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L’invisibile mondo di Olga Frau
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L’invisibile mondo di Olga Frau
E-book315 pagine4 ore

L’invisibile mondo di Olga Frau

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Info su questo ebook

Vivere con una donna ogni attimo della giornata, condividere con lei ogni cosa, anche i sogni, e avere la consapevolezza che lei esista solo nella propria mente. Una sorta di allucinazione composta, strutturata, a cui si è legati indissolubilmente, e della quale non si riesce a fare a meno, perché è dolcezza, affetto, vera compagna dell’esistenza.

Forse farebbe impazzire ogni mente, ma non quella di un professore di fisica, così ben organizzata nella logica. E tutto andrebbe avanti così, se quella donna, quell’allucinazione, non gli avesse suggerito di consultare un medico, il dottor Takaiasu, uno psichiatra giapponese laureatosi a Palermo, che vive e lavora da molti anni in quella città.

E Takaiasu, assieme al suo amico, il dottor Restivo, scoprono che le cose non sono come sembrano, che c’è di più, molto di più.

La storia si carica di mistero, velandosi di paranormale e surreale, ma i due medici trovano il bandolo della matassa nei racconti di un vecchio cieco e in una lettera della madre del professore lasciata a futura memoria.

Una storia avvincente, tra scienza e superstizione, che lascia scoprire un mondo che non vediamo, ma che riusciamo a percepire solo con la nostra sensibilità, e che ci fa comprendere che una persona è principalmente una mente pensante, prima ancora che un corpo.
LinguaItaliano
Data di uscita9 nov 2016
ISBN9788856780307
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    Anteprima del libro

    L’invisibile mondo di Olga Frau - Angelo Rinascente

    Albatros

    Nuove Voci

    Ebook

    © 2016 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma

    www.gruppoalbatrosilfilo.it

    ISBN 978-88-567-8030-7

    I edizione elettronica ottobre 2016

    A Chiara e Denise,

    le mie figlie

    E coloro che furono visti danzare

    vennero giudicati pazzi, da quelli che

    non potevano sentire la musica.

    (F. Nietzsche)

    Premessa

    Il modo in cui percepiamo il mondo lo definiamo normale perché la maggior parte di noi lo percepisce più o meno allo stesso modo. La normalità è, quindi, un fatto statistico e, sebbene il mondo esista anche senza di noi, lo cataloghiamo secondo degli schemi imposti dal nostro cervello e condivisi dalla maggior parte di noi.

    Ma se il mondo che percepiamo in questo modo, lo vedessero degli alieni venuti da altri pianeti, con strutture mentali diverse dalle nostre, esso apparirebbe a loro come appare a noi? Sicuramente no, perché, pur esistendo il mondo anche senza di noi, siamo noi che gli attribuiamo forme e colori, suoni e consistenza, secondo dei canoni elaborati dai nostri neuroni. Per cui siamo portati a definire diversi, folli, alienati tutti quelli che si discostano dalla statistica imposta dalla maggioranza, relegandoli ad una minoranza da curare.

    Ma se i folli fossero solo degli individui in grado di percepire un mondo diverso da come lo percepiamo noi? Il loro sarebbe un mondo fantastico, inesistente, solo perché la maggioranza degli uomini non lo percepisce come loro?

    Ma allora, sarebbe un mondo inesistente il nostro, secondo gli alieni venuti da un altro pianeta, che non lo percepiscono come noi? O sarebbero dei folli quegli alieni venuti da un altro pianeta?

    Noi uomini siamo portati a definire malata una visione del mondo diversa, e a volerla curare per farla divenire sana. Ma forse dovremmo, con un po’ di umiltà, considerare possibile l’esistenza di una realtà diversa, invisibile, che sfugge alla nostra percezione e che, invece, si lascia catturare da menti da noi definite malate o folli, mentre, in realtà, potrebbero solo essere diverse dalle nostre.

