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Riminesi alla menta
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E-book212 pagine2 ore

Riminesi alla menta

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Info su questo ebook

Un libro dedicato a tutti coloro che hanno avuto il “privilegio” di vivere a Rimini nei “favolosi” anni ‘50 e ‘60, una serie di flash di quegli anni emozionanti che precedettero il ciclone contestatario del ’68, che demolì i modelli di vita semplici e tradizionali che si erano andati formando nell’ambito familiare, negli oratori parrocchiali, sui campi di gioco, sui banchi di scuola.
LinguaItaliano
Data di uscita30 set 2014
ISBN9788874722617
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    Anteprima del libro

    Riminesi alla menta - Giuliano Masini

    M.

    LA BISTECCA DI BOVINO ADULTO

    C’erano ancora i segni della guerra da poco conclusasi, ma tutti, uomini e donne, giovani e meno giovani si rimboccavano le maniche per uscire dal tunnel dei ricordi e proiettarsi pieni di speranza in un futuro che già da allora si intravedeva pieno di risorse. Bisognava voltare pagina alla svelta, e tutti insieme. E c’era anche chi in quelle frenetiche giornate pensava di tenere unita la comunità (dopo la forzata diaspora dello sfollamento) con le più ingegnose trovate, come quella volta che a qualcuno venne in mente di organizzare una corsa a piedi per i ragazzi della parrocchia.

    La podistica consisteva nel fare per tre volte il giro della chiesa dei Salesiani. Si partiva da via Parisano, all’altezza della tabaccheria di Ercolino, sino a raggiungere viale Regina Elena per poi ripiegare su via Tripoli e voltare a sinistra per via Don Bosco, e di qui raggiungere via Parisano per ricominciare il percorso.

    C’erano anche i premi. Il primo era un paio di zoccoli di legno donati dal calzolaio di viale Parisano; il secondo, un pallone usato, graziosamente offerto dal parroco, il terzo una bistecca di bovino adulto di Kg. 0,500, genuina messa in palio dal macellaio del quartiere.

    I ragazzi, nonostante la giornata fredda e piovosa, risposero in massa presentandosi scalzi e quasi tutti in canottiera. Anch’io partecipai alla gara e cercai con tutte le mie forze di ben figurare, ma nonostante sforzi immani arrivai solo quarto. Ci rimasi malissimo: avrei voluto a tutti i costi vincere il terzo premio per portare a casa la bistecca di bovino adulto. Rimediai invece una tremenda bronchite che mi costrinse a letto per una settimana.

    IL BASTARDINO BIONDO

    Chi era e da dove veniva nessuno lo sapeva, anche perchè nessuno glielo aveva mai chiesto: chi diceva che era un perseguitato politico, chi un galeotto uscito di prigione e chi un reduce di guerra. Si accovacciava col suo cane, un bastardino di pelo biondo, all’entrata della chiesa e lì passava l’intera giornata. Non stendeva la mano per chiedere l’elemosina né mostrava cartelli con implorazioni di aiuto. Gli uomini e le donne che entravano e uscivano dalla chiesa non lo degnavano di uno sguardo. Solo i bambini talvolta si fermavano per accarezzare il cagnolino lasciando per terra qualche spicciolo. Quel signore sorrideva e ringraziava; poi, a fine giornata si recava nella vicina bottega del fornaio per comprare un po’ di pane per sé e per il suo cane.

    Ma ad un importante appuntamento quell’uomo non veniva mai meno: ogni volta che c’era un funerale, quando la salma veniva portata via dalla chiesa per l’ultimo tragitto verso il vicino cimitero, lui immancabilmente si alzava dal suo giaciglio e assieme al cagnolino seguiva il feretro, sistemandosi silenziosamente in fondo alla fila dei partecipanti al mesto corteo.

    Un mattino quell’uomo fu rinvenuto cadavere nel suo giaciglio. Il prete volle pietosamente dedicargli una messa, ma quando la salma uscì dalla chiesa per raggiungere il cimitero, a seguire lui non c’era nessuno. C’era soltanto il suo bastardino biondo.

