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Nel 2073! Sogni d'uno stravagante
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Nel 2073! Sogni d'uno stravagante
E-book347 pagine5 ore

Nel 2073! Sogni d'uno stravagante

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Info su questo ebook

Come se lo immaginavano il Ventunesimo Secolo verso la fine dell'Ottocento? Quanto simile si è rivelato essere? In una delle prime opere fantascientifiche della letteratura italiana, Della Sala Spada si avventura in un romanzo utopico che azzarda a indovinare un futuro abbastanza lontano per la società dell'epoca. Come in ogni romanzo speculativo, nel mondo d'arrivo si ritroveranno le stesse tematiche di quello originale—vederle a distanza getterà nuove luci, nuove sfumature impossibili da cogliere nella vita di tutti i giorni. -
LinguaItaliano
Data di uscita4 lug 2022
ISBN9788728327647
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    Anteprima del libro

    Nel 2073! Sogni d'uno stravagante - Agostino Della Sala Spada

    Nel 2073! Sogni d'uno stravagante

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1874, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728327647

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    A Luigia

    T eco dilettissima, negli intimi ed affettuosi colloqui, ideai questo libro; ma tu, benché sul fiore della giovinezza, presentivi la tua fine, ahi! non lontana, e mestamente affermavi che letto non l’avresti!

    Così, come tu dicevi, avvenne!

    Ed io continuai a scrivere e tratto dalla forza dell’argomento, narrai cose scherzevoli, mentre il cuor dava sangue. Così quell’attrice che in sul mattino aveva composto nella bara l’unica figliuola, la sera, tinta di minio, doveva far ridere il pubblico in una burlevole farsa.

    Ed ora, come a te ho dedicata ogni più cara cosa, ti sacro questo libro, o mia povera morta.

    Non desidero prolungare i giorni del mio pellegrinaggio sopra la terra e tu lo sai che tutto vedi, ma se essi saranno lunghi finché i bimbi che io m’ebbi da te non ne andranno perduti nell’essere orfani anche di padre, con opera di maggiore lena prometto consacrare il tuo nome.

    Oh! io t’amo, mia povera morta, e se m’illudo fantasticando su quella Evangelina che io dipinsi pensando a te, non m’illude invece una fede viva, ferma, incrollabile la quale mi dà, non speranza,

    «Ma la certezza di vederti ancora.»

    Capìtolo I.

    In cui parlasi un poco dell’Autore e del cervello, a cui si canta un inno.

    M i chiamo Saturnino Saturnini e per certe mie idee particolari, non comuni al più degli uomini e certe cose da me fatte che uscivano dell’ordinario, fui detto e chiamato stravagante, il che suona pazzo o poco meno nell’intendimento di molti.

    Se lo sia o no, io non vado a cercare, ché la stima degli uomini in certe cose la non mi fa né caldo, né freddo, ed in questi tempi poi è difficile a giudicare quali sieno i matti, e quali i šavii.

    Nullameno, mi conviene fare una confessione, ed è che il mio cervello mi fa alcune volte degli strani giochetti, e la parte fantastica, aiutata mirabilmente dalla memoria, opera così da farmi parer vero e reale, ciò che non è né l’uno, né l’altro.

    II cervello, secondo me, mi perdonino i fisiologi anatomici se dico degli strafalcioni, è un composto di molte cellule, ognuna delle quali ha la sua destinazione, e una buona parte di quelle cellule è destinata alla memoria, e in esse dee succedere quello che succede nelle macchine fotografiche, ma con molta maggior forza, con molta maggiore varietà. Gli oggetti esterni, tutto ciò che in fatti e in detti ci fa impressione, colpisce i sensi, si fissa in quelle cellule, se ne formano gruppi di immaginette, ed a tempo e luogo, secondo la volontà ed alcune volte contro la volontà, quegli oggetti, quei gruppi, quelle immaginette appariscono e come vetri colorati dalla lente della lanterna magica, così in piena luce si presentano alla fantasia.