    Dopotutto, giova ricordare che solo nella corteccia prefrontale del nostro cervello, dove albergherebbe il pensiero e l’intelligenza, vi sono un miliardo di neuroni, intrecciati e collegati tra loro da un milione di miliardi di sinapsi. Ogni collegamento è in grado di produrre un’idea, un pensiero, un ricordo, una genialità o un’idiozia. Solo questo ci dovrebbe far capire di cosa è in grado di concepire la mente umana. Relegarla a canoniche funzioni statistiche, è un limite alla sua creatività.

    Accettiamo come possibile l’impossibile, come verosimile l’assurdo, senza perdere la nostra normalità, ma senza escludere a priori l’esistenza di un mondo diverso, che altri, definiti folli, possono percepire. Facciamo in modo che la logica sia il giudice della fine di un discorso, non dell’inizio, poiché il percorso sarebbe viziato di arrogante presunzione. Apriamo la mente al diverso, prima di definirlo malato, anche perché, come diceva Charles Bukowski, la pazzia è relativa. Chi stabilisce la normalità?.

    La diversità è solo una delle tante espressioni di miliardi di neuroni, e di milioni di miliardi di collegamenti sinaptici. E non è detto che sia una malattia. Forse la diversità ci potrebbe far conoscere un mondo che ci sfugge, diverso dagli stereotipi che ci siamo costruiti. Forse un mondo migliore, che va indagato nella sua essenza, senza pregiudizi e senza paura, anche al di là delle nostre conoscenze e convinzioni scientifiche.

    Questo romanzo, nella sua fantastica rappresentazione, vuole essere un racconto che si apre alla possibilità di un mondo diverso, che ci fa paura, perché fantastico, metafisico, invisibile, dove una mente senza un corpo, quasi un’anima sperduta, grida alla vita e al suo diritto di esistere. E quelle grida si sentono nel cuore della notte, quando la luna è piena. Un mondo che ci terrorizza e che neghiamo, perché non riusciamo a spiegarcelo con la logica. Ma è un mondo che potrebbe esistere.

    Capitolo 1

    Palermo scivolava verso l’autunno, e i suoi platani mandavano al sole gli ultimi fiori, come calici cadenti, verdi e bianchi. Ancora fiorito era il glicine delle aiuole, che si confondeva coi fiori rossi degli ibischi dei giardini. Sembrava ancora l’estate, se non fosse stato per la pioggia di quella notte, che aveva portato nell’aria un profumo di fieno bagnato, come quello che si respira nei boschi e nelle pianure della val padana, quando dismette la pioggia e s’alza la nebbia. Ma quella mattina era tornato il sole, e della pioggia era rimasto soltanto il suo profumo. Palermo s’era colorata di nuovo, come fosse primavera.

    L’uomo vestito di scuro si stampava fra quei colori, come una fotografia in bianco e nero, in un quadro di Cascella. Passo lento, ma deciso, s’era fermato dinanzi al palazzo che stava al 137 di quel largo viale, aveva tirato un respiro profondo, di quelli che gonfiano il petto come per suonare una ciaramella, e lo aveva guardato come fosse la prima volta, e forse lo era: tre piani in stile liberty, perfettamente conservato. Lui aveva notato però solo due cose: il recinto, con il cancello in ferro battuto e le punte dorate, e un cespuglio di viole ai lati del portone. Guardò l’orologio, e si avviò. Aprì il cancello, che cigolò appena un po’, e raggiunse il portone che era a pochi passi. Rimase due lunghi minuti a guardare le viole, ed ebbe voglia di raccoglierne una. Ma non lo fece, perché gli sembrò di uccidere un fiore così delicato ed elegantemente acerbo da far apparire tutti gli altri rozzi e appariscenti. Salì le scale di marmo bianco, usurato al centro per mille e mille passi che lo avevano calpestato, poggiandosi al passamano di mogano scuro, prima scivolandovi la mano, come volesse accarezzarlo, poi facendo forza con il braccio, per aiutarsi a salire le scale. Suonò al campanello di ottone che stava alla porta del secondo piano, e fu fatto accomodare nella stanza dirimpetto.