    UN CERTO ALBERTO MARVELLI

    Avevamo ripreso a frequentare l’Oratorio che col suo campetto di calcio, il teatrino, la sala di lettura piena di giornaletti di Jacovit e di Topolino era luogo di raduno dei ragazzi della parrocchia. C’era chi veniva dalla zona del Porto, chi da via Pascoli, da Bellariva, ed anche da Marebello, che dista da piazza Tripoli qualche chilometro. Decine e decine, talvolta centinaia di ragazzi vivevano in comunità e si riconoscevano come quelli dell’Oratorio salesiano.

    Si passava il tempo a giocare a pallone, ma anche a palline, a ruba bandiera, ad assette, a calcio balilla. Il divertimento più eccitante era il passavolante (così lo chiamavano i preti, ma per noi era più semplicemente il calcinculo) che ti dava la sensazione di volare, soprattutto quando si faceva l’angelo con cinque ragazzi che, intrecciando le corde e correndo a più non posso, tiravano il volo al temerario di turno.

    Tra i giovani dell’oratorio c’erano anche gli interni, quelli che vivevano a tempo pieno nell’Istituto salesiano, ragazzi poveri, talvolta orfani o senza regolare famiglia, che, grazie alla carità dei religiosi, avevano l’opportunità di studiare e di arrivare anche a conseguire il diploma. Ricordo taluni di loro diventati validi professionisti, altri, maestri di scuola, pochissimi finivano in seminario, nessuno si faceva prete.

    C’era miseria, tanta miseria, eppure si viveva serenamente. I genitori, che ci sapevano all’Oratorio, lontani dai pericoli, potevano dedicarsi con serenità ai lavori quotidiani. La maggior parte dei ragazzi calzava scarpe malandate, spesso non di misura, ereditate dal fratello maggiore; molti portavano cappotti riciclati e rivoltati, e c’era anche chi girava con calzoni rattoppati al ginocchio e nel retro, talvolta anche con pezze di diverso colore e tessuto.

    I più poveri erano senza alcun dubbio quelli che venivano da Bellariva, in gran parte figli di ortolani che traevano sostentamento economico dalla difficile coltivazione dei terreni aridi e sabbiosi a ridosso del litorale. Quasi nessuno aveva le scarpe: portavano gli zoccoli, d’estate con i piedi nudi e d’inverno con spessi calzettoni di lana. Nella fredda stagione li sentivamo sovente tossire. Molti di loro si ammalavano, qualcuno anche moriva, come capitò a quel bambino di nome Luigino che portava sempre il basco e una sciarpa al collo e che tossiva, tossiva sempre, e la sua mamma lo accompagnava all’Oratorio tenendolo per mano e lo affidava ai ragazzi più grandi pregandoli di farlo divertire, ma di non farlo correre e sudare perchè era delicato. Poi quel ragazzetto non si fece più vedere e dopo un po’ venimmo a sapere che era morto di tubercolosi.

    Un bel giorno vedemmo i ragazzi di Bellariva tutti con le scarpe. Miracolo? Non proprio: era successo che un certo Alberto Marvelli, un ingegnere che trascorreva gran parte del suo tempo in mezzo ai giovani della parrocchia, riuscì, non si sa come, a rimediare scarpe per tutti. Così anche i ragazzi di Bellariva, quell’anno, poterono passare l’inverno con i piedi al caldo e senza troppo tossire, come gli altri più fortunati ragazzi dell’Oratorio.

    I GEMELLI

    I gemelli più famosi di Rimini erano Licio e Lucio, entrambi piuttosto bruttini a dire il vero, ma simpaticissimi. Erano talmente uguali tra loro che neppure noi, che pure li frequentavamo, riuscivamo talvolta a distinguerli. Si diceva che la loro madre, quando erano piccoli, riuscisse a riconoscerli solo perché uno portava al collo una catenina con la medaglietta di San Giuseppe, l’altro con quella della Madonna. Vero è che il giorno in cui uno di loro si fratturò una gamba e venne ricoverato all’Ospedale dei bambini di Rimini, l’altro cadde in profonda depressione a causa della lontananza dal fratellino, perse completamente l’appetito e smise di mangiare. Dovettero ricoverarlo d’urgenza all’Ospedalino e sistemarlo accanto al gemello, anche lui a letto con la gamba fasciata e appesa per aria.

