Il tesoro di Equatoria
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Anteprima del libro
Il tesoro di Equatoria - Vittorio Vetrano
SÀTURA
frontespizioVittorio Vetrano
Il tesoro di Equatoria
ISBN 978-88-9296-774-8
© 2021 Leone Editore, Milano
www.leoneeditore.it
Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in modo fittizio. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.
I concetti espressi nell’opera non rispecchiano l’opinione della casa editrice.
PREMESSA
La Storia non si fa con i «se». I romanzi sì.
Questo romanzo è ambientato ai nostri giorni. O, per meglio dire, sarebbe ambientato ai nostri giorni, se una lunga serie di giorni precedenti fosse stata assai diversa. Se cioè alcuni eventi avessero seguito un altro corso, specialmente dalla fine degli anni Trenta: una Seconda guerra mondiale avvenuta in modo assai ridimensionato e limitata a una Guerra mediterranea, con la vittoria degli ideali tradizionali e social-nazionali sulle ideologie avversarie, democraticismo liberal-capitalista e bolscevismo.
Il romanzo non racconta questi avvenimenti fantastorici. Li lascia sullo sfondo, come premessa indispensabile per comprendere il presente narrato.
Uno dei tanti presenti possibili.
I
Era il primo pomeriggio e Giulio stava percorrendo il lungotevere Diaz, in direzione del Foro Mussolini. Gli piaceva tanto passeggiare sui lungoteveri. Abitava in una bella palazzina di via Guido Reni e, dopo un piacevole quanto frugale pasto familiare, si era volto alla sua tranquilla camminata.
Era lunedì, un lunedì semplice e felice. Il giorno prima era stato grande festa: iniziava l’anno xcvii e, come di consueto, l’anniversario della marcia su Roma aveva avuto nell’Urbe un sapore unico. Tra l’altro Rivoluzione, Ognissanti, Commemorazione dei defunti e Vittoria costituivano quattro ricorrenze così vicine da consentire di vivere un’intera settimana di cerimonie religiose e civili, festeggiamenti e riunioni familiari. Era la cosiddetta «settimana delle feste autunnali».
Giulio, che aveva trentanove anni, era quello che si definisce un bell’uomo: alto un metro e settantacinque, snello, sbarbato, con capelli castani e la carnagione chiara, dai lineamenti finissimi. Aveva buon gusto nel vestire e i suoi modi erano di una garbatezza così naturale, che era difficile non esserne piacevolmente affascinati sin dal primo incontro.
Aveva partecipato alle principali manifestazioni del 28 ottobre con la moglie Isabella e i figlioli Vittorio, Benito, Cecilia, Margherita e Umberto. Il primo era da poco Avanguardista e si era impegnato in modo davvero encomiabile. Benito aveva dieci anni; gli altri erano tutti più piccoli.
Durante la cerimonia al Foro dell’Impero fascista, innanzi al Vittoriano, Giulio era stato premiato dalla Maestà del Re Imperatore Vittorio Emanuele iv per l’ottimo lavoro svolto nell’anno xcvi, diventando Cavaliere al merito agrario. Oltre al sovrano, erano presenti la regina Maria Cristina, il principe di Piemonte Umberto e, in visita ufficiale nella capitale per una settimana, il re di Croazia Zvonimiro ii Amedeo, figlio dell’eroico Tomislao ii Aimone.
Giulio, nato nell’anno lvii, lavorava nella gestione di un’importante ditta che produceva macchine agricole, con gli stabilimenti in quel di Malagrotta. In particolare, da un po’ di mesi, la sua attività organizzativa dava, seppur a distanza, un contributo importante alla valorizzazione delle più remote terre dell’Impero.
Dopo la Vittoria mediterranea dell’anno xxii, l’Impero si era infatti ingrandito di tutto l’ex Sudan anglo-egiziano, offrendo smisurate possibilità di sviluppo. La popolazione metropolitana, in continua e costante crescita con una media di tre figli a famiglia, aveva trovato nell’Impero scarsamente abitato un importante sbocco demografico ed economico.
