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Per Amore Di Anna
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E-book345 pagine5 ore

Per Amore Di Anna

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Info su questo ebook

L'incontro-scontro al Loti's cafè tra Guido van Thool, studente universitario, e Anna Zweig, meravigliosa ballerina, inserisce i due in una sorta di romanzo turbinoso arricchito da balletti teatrali, marce anti-globalizzazione e appuntamenti amorosi incorniciati da campanule.
Persino quando Guido è chiamato al servizio militare, il tempo non riesce a compromettere la loro fedeltà reciproca, costantemente alimentata da scambi di lettere d'amore.
Parallelamente alle loro vite corre quella del giudice Jeremiah Delahyde, uno sperperatore ricco di potere,  conferitogli dal suo fedele amico, nonché primo ministro, Bartholomew Smythe.
Le loro vite parallele s'incontrano quando, l'ultimo dell'anno, il giudice, totalmente ubriaco, investe Anna con la sua auto, con conseguenze fatali. Guido promette vendetta.
Cosa, tuttavia, potrà realmente Guido contro un giudice dell'Alta Corte, corrotto, potente ed assunto tramite vie politiche?
LinguaItaliano
Data di uscita12 gen 2015
ISBN9781633395695
Per Amore Di Anna

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    Anteprima del libro

    Per Amore Di Anna - James Lawless

    Quarantanove

    Le opere in prosa e poesia di James Lawless hanno vinto molti premi, tra cui il Scintilla Welsh Open Poetry competition, un WOW award, un premio Biscuit International Short Story, il Cecil Day Lewis Award e una candidatura nella sezione narrativa per il premio Hennessey, il Willesden Prize e il Bridport Prize 2014. È autore di una raccolta di poesie molto apprezzata, Rus in Urbe, e di romanzi acclamati dalla critica, Sbucciando arance, Il Viale, Alla Ricerca di Penelope, e La Scoperta delle Donne, oltre all’autorevole saggio sulla poesia moderna Il Sentiero Nel Bosco Intricato. Nato a Dublino, si divide tra la Contea di Kildare e il West Cork. Per saperne di più sull’autore, potete visitare il suo sito web: http://jameslawless.net/

    'Poi arrivò Fraud, lui lo indossava.

    Così come Eldon, era un mantello di ermellino...'

    da The Mask of Anarchy di P.B. Shelley.

    A Catherine

    Prefazione dell'autore

    Per Amore di Anna è il mio secondo romanzo, pubblicato in lingua originale per la prima volta nel 2009. La sua stimata rilevanza e la continua richiesta hanno indotto l'uscita di questa nuova edizione. Vi sono tre elementi principali che scorrono al suo interno. Una prima chiave di lettura potrebbe essere quella di una toccante storia d'amore - Anna è una ballerina di cui il protagonista, l'universitario Guido van Thool, s'innamora. Tuttavia, Anna è anche l'acronimo di Anarchists of the New Age (anarchici della nuova epoca). Questo particolare ci conduce nella seconda dimensione del romanzo, facendolo divenire una storia a base d'ideologia; una storia che ci propone le idee che circolano nella testa dello studente di filosofia, Guido, nel bel mezzo di un comunismo decaduto e di opposizioni politiche sciolte, in contrasto con il monolite divoratore del capitalismo. Anna vuole far allontanare Guido da questa ideologia pericolosa, ma il suo amico, l'anarchico Philippe, continua a provocarlo. Parallelamente alle vite dei due amanti, corre quella di un giudice corrotto, Jeremiah Delahyde (ecco la terza dimensione), che, nella notte di Capodanno, impatta letteralmente contro il mondo di Guido ed Anna.

