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Come fiori tra le macerie
Come fiori tra le macerie
Come fiori tra le macerie
E-book153 pagine1 ora

Come fiori tra le macerie

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Info su questo ebook

Correva l'anno 1922 quando, in un piccolo paese della Ciociaria, fiancheggiato dalle verdi acque del fiume Liri e incorniciato dai monti Aurunci, la piccola Filomena perde quanto di più caro ha al mondo: i genitori. Prima l'adorata madre le viene strappata dalla grande influenza, detta anche febbre spagnola, poi il padre decide di emigrare all'estero, in cerca di fortuna, senza più fare ritorno. Filomena sarà cresciuta dagli anziani nonni, vivendo l'imponente povertà di quei tempi, la fame e l'ancora diffuso analfabetismo. Diventata una ragazza, bella e ammirata e, per sfuggire alla miseria, è costretta a delle dolorose rinunce. Va a cercare lavoro nella Capitale e, seppur disillusa dagli uomini, è disposta ancora a credere nell'amore. Vittima di pregiudizi, decide di tornare al paese natio, dove si trova ad affrontare le conseguenze della seconda guerra mondiale. La sua terra natale, sfortunata nell'essersi trovata sulla linea Gustav, troverà la forza per rinascere dalle ceneri e dal sangue dei suoi caduti per merito dell'animo forte dei sopravvissuti.
Come fiori tra le macerie” è il romanzo con cui esordisce l’autrice, spinta dall’amore per la scrittura e dall’esigenza di raccontare un importante spaccato di vita reale, dolorosa, vissuta dalla sua nonna paterna e dagli abitanti del suo paese. Ecco allora che attraverso la storia di vita di una donna e della sua famiglia, l’autrice riesce con scrittura realistica a rintracciare e narrare le vicende storiche di un epoca e di un territorio. Un romanzo dal profumo dolce e amaro del passato, quando l’amore sapeva di zucchero e cannella, di fiele e polvere, in un’Italia semplice e genuina, in un paese sotterrato da un governo avventato e sprovveduto. In questo scenario Filomena conduce con forza e coraggio la sua vita, sorretta da un amore lontano, eppur, vicino. Un piccolo spaccato per non dimenticare ciò che siamo stati.
LinguaItaliano
Data di uscita28 ott 2018
ISBN9788829538638
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    Anteprima del libro

    Come fiori tra le macerie - Monica Maratta

    primo

    1922

    Per gli industriali e i potenti in generale bisogna combattere il dilagante comunismo. Benito Mussolini, approfittando di ciò, abbandona il socialismo per appoggiare i padroni e il re, traendo in tal modo vantaggi per la sua ambizione di successo nella politica. Fonda, così, i fasci e il re gli consegna il governo d’Italia.

    ***

    Sant’Apollinare, gennaio 1922.

    Nel salutare il nuovo secolo che si affacciava, un deputato disse:

    «Se nell’ottocento che muore gli sforzi delle classi lavoratrici furono soffocati, il secolo che nasce ne vedrà il trionfo. Se il fanciullo non ebbe pane, né istruzione, se il vecchio non trovò letto e riposo, provvedi tu, o secolo nuovo, a dare a tutti gli uomini lavoro, libertà e cibo!». [¹]

    Le parole entusiaste dell’uomo politico furono pura utopia, almeno per la prima metà del XX secolo: lo sviluppo industriale aveva portato benessere nel nord dell’Italia, ma lo stesso non si poteva dire per il centro-sud.

    Come un cappio alla gola la povertà costringeva la gente a vivere sul filo del rasoio, in bilico tra la vita e la morte. Così, la tanto nominata America – neanche fosse stato il paese dei balocchi – e l’emigrazione verso quel continente lontano, divennero il tentativo disperato di trovare una soluzione a molti dei loro problemi.

    La prima guerra mondiale, con il suo spreco di energie e risorse, aveva lasciato un’Italia devastata dalla povertà. La gente era stremata, impaurita, affamata.