    La stanza aveva un aspetto accogliente nella sua sobria eleganza: un camino alla parete più grande, largo e con gli alari di ottone brunito che l’arredavano; sopra, una larga cornice di mogano scuro, ricoperta di libri tenuti fermi da due blocchi di marmo ruvido. Più in qua, a tre passi dal camino, un largo divano e una comoda poltrona di pelle marrone, a tratti raggrinzita, come il volto rugoso e solenne di un vecchio sapiente. Tra la poltrona e il divano, un tavolinetto esagonale, decorato da alcune incisioni che sembravano draghi. A lui parve che fosse d’avorio.

    Il camino teneva alla sua destra una grande finestra a quattro ante e una tenda damascata che l’arredava ai lati; a sinistra la libreria, alta fino al tetto e lunga quanto la parete, stracolma di libri, ordinati secondo l’altezza o gli argomenti, con maniacale precisione. Poi quadri, per nulla banali, pendevano da ogni parete, e un tavolo, di piuma di mogano, stava a due passi dalla porta d’ingresso. Sopra, una pila di riviste ed un portacenere di vetro massiccio. Tappeti persiani coprivano tutto il parquet, che cigolava, quasi un sommesso lamento, ogni volta che lo si calpestava. Tre lumi, di fattura giapponese, spandevano una timida luce gialla dagli angoli della stanza, come a predisporre al recupero onirico dei ricordi e delle memorie seppellite.

    L’uomo, che era entrato e si era fermato al centro, aveva fotografato tutto quanto con un colpo d’occhio, e ne era rimasto piacevolmente impressionato: avvertiva, in quella stanza, un calore familiare, elegante, quasi mistico. La vedeva come un grande scrigno che custodiva segreti e ricordi, con la cura e l’attenzione che si riserva per i propri tesori, senza ostentarli, perché geloso patrimonio del vissuto.

    Invitato, s’era accomodato sul divano, dopo avere tolto la giacca ed averla poggiata sulla spalliera. S’era disteso, mentre il medico gli si era seduto accanto, sulla poltrona di pelle marrone.

    Aveva dei sogni ricorrenti che lo turbavano e non lo lasciavano dormire tranquillo, diceva, e voleva capirci qualcosa. Era alla sua prima seduta e quel medico lo conosceva solo di fama.

    «Mentre era sereno giunse un lampo che squarciò il cielo, aprendolo come un drappo strappato. E con il lampo giunse anche un tuono deflagrante, segno che la tempesta nel cielo era vicina, proprio sopra le nostre teste. Poi iniziò a piovere. Ma non era acqua: era sangue, rosso rutilante, fitto, serrato, di quello che tinge ogni cosa. Gli alberi prima, l’erba poi, quindi i nostri visi e le nostre mani si macchiarono di sangue.

    È l’apocalisse! gridarono alcuni, cercando riparo sotto gli alberi, che già grondavano rosso.

    È il giorno del giudizio! ribadirono altri, fuggendo verso le grotte.

    Rimasi solo, incerto se fuggire o attendere lì, in mezzo alla valle, qualunque cosa fosse. Poi giunse un altro fulmine, ancora più terribile del primo, e squarciò il cielo in tutto il suo spessore, come una lama che taglia il pane da crosta a crosta. E fu allora che vidi quello che accadeva: gli Angeli erano in guerra tra di loro, come lo erano i demoni tra di loro.

    L’ultimo che resterà in vita avrà il mio trono aveva detto Dio, con voce che aveva fatto vibrare l’aria e l’eco della valle.

    Poi era stato silenzio, di quello che lascia supporre che il peggio stia per accadere. Fu solo dopo un lungo ed esasperante silenzio che vidi venire giù dal cielo non più pioggia di sangue, ma Angeli e demoni, i primi senza le ali e gli altri senza le corna, sicché apparivano come uomini e donne normali».

    «E questo incubo, che lei afferma di fare quasi ogni notte, è sempre lo stesso? Voglio dire, non cambia mai qualche cosa nella sua architettura? I lampi, i tuoni, il sangue che piove dal cielo… hanno tutti la stessa sequenza?».

    «Sì, è lo stesso film ogni notte. Non cambia mai nulla. Se i sogni sono il frutto di occasionali legami molecolari della chimica dei neuroni, come affermate voi medici, mi sa spiegare come faccio a produrre sempre lo stesso sogno?».