Il notevole progresso tecnologico aveva inoltre facilitato gli spostamenti all’interno delle terre italiane. L’Ala littoria, con una modernissima flotta aerea, assicurava collegamenti diretti e veloci tra tutte le principali città metropolitane e coloniali; via terra, l’autostrada Balbia collegava rapidissimamente Tripoli al Cairo, e l’Autostrada dell’Impero, sempre più perfetta, metteva ormai da anni in veloce comunicazione la stessa capitale del Vicereame d’Egitto con Cartum, Addis Abeba e Mogadiscio; strade ferrate, infine, erano disseminate dappertutto. Nel corso degli anni si era innalzato di molto il tenore di vita sia dei nazionali che delle innumeri popolazioni e razze delle Colonie.
A tutto questo pensava Giulio passeggiando, e si sentiva orgoglioso della sua famiglia e della sua Patria. Pensava in particolare all’Impero. In realtà, egli non vi aveva mai lavorato di persona. Sì, l’aveva visitato, come buona parte dei connazionali metropolitani, e conosceva piuttosto bene Addis Abeba, Asmara, Mogadiscio e Merca; ma non vi aveva mai lavorato. O meglio, aveva lavorato da Roma con tutte queste città, per rifornirle di macchinari agricoli e per studiare le possibilità di colonizzare i territori più sperduti. Però era stato pur sempre un lavoro a distanza, un lavoro di concetto, talvolta forse troppo astratto per la sua naturale propensione alla concretezza. Gli sarebbe piaciuto operare di persona nell’Impero, vedere come si lavorava laggiù; non proprio trasferirsi, come aveva fatto suo cugino Giovanni (da anni imprenditore agricolo nei bananeti di Merca) ma trascorrere almeno un po’ di tempo in Africa, per tornare poi all’amata Urbe. Naturalmente con la famiglia al fianco.
Tutti questi pensieri gli ingombravano la mente, allorché si ritrovò al Foro Mussolini, di fronte al Monolito. Pensò alla storia d’Italia del xx secolo e di quel primo scorcio di xxi, ai sovrani e ai Duci che si erano succeduti: Vittorio Emanuele iii, Umberto ii, Vittorio Emanuele iv; Benito Mussolini, Dino Grandi, Giovanni Tencajoli. Peccato non aver potuto ascoltare Mussolini a Palazzo Venezia… ma che bello sentire il Duce attuale, Giovanni Tencajoli, sangue corso nelle vene. Aveva fatto anche in tempo ad ascoltare il Duce precedente, Dino Grandi. Quante opere realizzate, quanta strada percorsa!
Sì, si rendeva conto di vivere in un periodo molto prospero e felice. Avvertì un fremito, un’emozione, un moto che comprendeva l’orgoglio e la sollecitudine di migliorare sempre più, per continuare a costruire la Patria.
Giunto in piazzale dell’Impero, incrociò un suo conoscente, l’avvocato Baratti, che era stato con lui nella Gioventù italiana del Littorio e nei Gruppi universitari fascisti e che abitava nei dintorni. Questi era un omone nerboruto con una faccia rubiconda e paffuta che ispirava subito simpatia.
Giulio lo salutò allegramente. «Buongiorno, avvocato, come va?»
«Buongiorno, Cavaliere. State bene?»
«Siete stato ieri a vedere la sfilata in via dell’Impero?»
«Naturalmente. Bellissima, un’emozione indescrivibile!»
«Il lavoro, tutto bene?»
«Sì, camerata, grazie!»
«Arrivederci.»