    Nonostante la guerra fosse finita, la paura non se ne sarebbe andata mai, né nelle menti degli anziani né in quella dei bambini. Lì, dove aveva lasciato solo dolore e povertà si doveva ricominciare, ripartire da zero.

    La lira aveva perso il suo valore e i generi alimentari ebbero un rincaro fino al 560%. Non era di certo facile per quelle famiglie che, già abituate a campare con poco, dovevano andare avanti con sempre meno cibo nello stomaco e sempre minor forza nel corpo.

    Non potevano perdere un solo giorno di lavoro nei campi, loro unica forma di sostentamento, ma la situazione era davvero difficile, terribile.

    Quella sera, a dare man forte alla già tragica situazione nazionale, un dramma familiare –considerato assai più grande per chi lo viveva–, si stava consumando in un piccolo paese della Ciociaria, sfiorato dalle placide acque – almeno all’apparenza – del fiume Liri, che vedeva la luce nelle sorgenti abruzzesi per andarsi a gettare nel mar Tirreno.

    Il suo nome fu inizialmente Liris per i romani, modificato poi in Verde nel medioevo, per la particolare alga che cresceva nelle sue acque quando scorrevano tranquille e limpide.

    In una piccola casa di quell’antico paese, Filomena stringeva forte al petto la sua bambola di pezza. Era troppo piccola per capire cosa stesse succedendo, eppure il suo cuoricino batteva impetuoso come se percepisse un’imminente cambiamento. Riusciva a sentire gli animi agitati e tristi delle persone che le stavano intorno.

    Seduto davanti al camino, nonno Mario batteva ritmicamente il bastone di legno, l’oggetto dal quale, ormai, dipendeva negli spostamenti. Affidava a lui gli acciacchi dell’età avanzata e della dura vita passata a faticare nei campi. Le ore trascorse sotto il sole cocente, in balìa del vento o del freddo, erano tutte lì, segnate sulla pelle aggrinzita del volto.

    Ogni tanto si toglieva il cappello, tirava fuori il fazzoletto dalla tasca dei pantaloni e si asciugava, spento, ora la fronte, ora gli occhi, l’una per il caldo del fuoco, gli altri per le lacrime commosse.

    Anche nonna Caterina era irrequieta. Camminava, strisciando i piedi, dal tavolo alla porta, dalla credenza alla piccola finestra, dove svettava il genero che, piano, accarezzava su una spalla, tornando al tavolo per sedersi sulla sedia consumata e sgangherata. Bevve un sorso d’acqua, poggiando il bicchiere senza troppa convinzione, con la testa colma di pensieri.

    Sempre con lo sguardo rivolto al pavimento e le labbra in movimento nel dire una preghiera, accarezzava il piccolo Cristo attaccato alla catenina dal quale mai si separava, chiedendo pietà dai dolori, da quella sofferenza già troppo a lungo sopportata.

    Nonostante avessero finito la misera cena da un pezzo e la cucina fosse stata già rassettata, continuava a passare la pezza sul grande tavolaccio di legno, ad alzarsi e risedersi, a muoversi per la stanza, ma si trattava di gesti irrazionali. Filomena, infatti, vedeva il suo sguardo assente, perso in cupe riflessioni di quella fredda sera di gennaio.

    Suo padre Vincenzo se ne stava lì, muto, davanti alla finestra, con le mani in tasca e l’aria affranta. Sembrava non ci fosse, in quella stanza: i suoi pensieri se li portava via il vento, chissà dove, forse nei ricordi di un matrimonio che all’inizio era sembrato felice ma che poi, il tempo, aveva lentamente consumato.

    Seduta sulla piccola sedia di paglia, Filomena guardava la sua bambola.

    Amelia gliel’aveva costruita con tanto amore. Era raro possedere un giocattolo a quei tempi, – spesso solo i figli dei benestanti potevano permetterselo – e così, per la bimba, quella bambolina era preziosa più dell’oro.

