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Anna in balia della tempesta
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Anna in balia della tempesta
E-book161 pagine2 ore

Anna in balia della tempesta

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Info su questo ebook

Anna racconta la storia di un'insolita famiglia, durante il temporale,

in attesa di una schiarita. Il romanzo mette a confronto tre

generazioni, la cui vita s'intreccia con gli eventi storici e politici

più significativi per la Sardegna e l'intera Italia: la Seconda guerra

mondiale, il dopoguerra, gli anni di piombo. I protagonisti del romanzo

rivelano i loro drammi personali: gli amori proibiti, le scelte

politiche ora ragionate, ora casuali. In un turbinio di sentimenti e di

scelte coraggiose e irriverenti. In balia di un'esistenza tempestosa.
LinguaItaliano
Data di uscita2 mar 2021
ISBN9791220318129
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    Anteprima del libro

    Anna in balia della tempesta - Rita Longheu

    info@youcanprint.it

    Anna saliva i gradini del palazzo a passi lenti e incerti, aggrappandosi al corrimano.

    Entrò nell’ascensore e trovò Viola, che era rimasta ad aspettarla. Le due donne andavano entrambe al secondo piano. Quando la porta dell’ascensore si aprì, Anna vide l’ambulatorio medico ancora chiuso. Il suo viso sbiancò, le sue gambe sottili e malferme iniziarono a tremare. Si rivolse a Viola:

    «Posso venire con lei? Sono stanca, ho bisogno di riposarmi, sa... ho novantadue anni, devo sedermi un poco.»

    «Certo, signora» rispose Viola, un po’ perplessa da quell’incontro inaspettato. «Entri in casa e si accomodi.»

    Viola le fece strada verso l’ingresso del suo appartamento, spalancando la porta del soggiorno. L’anziana donna notò i tappeti persiani a disegni floreali che tappezzavano il pavimento; i quadri appesi alle pareti le ricordavano la sua giovinezza. Davanti alla luce che penetrava dalla porta finestra la donna appariva in tutta la stupefacente, desolante, imbarazzante bellezza dei suoi anni.

    Viola lasciò per un attimo la signora e si spostò in cucina a preparare un caffè. Il piacevole aroma invadeva la sala, mentre fuori era scoppiato un violentissimo temporale e i fulmini illuminavano la stanza. Seguì poi il rumore dei tuoni. La radio dava notizie di inondazioni e allagamenti. Si raccomandava di non uscire per le successive dodici ore.

    Viola chiuse porte e avvolgibili in tutta la casa in modo che non filtrasse nessun bagliore. Poco dopo venne a mancare anche la luce elettrica. Si sentiva impaurita, ma la compagnia dell’attempata signora era in qualche modo rassicurante. La raggiunse in salotto, le offrì il caffè e si rannicchiò in un angolo del divano. Gli occhi di Anna rivelavano un attimo di esitazione: stavano riaffiorando nella sua mente lontani ricordi, che da tempo aveva rimosso. Anche lei era preoccupata per la tempesta in corso: prese le mani di Viola tra le sue ringraziandola per l’ospitalità, e dopo un sorso di caffè sembrava essersi ripresa dalla fatica e dal peso dei suoi anni. Sosteneva che la sua era un’età di bilanci, di resoconti. Quell’incontro casuale le aveva dato l’opportunità di iniziare una lunga riflessione sulla vita passata e la storia della sua famiglia.

    «Ti confesso che sono stata travolta dalla marea della vita per troppi anni... Mi chiedo come sono arrivata fin qui. Perché il privilegio di avere tanto tempo, quando ho vissuto tutte le emozioni belle e brutte che questa vita può offrirci? E poi le ore, i giorni che si dilatano diventando lunghi, vuoti, insignificanti. Non mi basta più il sorriso di un bimbo, lo sbocciare dei fiori di campo in un tripudio di colori o lo spiegarsi in volo delle ali di una farfalla. Alla mia età non basta più, tutto si ripete con una regolarità esasperante: il giorno si alterna alla notte, le stagioni si avvicendano l’un l’altra. Tutto è già stato vissuto... Ma ora non voglio annoiarti! Non vorrei essere invadente approfittando di questo evento fortuito e imprevedibile.»

    «Ma no!» disse Viola, sempre più stupita. «Continui pure. Mi è sempre interessato scavare nell’animo altrui e conoscere i segreti che si celano nella la vita delle persone.»

    Viola si adagiò sul divano, e la vecchia signora riprese il filo del discorso, che per un istante aveva perso. Con una voce flebile e rauca iniziò a rievocare la sua storia.

    *****

    Sono nata a Cagliari in quel lontano 1° maggio 1925, nel quartiere di Stampace, il più antico della città. Il suo nome derivava da su stampu, grotta, cavità. Il sobborgo era ricco di caverne, sotterranei, che si rivelarono molto utili in quei fatidici giorni del ‘43. Mia madre aveva partorito con l’aiuto di una donna del vicinato, che per fortuna non si era recata alla festa di Sant’Efisio. La levatrice non si trovava. Quel giorno, come da sempre, tutta l’isola partecipava alla festa. Le case del vicinato si erano svuotate. Ma io nacqui subito, senza complicazioni. Mio padre e mio fratello Efisio mi videro quella sera. Quando rientrarono dalla festa, erano felici dell’evento. Dissero che nascere nel giorno di Sant’Efisio era di buon auspicio. Il martire nel 1652 protesse la città liberandola dalla peste. Da quel periodo i cagliaritani festeggiavano il Santo per onorare la grazia ottenuta.