    Prologo

    Potence, la città di cristallo, il centro dell'impero nella sua gloriosa costituzione, si auto-dichiara la Mecca dei rifugiati impoveriti e dei migranti, nonché degli oppressi di piccoli paesi. La cancellazione della memoria, delle vecchie patrie, dello Shangri-La dei cacciatori di capitale. Dalle montagne di macerie spuntano luci arancioni per i nuovi edifici in costruzione. La tettonica architettura vitrea diffonde prismi lucenti, organizzati in stupefacenti angoli trigonometrici e romboedri o tetraedri riempiono la città. Un'architettura per i neo-cacciatori, diversamente da quella più vecchia, costruita per la maestosa decadenza. Piani e piani in vetro, come una musica gelata, si spingono verso il cielo ad altezze differenti, riflettendo note altrettanto dissimili, così come i livelli di ricchezze che squarciano le nuvole, inglobando tungsteno e fluorescenza nel buio della notte, rendendo il tempo un giorno eterno. Imponenti muri vitrei s'incurvano verso il fiume, assumendo quell'aspetto verdastro dinnanzi ai luminosi pilastri del tribunale, sede della giustizia; lo scintillio riflesso del fiume che schiarisce volti, gambe e gonne di donne, in attesa sul molo. Camminando, poi, di sera lungo il fiume, a volte, è possibile sentire lo sciabordio dell'acqua; non si tratta di onde che impattano sul muro del pontile, bensì del suono primaverile dei remi delle barche provenienti dal mare che risalgono il fiume. Avanzano a motori spenti per evitare i radar della polizia, la luce del faro che rischiara tutte le macerie di Potence. A volte, tra la nebbia del fiume, si può scorgere una pallida lanterna bianca vicino al molo ed ascoltare il rumore dei passi affrettati o le voci soffocate. Si capisce, allora, che un altro gruppo di clandestini è sbarcato.

    Altre città hanno tentato di imitare tale architettura vitrea, non avendo, tuttavia, il segreto della trasparenza, bensì edifici dall'aspetto scuro e torbido, nonostante la loro grandezza. Potence, infatti, possedeva quel segreto tramandato da generazioni di suoi cittadini. Essi conoscevano la semplicità dell'utilizzo di manganese, sapevano che l'abilità principale era insita nell'arte dei loro soffiatori di vetro, di risaputa magistralità a livello mondiale. Non era solamente una questione di bravura nel soffiare il vetro, ma di conoscenza dell'esatto momento in cui ciò dovesse avvenire, in cui il materiale raggiungesse l'apice della modellabilità. Era a quel punto che la capacità si legava all'opportuno rinvenimento e alla giusta vetrificazione. Abilità che destava invidia persino alle città più originali. Ecco perché può esistere solamente una Potence, dicono i suoi cittadini, in grado di produrre il vetro più puro.

    Quando i Patrician hanno vinto le ultime elezioni, i ministri hanno sfilato nella strada principale all'interno di vetture dai vetri antiproiettile.

    Nel mezzanino dell'Imperial Bank il fiume scorreva lungo muri di vetro limpidi dai quali si riuscivano a scorgere i pesci.

    Anni prima, ci furono vandali (qualcuno nostalgicamente ed eufemisticamente li chiama anarchici) che infransero i vetri: quei vetri perforarono i pneumatici di alcuni dei quattrocentomila mezzi tra auto, camion e autocarri che si recavano quotidianamente in città, ma subito dopo smisero di spaccare tutto. Subentrò una sorta di apatia. Quei colpi  dovevano essere cercati altrove, tra droghe e festini, e alcuni di loro si unirono persino ad ANNA (Anarchists of the New Age, ovvero Anarchici della nuova epoca). Oggi, rompere vetri è considerato una ragazzata, un'azione da adolescenti infantili. Gran parte degli palazzi pubblici, tutti quegli uffici vetrati della città burocratica, sono rimasti illesi. Nelle centinaia di edifici finanziari e bancari la gente lavora senza impedimenti come piante rare, salvaguardate in ampie case botaniche.

    Capitolo uno

    Guido van Thool, capelli biondi, sguardo basso e occhialetti tondi. Tutto assorto a perlustrare il suo libro, fa per varcare l'entrata del Loti's cafè, nel quartiere vecchio di Potence, quando si scontra con una ragazza, facendole volare dalla mani le scarpette di danza. Si scusa, raccoglie le scarpette, ma gli cade il suo libro. Prende anche quello e si rialza lentamente, incantato da quelle lunghe gambe interrotte da un cappotto di lana bianco.