    «È il caso o la sua fissazione nel produrre pensieri sempre uguali, durante la veglia o poco prima di addormentarsi. Non c’è altra spiegazione, almeno credo».

    «E cosa mi dice dell’Apocalisse di Giovanni? Era fissato pure lui?».

    «Se ci convinciamo che era un illuminato profeta e crediamo in loro… no, non era un pazzo fissato sulla fine del mondo e sulla visione apocalittica di quella fine. Ma se abbiamo una visione più razionalista della cosa, dobbiamo per forza asserire che era folle, o faceva involontariamente uso di allucinogeni».

    «Per lei, dottore, Newton era un razionalista?».

    «Isaac Newton?».

    «Proprio lui».

    «È stato la più razionale mente del ‘700. Uno scienziato di indiscusso valore. Ma che c’entra Newton?».

    «Newton compilò una cronologia biblica per stabilire la fine del mondo. La data che egli ricavò da tale studio fu il 2060. Lo studio fu il frutto di una decodificazione delle profezie, che egli chiamava Storie di eventi futuri. Studiò la bibbia in modo ossessivo per anni, in particolare il libro di Daniele e l’Apocalisse di Giovanni:

    In quei giorni gli uomini cercheranno la morte, ma non la troveranno. Brameranno la morte, ma essa sfuggirà Apocalisse, 9,6. Sapeva che Giovanni concepì l’Apocalisse nell’isola di Batmos?».

    «E allora?».

    «Io ci sono stato. Quella valle, la distesa verde del mio sogno, dove piovono sangue, Angeli e demoni, si trova proprio nell’isola di Batmos».

    «Ed inizierebbe proprio lì, a Batmos, l’Apocalisse?».

    «No. Secondo Newton l’Apocalisse inizierà in medio oriente, a Gerusalemme».

    «A Gerusalemme… dove tutto inizia, tutto finisce. Avrebbe una logica. Ma non lo sapevo. Newton non mi pare che l’avesse resa pubblica questa notizia».

    «Newton scelse di tenere l’umanità all’oscuro delle sue convinzioni, che rimasero segrete per circa 200 anni dopo la sua morte, avvenuta nel 1727, forse per avvelenamento da mercurio. Solo dopo il 1927 sono stati ritrovati i suoi scritti e acquistati da un americano e da un miliardario palestinese, di religione ebrea».

    «Newton studiò la rifrazione della luce e il moto delle cose… una mente raziocinante, un vero e proprio illuminista degno del suo secolo. Come può aver concepito un pensiero a dir poco allucinante? Nel 2060 la fine del mondo!».

    «L’Apocalisse! L’Apocalisse, dottore, non solo la fine del mondo».

    «Non è la stessa cosa?».

    «Non lo è. La fine del mondo è semplicemente la fine del mondo. Punto. L’Apocalisse è la fine del mondo che porta al giudizio universale. Ha una sua logica religiosa, non solo fisica. Capisce?».

    «Perfettamente. Ma non crede che Newton tenne segreta questa sua considerazione, temendo di essere creduto pazzo e deriso dalla comunità scientifica del suo tempo? Mi pare che fosse stato il direttore della zecca di Inghilterra. Se lo immagina se si fosse saputo che il direttore della zecca era ossessionato dall’Apocalisse di Giovanni, al punto di stabilire anche la data della fine di tutto quanto?»

    «Certo, tanto sereno non doveva essere, come tutti gli scienziati. Aveva una vita particolare, era un solitario: non sposò mai e non ebbe legami…».

    «Già, tanto normale non doveva essere. Ma lei? Perché pensa a Newton in relazione al suo incubo? Ci trova una relazione pertinente?».

    «No, non al mio incubo, ma al fatto che una mente come la sua potesse, alla fine, essere vittima della superstizione e assumere come vero la farneticazione di un visionario. Mi è di conforto pensare che la superstizione non si impossessa solo delle menti normali, ma anche di quelle geniali. E poi… viveva solo, come un lupo».

    «E lei? È stato vittima della superstizione qualche volta?».