    La parola fotografia sta proprio al caso; luce e scrittura suona in greco, ed è ben luce, e che luce, la quale trasporta quegli oggetti dall’esterno all’interno, ed è bene scrittura quella che li segnagli imprime e con che penne, con quali punte, nel cervello. Come in una tela, sopra una carta, col lungo andare si cancellano le immagini che il sole, aiutato dai composti chimici, vi ha deposte, così possono svanire le immagini poste nelle molli cellule della parte destinata a ricordare, alcuna volta e per la tenuità e poca importanza delle immagini stesse, alcune altre perché la materia che le ha ricevute aveva perduto, o perdette dappoi la sua potenza, o perché s’è indebolito l’organo, è scemato il fosforo che doveva richiamarle e farle risplendere in piena luce.

    Alcune di queste immagini invece vi ci stanno fisse in modo singolare e non le si possono cancellare; hanno forse pochissima importanza con quanto ne circonda e pure esse non isvaniscono dalla misteriosa, arcana negativa fotografica che trovasi stupendamente collocata nel cervello.

    Che se’tu mai, o cervello?

    Tu sei l’anima; ti dicono fosforo, coloro che ragionano e sarai fosforo, ma fosforo meraviglioso che t’accendi e dai luce come il sole; il raggio che da te si diparte riscalda, vivifica; ha creato l’Iliade e la Divina Commedia.

    Molle e bianco involucro, io sono per te, per te esiste il mio io, per te sento d’essere il centro dell’universo che mi circonda.

    Il mio passato non sarebbe se tu non premessi contro le pareti del mio fronte, le tue cellule sono il ricetto della memoria, lo scrigno dell’immortalità.

    Che sarebbe la istoria, se la mano dell’Onnipotente non avesse in armonia disposte le tue fibre? Chi ricorderebbe la prima êra del mondo, la battaglia del caos, della luce e delle tenebre, le vicende dell’umanità dai primi vagiti ai delirii di mille popoli, se tu, imperante, non ci sovrastassi?

    Per te io salgo sul carro d’Ezechiello; per te mi tuffo in mezzo alla sonante procella; guizzano attorno a me le folgori che si attortigliano, si stringono e si annodano in trecce mostruose, s’allentano, scompaiono, s’inseguono come enormi serpenti di fuoco; tuonano schiantando e una eco, quella dei poli, rimanda quell’onda orribilmente sonora.

    Ecco il vento turbinando mi afferra, mi aggira come foglia d’autunno, mi solleva al limite delle nubi, mi squassa, poi colle nebbie e le nubi si ripiega quale titanica onda ed io scorro i cieli e mi libro per un aere in cui improvvisamente si accoglie dolce color d’oriental zaffiro.

    La tua ala infaticabilmente agile e presta mi trasporta, o cervello, a voli, ove non è giunto il condor, mirabile augello; forse vi giunse soltanto il fanciullo rapito da Giove.

    Ma tu porgi innanzi alla parte in cui in me si urtano gli affetti, una stupenda forma di donna, e dalle sue pupille, cui altro cervello dà vita, scende un fuoco che mi divora. Sarà ella un angelo? Volerò con lei. Sarà un demone? E con lei mi sprofonderò nei baratri del vizio. O Aspasia, o Bice, o la femmina pagana, o la vergine circonfusa dal profumo cristiano.

    E tregua non mi dai e mi costringi ad altre lotte, mi fai leggere nel sole con Galileo, studiare le eterne pagine del firmamento con Newton, impallidire con Macchiavelli sul mostruoso codice degli inganni dei principi, mi fai piangere sulla storia dei mille martiri d’un’idea, tremare sul presente dei popoli, vagheggiare nel futuro una nuova città di Dio.

    E tu, maraviglioso Automedonte, stringi colla mano potente le cento briglie che fanno capo ai sensi, e spingi, allenti, freni, inciti a vie sconosciute e nuove.

    L’aria muta diventa armonicamente sonora: Rossini; la tela parla per una soavità beata di labbra: Raffaello; il sasso ha vita, dorme ed è sveglio: Michelangelo; la forma vince la materia, e la materia è oro: Cellini; il mattone si disegna in arco lambendo le nubi: Brunelleschi.