    La giovane, occhi da cerbiatto, sorride e la mente di Guido si offusca all'idea di essersi appena scontrato con la ragazza più bella che abbia mai visto. Lei, però, se ne sta andando. 

    «Mi...mi dispiace, davvero» sembra abbia detto.

    Un altro sorriso che mostra i denti più belli e bianchi in assoluto. Sta uscendo, si gira di spalle tenendo ben strette le scarpette tra le braccia.

    «Scusami«» le dice lui.

    La ragazza, leggermente tremolante in quell'inverno rigido, si volta e aspetta che Guido continui a parlare. Lui sta cercando freneticamente di trovare le parole, quelle giuste.

    «Il...il minimo che io possa fare è offrirti un caffè».

    «Non bevo caffè».

    Che risposta rapida e schietta. Guido si mortifica.

    Sono già stata qui» continua la ragazza. «Sono dovuta scappare perché era troppo affollato».

    «Io conosco Loti» risponde Guido. «Ci troverà un tavolo di sicuro».

    «Beh..» ci ripensa, tirando indietro i lunghi capelli ramati. «Magari un succo al mirtillo rosso».

    Sorride, mentre i campanelli suonano quando Guido apre la porta. Dentro, l'aria è inebriante: aroma di chicchi di caffè caldi e di cibi cotti in forno. È un'unica sala grande con semplici tavolini di legno, coperti da tovaglie in bianco e rosso vivo; c'è un piccolo televisore su un ripiano alto che proietta il notiziario, ma l'audio è sovrastato dal chiasso, dai piatti e dalle voci che cercano di dominarsi l'una sull'altra.

    «Ehi, Guido» urla una donna alta, dai capelli di un biondo grigiastro e dal seno prosperoso, tra i vapori dei piatti mentre i due si apprestano ad entrare. La donna poggia i piatti ricolmi di verdura, patate e cosce di pollo sul tavolo di due studenti affamati e gli sorride benevolmente prima di rivolgersi a Guido.

    «Philippe non verrà?» chiede, strofinandosi le mani sul grembiule beige.

    «Non lo so. Non è venuto a lezione».

    «Siediti qui» gli dice la donna pulendo il tavolo che si è appena liberato vicino alla finestra.

    «Scusami» le fa Guido «lei è..».

    «Anna».

    «Oh, quella parola in carne e ossa» dice Loti, ammiccando e mostrando quei piedi da gallina.

    «È una tipa strana» commenta Anna, mentre Loti se ne va con il loro ordine.

    Guido nota che la sua attenzione è rivolta ai muri addobbati con fotografie di vecchi rivoluzionari.

    «Gli eroi di Loti» dice lui.

    «Quindi, tu sei Guido».

    «Guido van Thool».

    Ora, per la prima volta, si concentra completamente su di lui, mentre Guido poggia il  libro sul bordo del tavolo e si leva gli occhiali, stringendoli nervosamente - Anna lo nota - e braccia conserte; cerca di capire dove mettere le mani ed osserva un leggero tremolio nervoso dell'occhio, il piccolo segno che ha sul setto nasale e gli zigomi alti su quel bel viso.

    «Anna Zweig».

    Guido riesce a sentire il calore della sua mano attraverso i guanti, che si sfila dopo avergli stretto la mano.

    «Il libro» fa lei guardando in basso e rompendo l'imbarazzo del momento di silenzio.

    «Io studio spesso qui».

    «Con tutta questa confusione?».

    «Mi piace la confusione».

    «Che libro è?».

    «Nietzsche».

    «Studi filosofia?».

    «Sì».

    «Io mi sono persa tutte queste cose da studenti» dice. «Deve piacerti molto studiare! Tutte quelle manifestazioni e cose simili devono divertirti. Parlami di questo Nietzsche. Cos'ha da dire sul mondo? Vediamo».

    Anna prende il libro, un tascabile nero con l'immagine di un uomo dall'espressione seria, dallo sguardo profondo e fisso e dagli abbondanti baffi folti che gli nascondono la bocca. «Gli angoli delle pagine...» dice sfogliando velocemente il libro «sono...tu...?».