    «Spessissimo! Tutti i santi giorni, rientrando a casa, il solito gatto nero mi attraversa la strada. E non mi giova rallentare e attendere che un altro mi sorpassi e attraversi la linea tracciata dal gatto. Non passa nessuno e, tra l’altro, sembra che il gatto lo capisca: si ferma al centro della strada e mi guarda, come a voler dire Mi spiace, ma è toccato a te. Capisce? Anche a non voler essere superstizioso, va a finire che ci si crede! Perché sempre quel gatto, alla stessa ora e allo stesso giorno?».

    «Non ha pensato che possa abitare lì?».

    «E mi dà appuntamento alla stessa ora? No, dottore, quel gatto è un segno di malaugurio».

    «È solo superstizione! Come il 13 venerdì».

    «Io sono nato il 13 di venerdì!»

    «Allora è immune dal malaugurio! Dicono che i nati di 13 venerdì siano immuni dal malaugurio».

    «Non era superstizione?».

    «Lo è. Ma se lei ci crede, dovrà credere anche a questo».

    «Olga dice che il 13 venerdì non porta fortuna. Lei non è nata di 13 venerdì».

    «E allora? Se lei non è nata in quel giorno, non vuol dire che quel giorno non porti fortuna».

    «Lei ne è convinta».

    «Ma chi è questa Olga? Sua moglie?».

    «No, vive con me, ma non è mia moglie».

    «Ho capito: è la sua compagna».

    «No, dottore, vive con me, ma non è la mia compagna. È difficile da spiegare…».

    «Ci provi. Forse vuol dire che vivete insieme, ma non avete rapporti da uomo e donna. Forse perché è ancora da poco…».

    «Per niente! Vive con me da oltre vent’anni».

    «Da oltre vent’anni e non avete mai fatto sesso?».

    «Proprio così, mai!».

    «E questa cosa, le sembra normale?».

    «No, non lo è. Ma il fatto che io e lei ci amiamo, ma non ci desideriamo al punto di fare sesso, certo è strano».

    «E a lei, ad Olga, questo appare normale? Voglio dire: anche lei dice che non desidera fare sesso? E da vent’anni vivete così, e dice di amarla? E di esserne amato? È strano… è la prima volta che lo sento. E dire che faccio questo lavoro da tanto tempo».

    «Vede, dottore, Olga è un tipo strano. A volte credo che sia solo un sogno, a volte un’allucinazione, a volte uno spettro. È per questo che sono venuto da lei, per capirne di più».

    «Vuol dire che Olga non ha un corpo? Vive vicino a lei, da vent’anni, come una… entità che non sa definire?».

    «Già, proprio così. Un’entità che non so definire».

    Il medico si alzò dalla sua comoda poltrona, posò la biro e il taccuino degli appunti sul tavolinetto esagonale, andò alla finestra e lasciò entrare un po’ d’aria. Non che ne sentisse il bisogno, ma avvertiva la sopraggiunta esigenza di riflettere su quello che il professor Frau, un insegnante di fisica all’università di Palermo, gli aveva appena svelato. Gli incubi apocalittici e le superstizioni erano una cosa, ma un’allucinazione che durava vent’anni… Eppure Frau non sembrava pazzo. Calmo, razionale, lucido, logico nelle deduzioni, colto, senza tic apparenti, ben vestito, educato. Ma era la prima volta che lo analizzava, e di quell’uomo non conosceva nulla, se non i modi e l’aspetto. Ora doveva andare a fondo, molto a fondo.

    «E mi dica, professor Frau, oltre a lei e ad Olga, a casa sua, vivono altre persone?».

    «No, solo io e lei. Capirà, non mi è stato facile frequentare altre donne. Anche se con Olga non abbiamo rapporti intimi, non mi è sembrato opportuno. Sarebbe stato come un rapporto a tre, nella stessa casa, nello stesso letto… no, io non sono fatto per queste cose».

    «Quindi, se si esclude Olga, vive solo».

    «Già».

    «E com’è Olga? Me la può descrivere?».

    «Occhi neri e grandi, capelli neri e corti, che coprono appena le orecchie. Naso affusolato e labbra normali, piccole ma carnose. Ha il collo sottile e slanciato, e un sorriso che riempie la vita».