    Una lieve pressione della tua sostanza delicata eccita l’idea, l’idea dà vita al pensiero, il pensiero diventa concetto, il concetto disegno, il disegno si esplica, si attua ed ecco una nazione formata od una distrutta, o Mazzini e l’Italia, o lo Czar delle Russie e la Polonia.

    Non veduto, chiuso nella tua scatola d’osso, sei il dominatore del mondo; tu spingi l’umanità nel gran cammino dei secoli, per te essa geme libera o schiava, per te il Medio Evo o l’Ottantanove, Chambord o Gambetta, per te la tirannia o il governo del popolo, la vera libertà, o il petrolio della Comune.

    Salve, o cervello, tu non pesi che quattro libbre, è piccolo il tuo volume, ma tu puoi con una pulsazione delle tue fibrille avanzare la umanità nella gran via del progresso, farla indietreggiare di secoli.

    Salve, o cervello, voglia tu essermi guida nel cammino della vita; dalla tua altezza dirigi il cuore a sensazioni pure, fammi dimenticare le impressioni d’odio, slancia quel fascio stragrande di luce che chiamasi mente, per cieli interminati in cui solo danzino il bello ed il buono, acuisci la freccia potente del raziocinio in offesa dell’ingiusto, in sostegno dell’oppresso, siimi faro nelle intricate sirti di questo mare ove ad ogni poco ci minaccia il naufragio, domina gli affetti, frena gli impeti ond’è scossa quest’anima mia e riduci me e la mia patria a quel porto di salute che tu mi hai fatto sognare.

    Ma perché io mi son fatto a dire tutto ciò? In verità che c’è da ridere, e gli uomini hanno ragione a chiamarmi stravagante.

    Capitolo II

    In cui si narra la leggenda de’ Sette Dormienti

    D el resto non c’è poi tanto da ridere; con quelle parole ho cercato rendermi amico il cervello. I grandi poeti invocarono o le Muse o Apollo; Omero nell’Iliade pretende che la Diva gli canti il Pelide Achille, e nell’Odissea vuol che la Musa gli dica di quell’uom di moltiforme ingegno che fu Ulisse; Esiodo Ascreo nella Teogonia, dopo grandi lodi alle Muse Eliconie, le supplica a dire le cose che desidera, dal lor principio, e nei Lavori e nelle Giornate prega le Pierie Dee a movere il canto; Apollonio Rodio nelle Argonautiche vuol che l’inizio sia da Febo; e dai Greci venendo ai Latini, Ovidio supplica addirittura tutti gli Dei a dargli aita, perché i suoi versi delle Metamorfosi sieno immortali, e Virgilio vuol che la Musa gli detti le cagioni di tante cose e cosi poi Dante e Tasso invocano e le Muse ed Apollo, ed il portoghese Camoens, le vaghe ninfe del Tago, e sarebbero infinite le citazioni degli scrittori che invocarono qualche cosa prima d’incominciare le loro opere.

    Ed io che non credo un fico secco alle Muse ed al loro maestro Apollo, posso ben rendermi caro ed invocare un arnese più utile, qual è il cervello; mi si potrà forse dire, che le invocazioni sono cose viete, ed io risponderò che sono tornate di moda le pettinature alla greca e tante cose, sicché possono bene riporsi in uso le invocazioni e massime al cervello… organo di cui si ha tanto bisogno nel secolo decimonono.

    Ma ritorno a quanto diceva più su.

    Molte cose adunque che fecero impressione sopra di noi, non vogliono più dipartirsi dalla mente, la quale ci fa d’attorno un lavoro singolare. E così, per dire di me, un nonnulla diventò per il mio cervello una faccenda importantissima, segno evidente che qualche cosa d’un po’ diverso dagli altri c’è nel mio cervello.

    In breve dirò quello che mi accadde nel cranio.