    «Temo di sì».

    «Mangi le pagine?».

    «Non le mangio, le mastico».

    La ragazza si mette a ridere. «Perché mai...?».

    «Non so perché» risponde in maniera sbrigativa. «Mi avevi chiesto cosa pensasse Nietzsche del mondo».

    «Sì, esatto» fa lei, ancora sorridente.

    «Beh, conoscerai già le cose più note...» attende un momento, ma non riceve risposta. «Ad esempio che Dio è morto, che esiste solo questo mondo e non altri chissà dove. Ecco perché...».

    «Sì?» dice Anna.

    Gli occhialini che ha tenuto in mano finora - un aiuto per gesticolare, pensa lei - li piega e li ripone nella tasca interna del suo parka blu.

    «...ecco perché dovremmo cercare di migliorare questo mondo se è l'unico che abbiamo».

    Lei lo guarda con aria interrogativa. «Dici sul serio, Guido van Thool?».

    Loti arriva con le bevande ed un piatto con due brioche ripiene di panna. «Offerti dalla casa» dice «per la nostra nuova recluta».

    «Cosa intende per recluta?» sussurra Anna, mentre Loti va a prendere l'ordinazione ad un altro tavolo.

    «Non farci caso, Loti è così» le risponde Guido. «Cerca...come te lo spiego? Cerca di convertire ogni nuovo arrivato del cafè».

    «Convertire?».

    «Scusami» le fa lui, incapace di distogliere lo sguardo da quella meravigliosa creatura vivente, avvolta nel cappotto bianco. «Vedi, ora sei nel suo nascondiglio. Vuole riuscire a convertirti in una rivoluzionaria».

    Anna sorride, avvicinando la brioche alla bocca. «Il suo metodo è la brioche con la panna».

    Guido ride. «Se ne intende».

    «E tu? Anche tu provi a convertirti?».

    «No, ma ho capito il problema».

    «Il problema?».

    «Sì» risponde Guido. «È essenzialmente un problema di linguaggio».

    «Oh, veramente?».

    «Sì. L'uomo attribuisce significati al mondo, utili alla propria sopravvivenza».

    «Questo cosa vorrebbe dire?» gli dice lei mentre lecca la panna che ha sul dito.

    «Significa che siamo agenti liberi. Il mondo non è una certezza universale. Attribuiamo i nostri pensieri al mondo, ma non attraverso richieste oneste, bensì con scopi di guadagno ed pensiamo che le nostre interpretazioni siano universali e...».

    «Aspetta» interrompe Anna.

    «Scusami, quello che voglio dire...».

    «Quello che vuoi dire e che noi tutti cerchiamo di convincere gli altri che le nostre falsità siano verità».

    «Esattamente» risponde Guido con ammirazione. «È proprio così».

    «E perché non l'hai detto subito?» gli dice Anna prendendolo in giro..

    La mano di lei si sposta verso quella di Guido. Sarà un caso?

    Dita affusolate come quelle di un suonatore di pianoforte. Le unghie, perfetti spicchi di luna. Niente smalto, affatto vistose come quelle di alcune ragazze, pensa. Sposta il suo piatto vuoto al centro del tavolo, una scusa per avvicinare le mani a quelle di Anna. Un timido contatto della punta delle dita, la parte sensibile della mano; il tocco di una farfalla. Anna abbassa lo sguardo, sorride, non sposta la mano. Cosa può dirle Guido? Vuole chiederle dove vive, da quale pianeta paradisiaco provenga. Invece dice: «Il nostro insegnante sostiene che queste forze siano costantemente presenti, queste pressioni della società, dei capi».

    «I capi?».

    «Coloro che ci controllano. Non percepisci mai queste pressioni?».

    «Non ci ho mai pensato» fa lei.

    «Mi riferisco a chi ci costringe la gente a spaccare il mondo, a scomporlo per scopi capitalistici...».

    «Non sei un comunista?».

    «No, no...è solo che...questo spiega perché il mondo ha perso il proprio equilibrio. È tutto sottosopra».