    Ricordava ancora il giorno in cui la consumata mano della mamma la cuciva, mentre lei l’osservava, ammaliata da così tanta bravura.

    Con della vecchia tela di juta, sapientemente ritagliata e cucita su tutti i lati, aveva formato un sacchettino, lasciando solamente un piccolo buco da dove poter infilare numerosi rimasugli di stoffa. Rammendato il foro, con dello spago legò i due angoli superiori del sacchetto, così da farne le manine.

    Allo stesso modo aveva creato la testa, mentre con i fili di lana aveva formato i capelli e usato due bottoncini per gli occhi.

    Quello era stato il regalo per il suo quinto compleanno, festeggiato due mesi prima e, da allora, non se ne era mai separata. La teneva sempre con sé, come un portafortuna.

    ***

    La porta della stanza da letto si aprì lentamente, cigolando.

    Il dottor Di Giacomo comparve sull’uscio con le braccia penzoloni, lo sguardo basso e accigliato. Era l’unico medico del piccolo paese e conosceva quella povera gente da sempre, come facessero parte della famiglia.

    Filomena non avrebbe mai dimenticato quella scena che le si sarebbe impressa nella memoria per tutta la vita, manifestandosi, crudele, nei suoi incubi notturni per svegliarla con la fronte imperlata di sudore, facendola sussultare nel letto.

    Il medico guardò la piccola con gli occhi lucidi e il volto pallido: era padre anche lui di una bambina pressappoco della sua stessa età. Le si inginocchiò accanto, prendendole una fredda manina tra le sue e, con voce tremante, disse la cosa peggiore che si potesse annunciare:

    «Mi dispiace, se n’è andata…».

    Filomena levò gli occhi verso la nonna che subito le si era accostata per abbracciarla. Con voce candida, la piccola ruppe la melodia tragica dei singhiozzi che le suonava attorno, come una musica spettrale:

    «Dov’è andata la mia mamma, senza di me?».

    Il padre, con gli occhi pieni di rabbia, tentò di mascherare quel sentimento con un timbro dolce della voce:

    «In cielo, tesoro, insieme agli angeli».

    La febbre spagnola , conosciuta anche come la grande influenza , si era portata via Amelia in quel gelido mese invernale.

    Correva l’anno 1922 e nessuno se lo aspettava: la prima guerra mondiale era finita da qualche tempo e la gente, stanca della fame, dei lutti e delle carestie, aveva creduto di poter pregustare le gioie della pace.

    Invece, incurante dei loro poveri sogni, il virus mortale aveva già fatto comparsa qualche anno prima. La chiamavano febbre spagnola perché la stampa iberica fu la prima a parlarne, dopo la morte per causa sua del sovrano re Alfonso XIII.

    Non esisteva una cura, né un vaccino, per quella che si rivelò la pandemia più catastrofica della storia dell’umanità.

    Filomena tutte queste cose le ignorava, sapeva soltanto che le aveva strappato la mamma in pochi giorni.

    Una sera, ad Amelia era salita la temperatura corporea e aveva iniziato a vomitare, ma quando cominciò a esserci sangue dalla bocca e dal naso, la bambina fu allontanata immediatamente e portata al riparo a casa dei nonni.

    Capitolo secondo

    1922

    Nel primo governo Mussolini, il ministro della Pubblica Istruzione, Giovanni Gentile, riforma la scuola che deve essere uguale per tutti. L’obbligo agli studi viene prolungato fino ai quattordici anni di età ma, di fatto, rimane lettera morta per la stragrande maggioranza dei ragazzi, le cui famiglie non hanno la possibilità economica per consentire l’istruzione o hanno bisogno della loro giovane energia per portare il pane a casa.

    ***

    Sant’Apollinare, ottobre 1922

    La logora valigia di cartone era già sull’uscio di casa; al suo interno un paio di calzoni, due camicie e qualche cambio di intimo. L’indispensabile,

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