    Mentre era fanciullo, mi si narrò parecchie volte dal mio maestro la storia dei Sette Dormienti, o leggenda che la si voglia chiamare, e colla fantasia incominciai accarezzare tutte le idee che vi sono annesse, e che in quel tempo era capace annettervi, mi fermai sopra con un’insistenza quasi ostinata, abbellii tutto quell’insieme di cose, di guisa ché anche crescendo negli anni, coll’aiuto delle altre facoltà mentali, quella muta narrazione diventò, per servirmi della già fatta similitudine, una stupenda veduta fotografica, corredata, resa bella da tanti e svariati episodi.

    Forse non tutti conoscono quella leggenda, ed io apro una parentesi per narrarla nuda nuda come venne a me narrata.

    Ai tempi in cui si perseguitavano i cristiani, sette giovani d’Efeso furono messi vivi e rinchiusi in una caverna. Non era forse ben chiusa ancora ogni fessura che i giovani profondamente si addormentarono e dormirono, dormirono nientemeno che per cento ottanta sette anni. Accadde allora che alcuno di fuori tolse così per caso uno dei sassi che stavano alla bocca della caverna, il sole vi penetrò e quei sette si svegliarono dal loro sonno secolare. Il primo bisogno che sentirono, quello si fu di mangiare, e credo che il loro stomaco dopo cento ottantasette anni di digiuno dovesse per bene sentire gli stimoli della fame. I quali si fecero così forti ed acuti che alfine i sette deliberarono spedire uno di essi alla città affine di comperare del pane. Quel tale uscì con molta circospezione dalla grotta e cominciò fare le grandi maraviglie nel vedere intorno a sé tutto cambiato; il poverino non credeva ai suoi occhi e non poteva immaginarsi come in poche ore, quante appunto credeva averne dormito, si fossero fatti tanti cambiamenti. Vide sentieri, strade, piantagioni, alberi giammai veduti prima, e a stento rinvenne la via per recarsi alla città. Quivi nuove case, nuovi edifici, dimodoché colui di tanto in tanto fregavasi gli occhi, credendo di dormire ancora, e di sognare. Ma qual fu la sua sorpresa allora che in mezzo ad una piazza vide innalzata una croce! Come? — diceva tra sé e sé il giovane… di due secoli — come, ieri io fui co’ miei compagni rinchiuso in una caverna per questa croce appunto, ed oggi la viene in pubblico, in mezzo ad Efeso innalzata? Io sogno, sogno davvero! E faceva segni ed atti di stupore e di ammirazione; ma poi vedendo che parecchi lo guardavano con una certa sorpresa, si raccolse in sé stesso, si contenne e vista l’insegna d’una bottega da fornaio, v’entrò per comprarvi i pani. Il bottegaio guardò con grandissima meraviglia quell’uomo vestito così all’antica, e crebbe la sua meraviglia quando lo sentì a parlare con un accento non più in uso; nulla meno gli pesò i pani e l’altro gli porse una moneta. Il fornaio la prese, la guardò strabiliando, e ne aveva ragione perché quella moneta era di due secoli avanti e portava la effigie di Decio, mentre al presente era imperatore Teodosio. Il bottegaio grida, accor gente, s’accusa l’uomo straniero d’avere trovato un tesoro, è condotto dal giudice, ed alfine si viene a scoprire tutta la faccenda del sonno che ha durato cento ottantasette anni!

    Questa è la leggenda; ma come io dissi, cominciai ad aggiungervi degli amminicoli, degli episodi che riguardavano le varie sorprese di quei sette allora ché si risvegliarono e videro tante cose cambiate, e la soddisfazione d’ognuno nel sapere da esseri vivi come proprio erano andate le cose due secoli avanti.

    E così la memoria del racconto divenne un lavoro per la mia fantasia, e mi feci come l’eroe di quella leggenda, non più in quei tempi, ma al presente, e m’immaginai di dover dormire per dugent’anni e rivedere il mondo, la società, dopo un tal tempo. Col fervido incalzarsi delle cose oggidì, col vertiginoso progredire delle scienze, delle industrie, dei commerci, che mai sarà del mondo, degli uomini, della società fra due secoli? Oh! poter dormire per tanti anni come quei sette giovani d’Efeso, e poi risvegliarsi!