    Anna lo guarda dritto negli occhi. «Quindi questo è ciò che pensi, che il mondo sia sottosopra?».

    «Basta che guardi il telegiornale tutte le sere» le dice Guido, rivolgendo lo sguardo verso la televisione. «Cosa vedi? Una serie di...» si ferma. Perché sta parlando ad Anna in questo modo? Le sue parole devono servire a colpirla, non a conferirle quel brutto aspetto (riservato principalmente a lui); non a smorzare quel suo sorriso come se un nuvolone nero la stesse schiacciando.

    Quella puntina di panna che le è rimasta sul mento, vorrebbe leccargliela; una scusa (un'opportunità?) per avvicinare le labbra alle sue. Deve farglielo notare? Potrebbe imbarazzarla, trattandosi a maggior ragione di una persona conosciuta da poco. Questi pensieri, tuttavia, svaniscono nel momento in cui Anna, spontaneamente, si passa la lingua sul mento per pulirsi (come quella di una lucertola, pensa Guido).

    «Una serie di?».

    «Disastri».

    «Sei un tipo molto serio, Guido van Thool» dice Anna tamponandosi le labbra con un tovagliolo bianco e rosso come la tovaglia.

    «Nietzsche dice che le burle sono gli epitaffi sulle tombe dei sentimenti». Perché ha detto questa cosa? Se lo chiede lui stesso. Semplicemente, gli è venuta fuori dalla testa così come la lingua fuori dalla bocca. A dirla tutta, non proprio. La reazione di lei è spontanea, la sua condizionata. Un pedante esibizionismo.

    «Lo dice veramente?».

    «Sì» risponde Guido, ormai troppo in ritardo per rimangiarsi tutto.

    «Allora bisogna che tu smetta di leggere Nietzsche».

    Guido le sorride: «Scusa, ti sto annoiando».

    «No, va tutto bene. Tutti noi siamo ciò che siamo, no? Io sono completamente d'accordo con te».

    «Veramente?».

    «Sì, è per questo che danzo» getta la testa all'indietro scuotendo i capelli. «Danzo via tutti questi pensieri della testa».

    «Sei una ballerina?».

    «Al Balletto Nazionale».

    «Fantastico!» commenta Guido.

    «È un lavoro che richiede fatica e sangue».

    Anna ride e finisce di bere il succo; stende le dita delicate ad ogni sorso, Guido ci fa caso.

    «Non ho mai avuto tempo per cose di questo genere».

    «Di quale genere?».

    «Speculazione. Per me si tratta solo di semplice dedizione nei confronti di qualcosa".

    Anna si ferma, si guarda intorno. Le finestre sono appannate, non si riesce a vedere fuori e c'è un flusso continuo di gente che entra ed esce. Loti sta in un angolo lontano, presa in una discussione con alcuni studenti.

    «È ora di pranzo» dice Guido. «Ecco perché è così pieno».

    Anna fa per toccarsi i piedi. «Ti dispiace se mi levo le scarpe?».

    «Togliti quello che vuoi» le risponde. «Scusa, non volevo dire...». Cosa sta dicendo? Non sa parlare con le donne, non ne è capace.

    Lei sorride senza sentirsi offesa di nulla. «Certe volte mi fanno male le dita dei piedi» si lamenta.

    «Quanto tempo passi a lavorare con le dita?» (di nuovo ambiguità. Perché non fa una domanda semplice e diretta?). «Voglio dire, ogni volta per quanto tempo le curi?».

    «Oh, per ore» dice Anna «durante le prove. Sono piene di vesciche e mi fanno male. Ci metto l'aceto di mele».

    «Veramente?».

    «Il mio dentista dice che mi farà marcire i denti, ma sfiammerà perfettamente i piedi».

    «Suona come un gesto eroico».

    «Il fatto è...» brontola mentre si leva la scarpa «che se qualcosa dovesse andare storto, sai, ho messo tutti i miei gusci nello stesso paniere».

    Guido sorride. «Vuoi dire tutte le uova».