    Abitavamo in una palazzina signorile in Largo Carlo Felice, grazie ai nonni paterni possedevamo un alloggio. Mia madre era la padrona di casa. Mio babbo Rodolfo non guadagnava tanto, così mia madre gli dava dello sfaticato. Lei amava il lusso, che aveva conosciuto fin da giovane nella famiglia dei suoceri. Mia madre era una donna elegante. Ricordo le sue gonne a tubo, le sue calze con una cucitura centrale, che disegnavano le sue lunghe gambe affusolate; i suoi occhi lucenti di colore verde sempre truccati. Quando uscivamo insieme non c’era uomo che non la guardasse. Si chiamava Beatrice, il babbo la chiamava affettuosamente Bea. Era orgoglioso di lei e della sua bellezza. Mia madre è stata prima mussoliniana, poi fascista. Mio padre era sardista: questo era un grande segreto per tutta la famiglia, così imparai sin da piccola la riservatezza. Sentivo spesso le accese discussioni tra i miei genitori per motivi politici. Lei lo insultava dicendo che Lussu era un delinquente, era stato confinato a Lipari e aveva ucciso un uomo. Mio padre urlava che si era trattato di legittima difesa. Il tribunale lo aveva assolto per l’omicidio ma lo aveva condannato perché antifascista. Mia madre ribadiva che se nostro padre anziché seguire l’insana ideologia del Lussu avesse preso la tessera del Fascio, sarebbe stato un gerarca rispettato e non un morto di fame. Mio padre inorridiva e malediceva il prefetto Gandolfo, sansepolcrista, l’artefice della fusione avvenuta nel 1923. La Legge del Miliardo, varata nello stesso anno, aveva premiato la nuova classe dirigente per l’operazione compiuta. Metà di quella cifra stanziata era stata spesa a Cagliari.

    Mamma Bea non perdeva occasione per umiliare mio padre. Una volta gli urlò:

    «Con la tua coerenza non abbiamo neppure cinque lire per comperare la divisa ad Anna. Come si presenterà alle adunate? Vuoi fare di lei una piccola selvaggia?»

    «No, la educherò ai valori nei quali credo» rispose lui. «E tu quali valori le avresti dato, invece?»

    «Io ho semplicemente aiutato i camerati, che combattono in Africa orientale, compreso nostro figlio. Non i codardi come te, che anziché cercare un posto al sole mantengono il fondoschiena sulla sedia.»

    Io avevo imparato a tacere, ma mi vergognavo di non avere la divisa come i miei compagni. Già mi sentivo una piccola fascista e immaginavo il giorno in cui finalmente l’avrei indossata. In un salvadanaio avevo conservato i risparmi destinati alla mia uniforme. Mio padre era molto polemico, ma mia madre diceva che se non era ancora in galera era grazie a lei, che frequentava la Casa del Fascio e andava alle riunioni delle giovani massaie. All’epoca facevo la prima media, avevo dodici anni, seguivo con vibrante entusiasmo e interesse tutte le vittorie che le guarnigioni italiane conseguivano in Eritrea e Somalia. Il professore segnava sulla carta geografica con un piccolo tricolore le conquiste ottenute. Ci sentivamo tutti cittadini dell’impero. Tutte quelle lezioni terminavano col saluto romano al Re e al Duce. La guerra ci sembrava un gioco, una grande emozione che in un futuro non molto lontano avremmo provato. La nostra strada era tracciata. Speravo che un guerriero mi portasse via dalle continue liti familiari, e volevo dare tanti figli alla patria.

    Per avere le mie uniformi, mio padre si faceva in quattro per vendere i suoi quadri in ogni angolo della città e della provincia. Il sabato sera indossavo la divisa e andavo in viale Bonaria, sede della GIL, per i preparativi del ventennale della fondazione dei Fasci di Combattimento. Avremmo sfilato con passo marziale lungo le vie più importanti della città, per ritrovarci in Piazza del Carmine, sede della Prefettura, con tutte le autorità ad ascoltare il discorso radiodiffuso del Duce. Io, come mia madre e tutti i ragazzi della mia età, aspettavo con ansia quel 26 marzo 1939.