    Con il passare degli anni Licio e Lucio mantennero una incredibile somiglianza tant’è che, frequentando la stessa classe delle scuole Industriali, studiavano a turno e quando il professore chiamava uno dei due alla lavagna per l’interrogazione, si presentava sempre quello che aveva studiato la lezione, e senza mai che il professore se ne accorgesse.

    Divenuti adulti, i due cercarono lavoro. Licio fu assunto all’ATAM come bigliettaio sui filobus e svolse egregiamente il suo lavoro; ogni tanto, tuttavia, quando aveva voglia di starsene a casa, mandava a lavorare il gemello, ancora in attesa di occupazione. Dopo un paio d’anni, un controllore scoprì il trucco e li licenziò entrambi o, per meglio dire, licenziò quello che aveva un regolare contratto con l’ATAM, con somma meraviglia dei due gemelli che non riuscivano a capacitarsi cosa vi fosse di strano nel loro comportamento, dato che il lavoro lo svolgevano in modo del tutto coscienzioso ed irreprensibile.

    Successe che uno dei due si fidanzò con una ragazza della Castellaccia ed essendo un ragazzo serio, le promise di sposarla. Solo che talvolta, quando per qualche impegno non poteva recarsi da lei, mandava il gemello, come se ciò fosse la cosa più naturale del mondo.

    Un giorno, però, la ragazza se ne accorse e piangendo rivelò tutto al padre il quale chiamò i figli maschi della famiglia e insieme decisero di dare una solenne lezione al gemello impostore. Muniti di bastoni, il genitore e i fratelli si nascosero nella stanza attigua alla cantinetta dove solitamente i fidanzatini si incontravano di sera, e qui attesero che la figlia li avvertisse dell’arrivo del falso moroso. Dopo diversi e inutili appostamenti, finalmente una sera la ragazza, rossa in viso per l’emozione, corse ad avvisare i familiari che l’intruso, il gemello infame, si era rifatto vivo al posto del fidanzato. Successe il finimondo! Botte da orbi, accompagnate dagli epiteti più crudeli: "Sgrazied! Impunid! Luzzòs!".

    La storia ebbe un seguito. La ragazza dovette sposarsi alla svelta, perché incinta. Quando gli sposini si presentarono in chiesa lei era felice, anzi raggiante, lui invece aveva ancora sul volto i segni delle legnate ricevute. Era successo che quella sera, nella cantinetta, per un imperdonabile errore della ragazza, a prenderle di santa ragione era stato il suo promesso sposo, scambiato, in totale buona fede, per il gemello impostore.

    LA SVOLTA CANORA

    Nella comunità parrocchiale di piazza Tripoli vigeva rigorosa la separazione fra i sessi. Le commedie che si allestivano nel teatrino dell’oratorio erano interpretate solo da ragazzi, e le comiche da uomini vestiti da donna. Alle processioni e ai funerali il rituale era sempre lo stesso: in testa gli orfanelli, che procedevano in fila ai lati della strada guardati a vista dalle suore cappellone, dietro di loro i ragazzi più grandicelli dell’Istituto Pio Felice e poi il prete, al centro della strada, che precedeva la statua della Madonna o la bara (a seconda che si trattasse di processione o di funerale). Seguivano le ragazze, tutte col fazzoletto in testa, e quindi gli anziani, prima le donne e poi gli uomini. Chiudevano il corteo i ragazzi dell’oratorio, i quali non perdevano occasione per farsi reciprocamente scherzi: calci, sgambetti e manate sulle spalle a quelli che stavano davanti, e sia che si andasse ad un funerale, sia che si partecipasse alla processione.

    In chiesa la separazione fra i sessi era ancora più rigida: alla messa domenicale delle 9 le ragazze, tutte al seguito di suor Luigina, si sistemavano vicino all’altare principale, nella navata di destra, i ragazzi invece in quella di sinistra. Ricordo che facevamo a gara per guadagnare la prima fila, per poter guardare le ragazze e farci notare da loro.