    «No, voglio dire i gusci» afferma alquanto irritata. È seccata. «Guarda cosa mi hai fatto!».

    «Cosa ti ho fatto?» le chiede.

    «Mi hai reso seria come te. Dovrò far riaccendere questi occhi» dice Anna sorridendo nuovamente e scrutando il viso di Guido. «Blu cobalto».

    «Cosa?».

    «Il colore dei tuoi occhi». Dà un'occhiata all'orologio. «Devo andare».

    «Così presto?».

    «Temo di sì. Grazie per il succo e il dolce, che non avrei dovuto mangiare, tra l'altro. Se mi verrà un rigurgito sul palcoscenico ti maledirò».

    «Scusa, io...».

    S'infila la scarpa e prende le scarpette di danza. «Non essere così triste, Guido van Thool. Non avverrà mai tutto quest'offuscamento che hai previsto». Si alza dalla sedia. «Tieni!»  dice a Guido offrendogli un biglietto. «Vieni a vedere lo spettacolo».

    Capitolo due

    Il giudice Jeremiah Delahyde è affacciato alla bay-window nello studio della sua casa a Harmony Hill, il ricco quartiere alberato di Potence. Tiene in mano un bicchiere di brandy e fuma una pipa dal fornello d'argento e dallo stelo, lungo e sottile, bianco e marrone. Il fumo sale dalle piccole fessure del fornello, mentre il giudice, doppiopetto grigio, maglia bianca e cravatta di seta color vinaccia, guarda fuori nel suo ampio giardino sul retro. Attraverso l'arco che si apre nel cespuglio d'alloro, egli osserva la nipote Esmé, armata di grembiule e calosce, prendersi cura delle piantine. Sta legando i suoi fagiolini a delle canne di bambù; li ha orgogliosamente cresciuti sin dalla seminazione. La  piccola Esmé, la coltivatrice, osserva amorevolmente i suoi fagiolini e gli parla. L'uomo non può sentire la sua vocina, ma può leggere il rapido labiale di rimprovero e di persuasione che incita i fagiolini a schiudersi e ad affacciarsi al mondo, il tutto accompagnato dalla gentilezza di una bambina, una piccola innocente. Il giudice si chiede quando capirà qual è il suo posto nel mondo. A quale età si renderà conto della disgrazia che il suo sesso implica. Sente la voce di Irina proveniente dalla cucina che dice ad Esmé di rientrare.

    «Ehi, nonna...solo un altro po', per favore nonna». Irina, però, è decisa. «Si sta facendo notte, Esmé, e sta iniziando a fare freddo». Decisione e dolcezza è sempre stato il suo metodo con la nipote; persino più protettiva di quanto lo sarebbe stata la madre della piccola. Seppur svogliatamente, Esmé ubbidisce e rientra in casa.

    Il giudice poggia la pipa su un posacenere di vetro, sistemato sulla sua scrivania mogano rivestita in pelle, prende una fiala dal taschino sul petto e mette una tintura nella narice destra del suo naso aquilino. Il naso aquilino: un'anomalia, una frattura in seguito ad una partita di rugby, di cui un tempo andava fiero e che oggi lo fa soffrire di sinusite. Ripone la fiala nel taschino e prende la pipa, tirandola parecchio per farla accendere. Allenta il nodo della cravatta e versa un altro generoso bicchiere di brandy da una bottiglia di cristallo (il più pregiato di Potence), poggiandosi sulla mensolina specchiata del suo tavolino da drink che infonde prismi di luce, riflessi dalle fiamme. Sorseggia con soddisfazione mentre si gode sulla schiena il calore del fuoco, in quel camino di marmo, che fuoriesce e scoppietta dai tronchi spaccati recentemente e getta lunghe ombre sul muro del salotto. Il giardino, invece, appare malinconico. La rugiada si è posata sul suo prato curato (nonostante la dedizione di Esmé, egli assume un giardiniere per il lavoro più impegnativo) e lunghi alberi dalle foglie larghe nascondono alti muri di confine, lasciandoli fuori dagli sguardi dei vicini e dal rumore del traffico. Un paradiso, ciò che una casa dev'essere per gente di una reputazione tale.