    E a forza di pensarci su, a forza di martellare sopra questo e riflettervi, vennemi come una malattia al cervello, una smania di poter trovare il modo di procacciarmi un sonno secolare per vedere poi di lì a secoli le faccende del mondo.

    Esser profeta non mi bastava; voleva qualche cosa di più efficace, di più reale, vivere cioè nei tempi, vedere gli avvenimenti che un Isaia si sarebbe contentato di profetare.

    E questa smania si fece più veemente, più mi faceva a considerare gli uomini e le cose del tempo presente; la società mi pareva composta di pigmei, i quali solo prendevano le proporzioni di giganti nell’egoismo; la buona fede io la vedeva sparita; sparita ogni cosa che buona, giusta ed onesta fosse; tutto incominciò venirmi in uggia, irritarmi; un umor nero m’invase e si fu allora precipuamente che incominciai fare delle stravaganze e fui detto perciò stravagante.

    Quella smania diventò manìa; ad ogni costo io voleva trovare il modo di lasciare il secolo decimonono e saltare dopo il duemila.

    La cosa era tale da mandare davvero pazzo un povero galantuomo, e giammai negli ospedali era entrata una persona con una fissazione simile nel cervello.

    La doveva proprio toccare a me.

    Certo quel buon mio maestro quando mi narrava la storia dei Sette Dormienti, non credeva mai più che la macchina fotografica del mio cervello ne avrebbe sì ben conservata la ricordanza; non si immaginava che la mia fantasia ci avrebbe fatto d’attorno un tal lavorìo e che, compreso io da disgusto del vivere presente, di viva ed acre curiosità di sapere il futuro, da acuta brama di trovarmi vivo in questo futuro, mi sarebbe entrata in corpo la pazza idea di mettermi con tutti i mezzi a cercare il modo di rivedere la terra dopo dugento anni.

    E davvero mi posi efficacemente a studiare se era possibile riuscire in quanto m’era fissato.

    E il mio cervello, al quale più su ho dette tante belle cose, cominciò a premere in maniera molto diversa contro le pareti del mio osso frontale.

    Capitolo III

    Notizia d’un giornale inglese

    E ra il 1873 e la mia idea da pazzo mi aveva tratto a studi scompigliadssimi e sulla fisica, e sulla chimica, e perfin su quell’arcana scienza del magnetismo, e, l’ho a dire? perfino sulla magìa.

    Sprecai grandi somme in macchine, in preparati, in prodotti, in minerali e feci gli esperimenti più bizzarri che mai alchimista abbia ardito di fare.

    Ad una ad una poi mi misi a studiare tutte le ventisette proposizioni d’Antonio Mesmer, la storia critica del Deleuze intorno al magnetismo animale, e lessi e meditai il rapporto che intorno a questa scienza fece la Commissione eletta dall’Accademia di medecina francese ad istanza di Foissac; studiai il Trattato teorico-pratico di Francesco Amedeo Duppet ; comperai quanti libri ed opuscoli trattassero del magnetismo, e mi posi poi a fare esperimenti io stesso.

    Tavolini, sedie, bicchieri, cappelli, tutto provai a magnetizzare; ma convien dire che io avessi ben poco fluido, perché non riescii ad ottenere il più piccolo moto, il più piccolo segno che mi desse vedere che quei mobili sentissero la mia influenza magnetica.

    E sì che da parte mia non mancavano gli atti volitivi!

    Andai più in là, ed a forza di ragionamenti indussi una mia fante, una robusta Chiusina, a lasciarsi magnetizzare; ma ebbi un bel esperimentarla; io non ottenni né pure che essa diventasse seria almeno per un momento. Rideva, rideva sempre, la pettegola, e tutti i miei gesti, le mie occhiate non ottenevano da lei che un riso lungo, prolungato e proprio fuori dei gangheri.