Giulio pensò all’Accademia fascista di Educazione fisica, proprio lì a due passi, e i bei tempi dell’università. Ma Giulio in realtà non era di Roma. Egli era nato a Ragusa di Dalmazia, in una casetta proprio fuori Porta Pile. Suo nonno Vittorio aveva partecipato attivamente alla redenzione della città, avvenuta con la Pace di Roma dell’anno xxiii. Il padre Enrico era stato uno dei principali esponenti del Fascio raguseo ed era diventato, nell’ultimo governo Tencajoli, sottosegretario alle Corporazioni. Si era trasferito a Roma nell’anno lxiv, allorché aveva ottenuto un posto di rilievo al medesimo Ministero. Tuttavia la famiglia aveva mantenuto la casa di Ragusa e almeno un mesetto all’anno ritornava nella lussureggiante «Firenze dalmata». Che belle che erano da bimbo le corse da Porta Pile lungo lo stradone fino al Duomo, e poi indietro fino alla fontana d’Onofrio!
Si erano ormai fatte le quattro ed era tempo di ritornare a casa. Attraversato il ponte Duca d’Aosta, in un attimo fu al portone. Non fece in tempo ad aprire del tutto, che già le braccia dei suoi pargoli e della dolce moglie gli erano al collo.
«Babbo, babbo, mi hai portato una sorpresa?» chiedeva la piccola Margherita.
«Ecco una sorpresa per voi tutti!» rispose e dalle tasche trasse un pacchetto ricolmo di biscottini prelibati, opera di un’anziana pasticceria di viale Pinturicchio.
Venne il Giorno dei morti. La messa del 2 novembre aveva sempre rivestito per Giulio un’importanza estrema. Le cagioni erano tante. Amava pregare per i suoi cari defunti, in particolare per l’amato nonno cui era tanto affezionato; amava il mese di novembre, con quella sua malinconia ricca di sentimento amava la solennità tutta particolare che prevede per quel giorno il rito della messa, con i paramenti neri, l’assoluzione al tumulo, il coinvolgente canto del Dies irae… Tutto contribuiva a rendergli cara quella giornata. E fu così che con tutta la famiglia Giulio si recò alla messa cantata delle 10, nella vicinissima chiesa di Santa Croce.
Entrati che furono, Giulio si sentì subito a suo agio nell’avvolgente stile neobizantino. Ricordò le personalità che avevano attraversato la storia di Santa Croce e pensò in particolare a padre Cornelio Fabro, la cui teologia aveva avuto modo di studiare e amare. La messa sarebbe stata cantata da padre Gustavo, suo coetaneo e vecchio compagno di scuola. Nella predica, il prelato citò una frase di dantesca memoria che Sua Santità Pio xiii aveva dedicato recentemente ai Romani.
«Figlioli miei, mai dimenticate la gloria dell’Urbe, di quella Roma onde Cristo è romano
.»
Giulio pensò al papa attuale e anche ai due precedenti, Gregorio xvii e Pio xii. Pensò ai dogmi che i tre avevano promulgato nel corso del tempo: l’Assunzione, la Corredenzione mariana e la Regalità sociale di Nostro Signore Gesù Cristo. Pensò alle splendide opere svolte da questi pontefici. Che uomini santi e che giubilo per l’orbe cattolico avere pastori di tal fatta!
Usciti dalla chiesa, passeggiarono fino alla trattoria Da Ernesto, dove consumarono un ottimo pasto.
Vittorio, che aveva quindici anni, disse: «Babbo, babbo! Perché non andiamo alla villa Umberto i? In questo modo potremmo visitare il Giardino zoologico!».
«Sì, voglio vedere il coala» intervenne la piccola Cecilia.
«E poi potremmo anche vedere la Mostra della Rivoluzione fascista» proseguì Vittorio «mi hanno detto che hanno aggiunto altre sale!»