    Esmé Delahyde vive con i nonni dalla drammatica morte dei suoi genitori, quando lei era ancora piccola. Una tragedia che non deve mai essere nominata entro le mura di casa Delahyde.

    Durante il primo anno di matrimonio, Jeremiah e Irina Delahyde ebbero un figlio, Benito (tale era il nome di Mussolini, tanto ammirato da Jeremiah). Quando Benito crebbe non mostrò nessuna caratteristica rilevante legata a quel nome, contrariamente alle aspettative del padre; per questo, venne punito ed isolato. Fu vicino alla madre, ribellandosi ai maltrattamenti che la donna subiva da parte del marito. Dopo tali eventi, l'unica scelta possibile per Benito fu quella di lasciare casa. Lo fece durante una notte burrascosa, proprio alla soglia della fase adolescenziale. Si sposò giovane, forse per disperazione, con una donna dei bassifondi secondo il giudice. I due ebbero una figlia di nome Esmé. Tuttavia, Benito in quegli anni soffriva di alcolismo e la loro relazione era tutt'altro che serena. Irina, tentando di salvare il matrimonio del figlio, donò alla coppia dei soldi per farsi una vacanza. Una sorta di luna di miele tardiva che non avevano mai fatto, garantendogli di prendersi cura della nipote.

    L'aereo nel quale viaggiavano fu colpito da un fulmine mentre sorvolava le Alpi italiane in direzione di Venezia (come aveva consigliato Irina, avendovi trascorso la luna di miele e alla quale aveva ripensato molte volte). Avrebbe dovuto essere un luogo, una consolazione in seguito ad un momento particolare.

    «Andate lì» gli disse «è così bella!».

    L'aereo cadde. Non ci furono superstiti.

    Irina non riesce a perdonare a se stessa quell'incidente. È colpa sua se ora Esmé è orfana.

    Quanto a Jeremiah, egli non si fa problemi a viaggiare sul suo aereo privato. Lo fa per vessare la moglie, ciò che Irina prova per quello che è accaduto. Non manifesta compassione nei suoi confronti nemmeno quando la sente singhiozzare, come ogni notte, nel letto, nonostante sia trascorso ormai molto tempo.

    «Quel ragazzo era un fannullone, un ingrato» ripete spesso. «E ciò che gli è accaduto è semplicemente opera del Destino che ha ottenuto la sua vendetta, come avviene a tutte le creature poco volenterose».

    Così, Esmé rimase permanentemente dove avrebbe dovuto alloggiare per un breve periodo, ma Jeremiah Delahyde non si mostrò contrario a tutto ciò. In effetti, egli accettò Esmé, la prima e probabilmente unica ˋdonnaˊ che abbia mai dichiarato di gradire, se ciò  può definirsi gradire. L'uomo non vedeva la bambina come una minaccia. Aveva un rapporto tranquillo con lei. Rispondeva alle sue domande innocenti, infantili che, diversamente da quelle di tipo legale, non pongono condizioni prioritarie. Con lei riusciva a rilassarsi. La piccola era così palesemente affettuosa; i caldi abbracci che gli dava prima di coricarsi riuscivano a rischiarire persino quell'oscurità propria del suo mondo. Tutto ciò lo faceva sentire paterno o forse benevolo, se tali sentimenti possono essere attribuiti ad un nonno. Il genere femminile non è tutto uguale, riflette, meravigliandosi di essere giunto a tale conclusione in età avanzata.

    Questa sera il giudice gioca a fare la guerra. Su un lato dalla scrivania avanzano soldati in uniformi color kaki con tanto di bandiere, mentre sull'altro vi sono militari vestiti di grigio con elmetti allungati, tutti posizionati sul proprio territorio. Egli possiede centinaia di soldatini di piombo, principalmente fanti, che posiziona strategicamente con le sue dita ossute come farebbe un bambino: i combattenti color kaki armati di lanciafiamme  sono pronti ad attaccare i carri armati del nemico, oppure altre figure con fucili o mitragliatrici sono in marcia verso un'altra fanteria.

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