    Un altro si sarebbe stancato! io no: e lasciando il magnetismo, mi posi a studiare magia. Mi procurai dei libri e lessi avidamente il Trattato della Magia bianca delDecremps, la Magia nera del Porta , la Magia nera o il segreto dei secreti d’roe Greco , Le lettere di SainťAndré, il Trattato sul sortilegio diDaugis ed altri cento autori, ma non ne riuscii a nulla.

    Insomma né fisica, né chimica, né magnetismo, né magia, né altra occulta scienza m’avevano insegnato anco un lontano mezzo per riuscire allo scopo che io desiderava.

    Far tacere, assopire per uno o due secoli i principii vitali e poi risvegliarli, era cosa cotanto maravigliosa, così ardua, che dopo lunghissimi studi fatti con tanta costanza, io finii per convincermi che non il difficile mi stava dinanzi, ma quell’ostacolo insormontabile ad ogni umano sforzo che chiamasi l’impossibile.

    E ciò mi rese oltre ogni dire triste e melanconico.

    Un giorno io teneva tra mani un giornale inglese, e la sua prosa rendeva in me più acuti i morsi dello spleen; scorreva sbadatamente coll’occhio quelle fitte e lunghe colonne, sbadigliava convulso, e poi senza volerlo, il mio pensiero, come l’ago della bussola verso il nord, tornava su quel folle progetto di dormire per dugento anni.

    Ma ad un tratto i miei sguardi si fermarono sopra un articolo di quel giornale e lessi dapprima senza troppo riflettere, poi sempre con maggiore attenzione le seguenti parole:

    «Il dottissimo professore Rokroktwen di Laybach, ha fatto uno straordinario esperimento. Egli chiese al signor Thiers, presidente della repubblica francese, due comunisti destinati alla morte per ucciderli e poterli risuscitare di lì a tre mesi. Purtroppo il signor Thiers non si trovò gran che imbarazzato nel trovare degli uomini i quali coll’accusa d’essere comunisti, egli e il suo governo avessero condannati a morte, e tosto bene scortati, spedì al prof. Rokroktwen i nominati Firthe e Trippeau, i quali avrebbero dovuti essere fucilati a Versailles. Il metodo che tiene il suddetto professore pel suo esperimento consiste, per quanto se ne sa, nell’iniettare con una soluzione di calce tutto il sistema, affine d’impedire la dissoluzione; secondo questo metodo il paziente può essere richiamato in vita non solo dopo tre mesi, ma anche dopo cento anni.»

    Se già dapprima la lettura di quelle linee, mi aveva fatta una grandissima sensazione, come giunsi a queste ultime parole, io feci in vero salto sulla sedia.

    Ah! io aveva dunque trovato quanto desiderava, quanto formava da anni la mia più cara speranza! Sì, io poteva certamente fare come quei buoni Sette dormienti de’ primi tempi dell’êra nostra e dormire come loro un secolo e più! Me lo accertava, me l’assicurava quel giornale serio della seria Albione, e di necessità gli si doveva credere.

    M’ingolfai in quel pensiero, ma così a poco a poco cominciò a farmi una certa impressione quell’affare dell’iniezione della calce in tutto il sistema; mi palpai come per istinto ed un sudor freddissimo mi corse per l’ossa.

    Intanto il giornale m’era caduto sulle ginocchia e la mia mente malata vagava dai Sette dormienti alla calce, dal piacere nello svegliarsi di lì a cento e più anni alla sensazione, per lo meno singolare, di farsi iniettare tutto il… sistema di calcina.

    Stetti mezz’ora fantasticando spiacevolmente a quel modo e poi gettati di nuovo gli occhi sul giornale, ripresi a leggere:

    «Alla presenza di molti funzionarii pubblici e di varii testimonii, Rokroktwen diede il cloroformio ai due condannati, e quindi li svenò…»

    Quest’ultimo verbo, sebbene in tempo passato, mi fece un effetto maggiore che non l’infinito iniettare’, e pure per iniettare, e della calcina, conveniva fare delle aperture, svenare; la cosa era naturale, terribilmente logica, salvo che il professore Rokroktwen, da quel detto che doveva essere, non avesse trovato altri mezzi più umani per introdurre la sua soluzione nel sistema.