    «E il resto?».

    «Il resto?».

    «Sì… avrà un corpo! I seni, i fianchi, le gambe…».

    «Normali. Ma non voglio che mi faccia domande su certi particolari».

    «Geloso?».

    «Riservato».

    «Bene, tralasciamo. E quando e come vi siete incontrati con Olga? Ricorda la circostanza del vostro primo incontro?».

    «Fu alla festa del mio diploma, o meglio, dopo la festa. Eravamo andati con i miei compagni di classe a festeggiare il diploma, in uno chalet in riva al mare. Avevo bevuto, tanto… ed io ero e sono astemio. Dopo i primi bicchieri mi girava la testa e dopo qualche altro bicchiere sono andato giù come una pera cotta. I compagni mi accompagnarono a casa verso le due di notte. Io vivevo da mia nonna, avendo perduto i genitori poco prima di compiere i sedici anni. Mia nonna aveva una casa su due livelli: due stanze al piano terra per lei e due al primo piano per me. Mi misi a letto mentre mi girava tutto intorno. Provai a fissare il tetto nella penombra della stanza, sconvolto per quella mia prima ubriachezza che mi aveva rovinato la festa. Avevo vomitato prima di arrivare a casa e la nausea stava passando, ma mi rendevo conto di vedere doppio. Poi mi accorsi di non essere solo: sul letto, accanto a me, che mi guardava in silenzio, c’era una ragazza: era lei, Olga. Pensai che l’alcool faceva anche scherzi di questo tipo, chiusi gli occhi e mi addormentai di colpo. La mattina del giorno dopo Olga era ancora lì e non mi ha mai più abbandonato».

    «Lì, sul letto vicino a lei? E cosa le disse? Non le chiese chi fosse e che ci facesse lì da lei?».

    «Le sorrisi. Credetti che fosse stata una studentessa dell’altro corso che aveva festeggiato il diploma come me e che, ubriaca anche lei, si fosse addormentata sul letto con me. Ricordo che mi alzai e andai in bagno. Al ritorno non c’era più. Pensai che se ne fosse andata, ma la sera, andando a letto, me la ritrovai accanto, sorridente».

    «E lei? Cosa le disse? Non le chiese chi fosse?».

    «La cosa strana sta proprio qui: l’avvertivo come un’amica di sempre, una persona conosciuta da molto. Glielo chiese e lei mi rispose che trovava strana quella domanda e strano che non mi ricordassi di lei. Cos’è, l’ebbrezza di questa notte ti ha fuso il cervello? Ti ha resettato la memoria? Non ti ricordi o fai finta? Sono Olga. Mi rispose proprio così».

    «Nel suo sogno ricorrente, quello dell’apocalisse e del sangue che piove dal cielo, lei dice: Quindi i nostri visi e le nostre mani si macchiarono di sangue. Devo dedurne che nel sogno non è solo. C’è Olga con lei?».

    «Certo! Olga c’è sempre, quando sono sveglio e quando dormo. Gliel’ho detto: non mi abbandona mai anzi, per la verità, è stata proprio lei a suggerirmi di consultare uno psichiatra per i miei sogni ricorrenti. Alla fine credo che anche a lei facciano paura».

    Il dottor Takaiasu, psichiatra giapponese, ma residente dai tempi dell’università a Palermo, abbassò la testa per guardare meglio da sopra gli occhialini rotondi poggiati sul naso, e lo fissò senza dire una parola. E senza prendere appunti circa quell’ultima frase. Poi si alzò, andò vicino al camino dove stavano alcuni libri e, da dietro la prima fila trasse un registratore. Lo mostrò al professore e lo informò che da quel momento avrebbe registrato ogni cosa. Al professore non sembrò strano, anzi, era stato strano che non fosse acceso da prima, pensò Gli psichiatri lo fanno sempre

    «Devo ripetere dall’ultima frase?».

    «No, professore, non occorre. Inizieremo da domani: per oggi il tempo è già scaduto» aggiunse guardando l’orologio. «Tornerà domani, e riprenderemo da dove abbiamo lasciato».

