì, la sua madonna, vostra figlia Maria».

    «E allora» disse don Totò, «mettiamo fine al più presto a questa pena d’amore. Un anno di fidanzamento e alla prossima primavera facciamo sbocciare questi fiori d’arancio».

    Vito ovviamente a sentire ciò non poté fare altro che correre da Maria e, neanche il tempo di finire la frase: A primavera sarai mia moglie, che i due consuoceri fecero ingresso nel salotto grande.

    Prese la parola don Totò, padrone di casa: «Signori un po’di attenzione: a primavera siete tutti invitati al matrimonio di mia figlia Maria con il qui presente mio genero Vito".

    A quel punto, tra sguardi di sorpresa per l’immediata decisione, vi fu uno scrosciante applauso. Viva gli ziti, viva gli ziti, viva gli sposi!

    CAPITOLO V

    Da quel momento in quella casa non si viveva che per quel matrimonio. Fervevano i sogni di Maria e i preparativi per il matrimonio.

    Donna Matilde si affrettò a completare e definire i capi del corredo.

    Maria cominciò a fantasticare per l’abito da sposa.

    Don Totò invece cercava di portare a compimento quanti più affari possibili per dare alla sua cara figliola una buona dote.

    Neanche era passato un mese dal giorno del fidanzamento che era già in trattative per acquistare la vecchia e nobile casa dei Mancuso.

    La casa era totalmente da ristrutturare, ma prospiceva sulla piazza del paese e poi, dietro quel grande e imponente portone di legno intarsiato, sovrastato da una mezza luna in ferro battuto riccamente lavorata e al centro del quale erano poste le due grandi iniziali in ottone del capo stipite, vi era una piccola villa.

    Infatti, attorno ad un piccolo giardino dove erano disseminati qua e là alberi da frutto, e al centro del quale vi era un grande pozzo, si ergeva un maestoso porticato.

    Al piano terra erano posti i vecchi locali adibiti a stalle, magazzini, cantine, nonché due piccoli alloggiamenti destinati alla servitù.

    Di fronte al portone d’ingresso, proprio al centro del porticato, vi era una grande porta i cui resti facevano capire che era stata sfarzosamente decorata in stile liberty.

    Dietro quel sontuoso portone si intravedeva una grande scala in marmo rosso di Carrara che, un tempo, aveva immesso nelle sale di rappresentanza la nobiltà prima e la borghesia poi, di tutto il circondario.

    Adesso erano evidenti i segni della decadenza, ma il sapiente ingegno di don Totò, la classe di donna Matilde e l’entusiasmo dei due promessi sposi, avrebbero certamente ridato decoro a quella dimora.

    La romantica Maria più che alla casa pensava al piccolo giardino dove, attorno al pozzo adorno di profumati rampicanti, avrebbe giocato con i suoi futuri pargoletti.

    Certo don Totò ne avrebbe dovuti fare di sacrifici, dato che era sì benestante, ma non ricco.

    Non per mania di grandezza voleva quella casa, ma per quell’immenso, devoto amore che provava per sua figlia e per la discendenza che ne doveva venire.

    Infatti quando don Totò vide la villa non pensò solo a Maria

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