    ***

    Già adolescente, dalla mia maglietta bianca spuntava prorompente il seno di cui andavo orgogliosa. Dalla mia gonna nera a pieghe si scorgevano caviglie sottili e lunghe gambe coperte da spessi calzettoni, che contraddicevano il mio aspetto da donnina. Allora frequentavo la quarta ginnasiale al liceo classico in Piazza Dettori. Ero molto brava in tutte le materie, soprattutto in storia romana: ricordavo a memoria tutti i re e gli imperatori dalla nascita dell’impero alla sua caduta. Tutti amavano la mia compagnia. Avevo in tutte le materie la media dell’otto e i miei temi venivano letti a voce alta in tutta la classe. Avevo partecipato alle Littoriali della cultura con i figli del Podestà e del Federale. Mia madre diceva che loro sarebbero finiti alla scuola di Mistica Fascista. Il loro padre non era un debole come il mio. Dovevo ringraziare solo lei che si distingueva per la sua fede negli alti ideali a cui la storia ci aveva chiamato. Papà Rodolfo non si era iscritto al Fascio. Quella rivelazione fu per me molto dolorosa. Speravo che nessuno dei miei compagni venisse a conoscenza del fatto.

    Aspettavo con trepidazione il ventennale della fondazione del Fascio, ma non potei partecipare alla manifestazione perché mi venne un febbrone. Le mie compagne di classe mi riferirono ogni particolare. L’unico a gioirne fu mio padre. Non riuscivo a detestarlo, anche se non condivideva i miei sogni. A differenza di mia madre, lui era dolcissimo. Certe sere mi guardava teneramente e mi diceva: «Anna cara, quando questo mondo crudele e assurdo crollerà, capirai chi ha ragione e chi ha torto. Forse io non ci sarò più, ma devi essere forte». Più tardi avrei capito il significato di quelle parole.

    Mamma Bea era sempre più bella, stava spesso fuori casa, a fare i suoi corsi di alfabetizzazione fascista a tutte le donne di casa della provincia. Questo ci permetteva di avere le uova fresche, il pane in abbondanza. Vendeva le verdure e il pane avanzato, lucrando sul prezzo. Così riusciva a comprarsi il rossetto, le calze di nylon allora introvabili, le matasse di lana per fare i maglioni. A 37 anni, sembrava una donna col corpo da ragazza. Mio fratello Efisio era partito volontario per il fronte in Africa orientale, ancora diciassettenne. Eravamo orgogliosi di lui, aspettavamo le sue lettere. Ci raccontava del generale Graziani, delle schiaccianti vittorie, delle eroiche battaglie a cui partecipava, lottando nel deserto. Agli inizi dell’offensiva le sue lettere erano entusiastiche, fiduciose nella vittoria. Poi seguì un lungo silenzio. Per molti mesi non ricevemmo nessuna lettera. Temevamo il peggio, ma ricordavamo il discorso del Duce radiotrasmesso da Piazza Venezia, duro, esaltante, deciso. Ci eravamo persuasi che la forza ideale dei nostri giovani avrebbe superato ogni difficoltà.

    Mio fratello regalò un arto alla patria sul finire di aprile. Aveva tentato di salvare un suo amico che aveva calpestato una mina. Il suo amico morì e a lui amputarono il braccio sinistro. Esonerato dal servizio militare, ritornò a casa. Rivedendolo mio padre, che era stato contrario a quella scelta, pianse per disperazione. Mia madre lo abbracciò e disse: «Devi essere onorato di aver partecipato alla nascita dell’impero, di aver donato il tuo braccio alla patria». Anche lei però soffriva in silenzio, non aveva preso in considerazione questo evento.

    Efisio era altero: trattandosi del braccio sinistro, era ancora completamente autonomo, e non voleva la pietà di nessuno. Quando il generale Badoglio il 5 maggio 1936 conquistò Addis Abeba, non esultò di gioia, così come quando pochi giorni dopo il Re fu proclamato Imperatore. Diventava sempre più silenzioso. Molte notti urlava frasi incomprensibili, si svegliava di soprassalto. Era rimasto traumatizzato da quella esperienza tragica. Quando il 15 luglio 1936 la Società delle Nazioni revocò le sanzioni economiche, si rifiutò di ascoltare il discorso esultante di Mussolini. Si estraniò completamente dalla politica, non partecipava alle adunate del sabato.

    Un giorno mia madre provò a parlargli, ma lui reagì male.

    «Dovevi impedirmi di partire, ma tu mi hai incoraggiato perché volevi l’eroe. Ma guarda qui!» disse indicandole il braccio monco. «È questo è niente, in confronto a ciò che ho visto e vissuto: donne, bambini uccisi a migliaia dai gas lanciati con le granate. Ustionati in tutto il corpo, una morte atroce. Orde di soldati che violentavano brutalmente donne, ragazze, che potevano essere loro sorelle o madri.»

    «Per amor del cielo abbassa il tono della voce, ci manderanno tutti al confino!» rispose lei.

    «Sono queste le tue paure di fronte alle stragi commesse da Graziani e Badoglio? Non dimenticherò gli eccidi a cui ho assistito impotente.»

    «Adesso basta! Sono trascorsi tre anni. Dovresti aver superato i tuoi malesseri, dovresti frequentare l’OND e distrarti come fanno tutti i giovani fascisti della tua età.»

    «Non potrò più abbracciare una ragazza, non sono più l’uomo virile, perfetto, che sognavo di essere!»

    Prima di partire per il fronte, Efisio lavorava nelle saline di Molentargius. Al Poeto dietro le pinete si potevano vedere le piramidi di sale che luccicavano

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