    Il professor Frau lasciò lo studio del dottor Takaiasu alle 18 in punto e si diresse, con calma e a piedi, verso casa sua. Era a meno di un chilometro, dopo tre semafori e una piazza con mercatino rionale. Qui si fermò dall’ortofrutticola, diede un’occhiata alla merce e scelse dei carciofi che facevano bella mostra in una cesta di vimini, brillanti di acqua spruzzata addosso per ravvivarli. I carciofi erano di quelli con le spine, cardo sottile e tenero, foglie lanceolate e strette al cuore, come le cipolle, dove ogni foglia è serrata all’altra in un abbraccio stretto stretto. Un corpo affusolato, come un bocciolo di rosa, alla cui estremità stanno le spine, tutte quante quelle delle foglie, fino a culminare in un punto dove si incontrano sempre. Eleganti!

    L’eleganza non sta soltanto nei colori e nella natura delle cose, ma nel portamento. Come nelle persone, anche nei carciofi. E i carciofi con le spine sono eleganti. Tutti gli altri sono gonfi alla pancia, come un otre ripieno di vino e, al posto delle spine che li slanciano, hanno l’apice della foglia ricurva e infossata, come i merli delle antiche torri. Tutti gli altri sono goffi, come alcune rose che, per il solo fatto di chiamarsi così, pretendono d’essere eleganti.

    «Me ne dia cinque, per favore. Ma tagli i cardi in modo diseguale, come per un mazzo di fiori. Poi li leghi alla base e vi metta della carta alluminio. Li devo regalare».

    «A una donna? Spero di no. Sarebbe un’offesa».

    «E perché mai dovrebbe esserlo?».

    «Non so, appare come un messaggio… come dire… spinoso».

    «La donna che frequento io è diversa da quella che lei può immaginare. Ella ama la bellezza e l’eleganza, quella vera e di sostanza, non quella frivola e superficiale. Se così non fosse, non potrebbe amare me».

    «E perché mai? Non è mica brutto, ha portamento e si vede che è una persona a posto. Se mi permette, direi che è affascinante. Credo che per un uomo sia un gran complimento».

    «La ringrazio. Ma se è per invogliarmi all’acquisto della sua mercanzia, le ricordo che ho già acquistato».

    «No, non è per questo. Ecco a lei. Fanno cinque euro».

    Il prof. Frau prese quei carciofi, pagò la somma richiesta e andò via, oltre la piazza, girò all’angolo sinistro e si fermò al numero 13 di quella via. La portinaia quel pomeriggio non c’era. Frau tirò fuori le chiavi e salì per le scale: primo piano, interno 1. Entrò e raggiunse la cucina. Olga la vide seduta vicino alla finestra, nella penombra che le oscurava il corpo, mentre la timida luce della sera le illuminava il viso.

    «Andata bene la seduta dallo strizzacervelli?».

    «Sì, anche se credo di averlo sconvolto. Certe ammissioni sconvolgono pure me, figuriamoci gli altri».

    «Gli hai detto di me?».

    «È lì che l’ho sconvolto! Mi ha anche chiesto, dopo essersi riavuto, che ti descrivessi, ma credo che l’abbia fatto più per sapere fino a che punto potesse arrivare la mia follia, che per curiosità».

    «E tu? Mi hai descritto?».

    «Per sommi capi, il viso, il naso, i capelli… per sommi capi».

    «Gli hai parlato della tua volontà di suicidarti?» Frau si girò verso Olga e la guardò chiedendosi il perché di quella domanda.

    «Chi ti ha detto che voglio uccidermi?».

    «Che sei infelice te lo leggo negli occhi, da un pezzo. Ma ho trovato un tuo scritto fra le cose che tieni nel computer: appunti, poesie, impressioni. Scusami, ma ne ho letto una scritta il 30 dicembre dell’anno passato. Questa- aggiunse guardando lo schermo del computer».

    Frau lesse, ad alta voce:

    "30 dicembre 2010.

    No! Per favore, la musica di Natale, no! Vada pure per le luminarie, gli auguri, i regali… ma la musica no! Quella strappa il cuore, specie a chi è solo e non spera di cambiare in meglio la propria vita.

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