    Nei canti liturgici ci si trovava sempre in perfetta sintonia: suor Luigina intonava al pianoforte il cantico, subito accompagnata dal coro delle ragazze, dopodiché, con perfetta scelta di tempo, entravamo in azione noi con le nostre voci e allora il coro diventava veramente piacevole all’ascolto, suggestivo e avvincente. La gente ne veniva coinvolta ed anche il prete che officiava la messa il più delle volte si concedeva lunghe pause affinché i cantori potessero completare la strofa e talvolta riproporla. Si cantavano inni gregoriani in un latino che avrebbe fatto inorridire i nostri professori di ginnasio, ma quel modo di cantare, quelle parole di significato arcano creavano, nella gente che ascoltava, una commossa e silente partecipazione e spesso succedeva che alla fine della messa, dopo che il prete aveva pronunciato il fatidico Ite missa est, gli uomini e le donne, anziché uscire di chiesa, si fermassero ad ascoltare il coro. Questa partecipazione della gente del quartiere noi la percepivamo come un tacito applauso alle nostre voci. E di questo andavamo molto orgogliosi.

    Ma un giorno, successe un fatto che sconvolse non poco la comunità parrocchiale. Stanchi di dover cantare gli inni che suor Luigina, sempre ignorandoci, proponeva, ci accordammo per intonare noi, sul finire della funzione religiosa, una canzone laica o come si diceva allora, profana, bruciando sul tempo le ragazze. E ci mettemmo a cantare La montanara.

    Il parroco quando si rese conto che non di canto gregoriano si trattava, ma di un inno scanzonato e pagano (per la verità ci mise un po’ prima di capire quel che stava succedendo), sbiancò in volto e urlò, rivolto al nostro settore: Sacrilegio!. Poi, con voce decisa ci intimò di uscire dalla chiesa, casa di Dio e non rifugio di montagna e di non aprire mai più bocca durante le funzioni religiose.

    Da quel giorno il coro fu allietato solo dalle voci angeliche delle ragazze di suor Luigina. Ma i parrocchiani, al termine della funzione non si soffermavano più, come prima, in fondo alla chiesa. Gli uomini scappavano via di corsa per andare al bar di Poldo a giocare a briscola, le donne per recarsi a casa a preparare il pranzo domenicale.

    POTENZA DEL DIO-DANARO

    Alla nostra compagnia si aggregava sovente un bravo ragazzo, figlio di povera gente, che aveva all’incirca la nostra età ma fisicamente era il doppio di noi, quasi un gigante. Era però un sempliciotto. E proprio per questo era l’oggetto preferito dei nostri scherzi, talvolta anche pesanti. Lui non protestava, parlava pochissimo e si limitava a stare con noi e a seguire i nostri discorsi, ridendo quando noi ridevamo, mostrandosi preoccupato quando avevamo qualche problema da risolvere. Forte come un toro, aveva la testa dura come pietra, tant’è che talvolta, per scherzo, lanciavamo in aria dei sassolini e lui, con un saltello li colpiva col capo, mimando i giocatori del pallone. Capitava spesso che, dopo quella sua esibizione, qualcuno di noi aprisse il borsellino e gli allungasse qualche soldo. Quei sassolini, un po’ per gioco, un po’ per calcolata malizia, diventarono sempre più grossi, ma lui, imperterrito (forse per farsi grande di fronte a noi), li colpiva senza neppure una smorfia di dolore (che pure doveva sentire).

    Successe un giorno che uno di noi lanciò in aria un sasso ben più grosso degli altri. Il nostro amico, come sempre, si alzò in alto di scatto e lo colpì. Ma subito dopo si accasciò al suolo urlando come un ossesso. Erano urla che nulla avevano di umano: la testa gli sanguinava e le mani con cui se la copriva erano intrise di sangue. Alcuni di noi, presi dal panico, scapparono; altri, pallidi in volto, tirarono fuori i

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