    Ma pareva di no.

    E quel giornale continuava a parlare su questo tono:

    «Fatta l’iniezione con moltissima cura, i corpi dei comunisti Firthe e Trippeau, furono disseccati finché non divennero rugosi e la pelle non diventò gialla come il cuoio…»

    Qui mi guardai sospirando le mani, unica pařte che io vedessi scoperta, e l’idea della pelle che doveva diventare come il cuoio interno delle mie scarpe, mi fece venir freddo. Nondimeno continuai a leggere dopo alcun poco:

    «Per tre mesi rimasero esposti ad un calore moderato quindi si procedè al tentativo di risurrezione, trasfondendo nelle loro vene il sangue di varii operai ed applicando una batteria elettrica. Per il povero Firthe l’esperienza non riusciva, ma per Trippeau riuscì in modo maraviglioso. Cominciarono gli occhi roteare nell’orbita, i muscoli a distendersi, il cuore a battere dopo una cura di parecchie ore, il Trippeau si mise a parlare, bevette acquavite, non lagnandosi che d’un certo indolenzimento alle membra.»

    Sfido io! — esclamai tra me e me.

    «Ora egli sta benone, mangia, beve e veste panni ed è ito a dimorare a Londra, ove ha preso il nome di Cripper.»

    Quando ebbi finito di leggere tutto quell’articolo, mi trovai oppresso da indescrivibile angoscia; solo avessi voluto poteva adunque far diventare realtà il lungo sogno, ma il mezzo era terribile. Bisognava prima lasciarsi svenare, lasciarsi iniettare di calce e poi cuocere in un forno. L’esperienza aveva davvero tutti i gradi del terribile!

    E se per me non fosse riuscita come pel povero Firthe? Invero che la mia mente fu orribilmente angustiata e stretta dall’urto e dal cozzare di quei pensieri opposti e tremendi. Alcune volte aveva paura che il mio desiderio, la mia scomposta smania di poter vedere la società ed il mondo di lì a tanti anni, mi trasportassero al punto da sottopormi all’esperienza del professore Rokroktwen, altra volta temeva invece che la paura d’essere svenato, di essere iniettato e cotto da diventar giallo come il cuoio, m’impedisse di coronare quella speranza che da tanto tempo aveva vagheggiata.

    Per riuscire a quello che aveva fatto il Rokroktwen a quanti studi non m’era io dedicato, quante fatiche non aveva sopportate, a quali torture non aveva posto il mio povero cervello! Ed ora, ora che proprio avrei potuto ottenere quanto era stato per sì lungo tempo il mio desiderio, la mia brama, perché indietreggiare?

    Ma il vedersi aprir le vene, il sentirsi iniettare di calce, fosse pure soluta, l’essere cotto in un forno, anche a calore moderato, erano tali cose da fare spiritare un uomo di paura.

    E così coll’animo sconvolto in mille guise io dimagriva in modo sensibilissimo e minacciava di consumare ed andarmene daddovero, senza speranza di resurrezione.

    Dopo una lotta interna che durò più settimane, alfine presi una energica risoluzione, quella di recarmi a Laybach dal professore Rokroktwen.

    E tosto mi preparai al viaggio.

    Capitolo IV.

    Il professore Rokroktwen di Laybach

    P er la via Semmering io mi recai a Lubiana, Laybach in Tedesco, sede delle conferenze del 1821. Disceso ad una locanda, rifocillatomi da un ristoratore, domandai notizie del professore Rokroktwen e tosto mi venne indicata una casetta solitaria in mezzo agli alberi, posta quasi in riva al fiume Laybach che dà nome alla città, se pure non è la città che dà nome al fiume.

    Questa casetta non aveva nulla di particolare da meritarsi osservazione, e pure io la guardai a lungo prima di battere alla sua porta.

    Là dentro doveva risolversi, così almeno pensava, il gran problema che aveva tanto affaticata la mia mente, e quel sapere d’essere vicinissimo a quella risoluzione, produceva in me un senso indefinito che oscillava fra

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