Dopo la Vittoria mediterranea, infatti, la Mostra aveva avuto un’espansione notevole e l’aggiunta di sale correva di pari passo alla Rivoluzione, con le sue nuove conquiste e i suoi nuovi traguardi. Prima della Guerra mediterranea, l’avevano posta provvisoriamente sul fianco sinistro del Palazzo delle belle arti, ma in seguito avevano costruito un nuovo, magnifico edificio esclusivo sul lato di Porta Pinciana. Lo stile neoclassico e le magnifiche statue a corredo, rappresentanti le virtù nazionali, ne facevano una perla dell’architettura moderna. Prima dell’enorme portale d’ingresso vi erano, una per lato, due statue equestri, una di Sua Maestà Vittorio Emanuele iii e una di Sua Eccellenza Benito Mussolini, i fondatori dell’Italia moderna. L’enorme portale a tutto sesto, con bassorilievi raffiguranti le principali tappe storiche dell’Italia fascista, dava un’impressione al contempo d’imponenza e di ricchezza, ma non di lusso esagerato, bensì di sobrietà.
Giunti innanzi al superbo palazzo, rivolsero il saluto romano ai moschettieri di guardia ed entrarono, consapevoli di star compiendo un pellegrinaggio. Anche il piccolo Umberto, di nemmeno cinque anni, mostrava un contegno invidiabile, fatto di gioia e di rispetto per la grande Italia. Era già un prode figlio della Lupa.
Passarono in rassegna le numerose sale, una per una, iniziando dalla ventina che narrava le origini della Rivoluzione fascista: l’Intervento, la Guerra, la Vittoria; i conflitti del dopoguerra, gli eccidi e i martiri; l’azione dello squadrismo, l’impresa di Fiume, la Marcia. E poi i Fasci italiani all’estero, le opere di Mussolini, le Guerre d’Etiopia e di Spagna; l’azione nella Dalmazia, a loro tanto cara; il Lavoro fascista, la Scuola fascista, le opere degli Eroi delle terre redente…
Si soffermarono in particolare sulle figure di Carmelo Borg Pisani e Petru Giovacchini. Poi si dedicarono alle nuove sale che ancora non avevano visto. Si riferivano alla recentissima espansione della Concessione di Tientsin, in estremo Oriente, e alle spedizioni nel territorio antartico italiano, con la colonizzazione stabile del capoluogo Gloria dell’Antartide.
Molto tempo dedicarono altresì alla grande sala dell’Impero italiano, che con alto fine educativo mostrava con cartine, documenti, quadri e oggettistica varia l’intera estensione geografica e amministrativa di tutti i territori italiani. Un ampio portone in legno intarsiato, ornato di nodi sabaudi e fasci littori, introduceva nella vastissima sala.
Tosto era un magnifico leggio, sul quale vi era una grande pergamena aperta, fregiata dello stemma reale nella sua versione completa. Essa recava scritti in oro i primi articoli della Dichiarazione nazionale del 1952/xxx, che comprendeva in sé lo Statuto albertino del 1848 e costituiva la suprema legge nazionale.
Nelle varie teche e nei vari quadri vi erano poi le cartine di tutte le province del Regno, europee e africane, di tutti i Governi e dei Commissariati dell’Impero coloniale dell’Africa orientale italiana, del Vicereame d’Egitto, del Territorio del Deserto Libico, della Concessione Perpetua di Tientsin, degli Stabilimenti italiani in India, del Protettorato di Tunisi e Costantina, del Protettorato di Somalilandia, dei tre Regni in unione reale e personale di Albania, Cipro e Latino di Gerusalemme, del Regno associato del Montenegro, del Territorio antartico Duca degli Abruzzi, del Territorio degli Afar e degli Issa (in codominio con il regno di Francia).
Tutti rimasero estasiati.
Benito osservò con attenzione speciale tutti gli stemmi provinciali. «Babbo, perché l’emblema di Rodi è tanto simile a quello di Malta, benché non siano affatto vicine?»
Il padre spiegò: «Vedi, caro Benito, entrambi si riferiscono ai Cavalieri del celeberrimo Ordine. Essi ebbero la propria sede a Rodi, finché i turchi non li cacciarono nella prima metà del xvi secolo. In seguito si insediarono a Malta, sicché ambedue le province hanno la medesima origine storica e araldica. In entrambe anche oggidì i Cavalieri hanno grande importanza, specialmente a Malta, al punto che il Gran maestro dell’Ordine è anche Gran